Rumorismi da dancefloor che dai tempi di "Klunk" (2006) non si evolvono di una virgola. Se stessimo parlando di un singolo non ci sarebbe alcun problema, e infatti in "Metal machine" ci sono delle tracce di un certo spessore. Ma questo è un album. E la techno non melodica può sopravvivere sotto forma di album solo se A) si tratta di qualcosa di davvero innovativo (e non è questo il caso) B) il disco è una raccolta di singoli spacca-pista (cosa che qui succede solo a metà).
Come contraddire i fan di vecchia data di Chris Cornell? E' del tutto normale che ci sia una sorta di shock nell'assistere alla trasformazione dell'arrabbiato frontman dei Soundgarden (e poi dei meno estremisti ma sempre duri Audioslave) in un cantante pop a tutti gli effetti. Di quelli che chiamano il produttore del momento per dare un certo suono all'ultimo disco. Di quelli che si inchinano alla moda del vocoder ("Sweet revenge"). Di quelli che cambiano anche la propria immagine, rendendola contestuale alla nuove direzione musicale che hanno deciso di prendere. Ma sarebbe sbagliato non considerare una serie di particolari tutt'altro che insignificanti. Per esempio che Timbaland non si può più definire "il produttore del momento", ma piuttosto un vero genio. O che un cambiamento può essere visto anche come evoluzione, a maggior ragione se il soggetto in questione è un vero artista (e fino a prova contraria Cornell lo è). E sarebbe da sciocchi rifiutare l'opportunità di ascoltare il risultato di un incrocio bastardo tra un artista e un genio appartenenti a mondi diversi unicamente per una questione di barriere musicali solo apparentemente insormontabili. A volte i pregiudizi possono essere davvero limitanti.
7/10
Highlights: Part of me, Sweet revenge, Ground zero, Take me alive, Long gone, Other side of town.
Gli Australiani che secondo alcuni qualche anno fa hanno rivitalizzato la scena drum'n'bass ritornano con "In silico". Produzione brillante (forse troppo), una valanga di melodie e armonie vocali (forse troppe) e il solito marcato spirito rave che si mostra in tutta la sua barbara sfacciataggine con linee di synth graffianti e una sensazione di pienezza del suono che a lungo andare più che arricchire può disturbare. A loro favore c'è la volontà di proporre qualcosa di costruito e particolareggiato in una scena che spesso fa dell'essenzialità la sua ragione di vita; di contro la lunghezza dei pezzi si rivela pesante e controproducente, i beat sono piuttosto ripetitivi e lo schema diventa presto prevedibile.
6/10
Highlights: Showdown, The otherside, Mutiny, 9000 miles.
Ancora un po' di quella dolce e lenta intimità "alternativa" che aveva caratterizzato il bellissimo debutto di un anno fa "Peaceful, the world lays me down". Ancora, per favore.
Questa volta non servono concetti ricercati tipo "Summerteeth" o "A ghost is born", perchè l'ultimo disco dei Wilco, band incline agli sperimentalismi per costituzione, è un'ode alla semplicità. L'inequivicabile messaggio che i ragazzi di Chicago vogliono comunicare è che la stabilità del gruppo (è fatto inusuale che la line-up non sia cambiata di una virgola dalle registrazioni del precedente "Sky blue sky") si stia riflettendo anche in una splendida naturalezza che cresce a braccetto con la loro maturità, portandoli ad incidere un album semplice e bello. Vero, in passato hanno osato di più musicalmente parlando; ma c'è un tempo per ogni cosa, ed ora è il momento di divertirsi. E viene spontaneo aggiungere che se questi sono i risultati, che continuino a farlo fino a quando ne avranno voglia.
Sono passati 15 anni dall'esordio degli Snow Patrol nell’industria discografica, e per chi non ci credesse l'inconfutabile prova sono i loro 5 album all’attivo. C'è anche da aggiungere però che fino a "Final straw" (2003) hanno goduto di ben poca considerazione. E forse il motivo sta nel fatto che la personalità della band è tuttora in fase di definizione, come dimostra l’ultimo (buono) "A hundred million suns". Ora, non c’è niente di davvero assurdo nell’optare per una raccolta dopo quindici anni di carriera e cinque album. Ed è anche legittimo infilarci la simpatica cover di "Crazy in love" di Beyoncè. O le azzeccate versioni live di "Run" e "Chasing cars". O il divertente nuovo singolo "Just say yes" (accompagnato da altri due nuovi brani meno incisivi). Ma la verità è che probabilmente sarebbe bastato un solo cd. 6.5/10 Highlights: Crack the shutters, Set the fire to the third bar, Just say yes, You're all that I have, The planets bend between us, Run (Live), An olive grove facing the sea (2009 Version), Give me strenght, Dark roman wine, Chasing cars (Live).
Non si può più parlare di "digital folklore": il suono degli Oi Va Voi è ormai completamente privo di contaminazioni elettroniche. La linea seguita rimane però quella di sempre, e il collettivo Londinese continua a scrivere meritevolissimi pezzi in bilico tra folk e pop. 7/10
Highlights: Waiting, Travelling the face of the globe, Every time, Dusty road, Foggy day, Stitches and runs.
Il disco dell'inglese James Pullen (garantito dal bollino Hospital dei grandi London Elektricity) è un'ottima scusa per tornare a respirare aria di 1995, quando la drum 'n bass melodica aveva un perchè e si riusciva a trovare il giusto compromesso tra sogno ed energia. 7.5/10
Highlights: Heaven's sake, No matter what, Printer jam, White collar grime, Greed, From memory.
Una Rihanna così non te l’aspetti. L’hai scoperta con un pezzo solare come "Pon de replay", poi ha cantato cose tipo "Umbrella" e "Don’t stop the music" e adesso la ritrovi dura e violenta con un album che consiglia l’ascolto ad un pubblico adulto e un singolo ("Russian roulette") che finisce con un inequivocabile bang. Facile ripiegare su quanto accaduto con il suo ex-boyfriend Chris Brown (che ha combinato gli stessi casini del suo omonimo Bobby con Whitney); anzi, è naturale che un episodio simile abbia condizionato il suo spirito e i suoi testi. Al di là di questo, la verità è che la ragazza sta crescendo. La scelta di non ripercorrere per filo e per segno una strada già battuta è da lodare, perché lei può permetterselo: lei verrà comunque ascoltata. Viene difficile pronunciare la parola pop quando c’è un pezzo (prodotto da un ispirato Justin) che dura oltre 6 minuti. O quando spuntano delle chitarre distorte qua e la (in "Rockstar 101" le suona Slash) a sporcare e contaminare. Questa volta balleremo solo "Rude boy". Ma da oggi non sarà più automatico sghignazzare quando la definiranno artista.
7.5/10
Highlights: Wait your turn, Stupid in love, Fire bomb, Rude boy, Cold case love, The last song.
Punktronica di classe. "Have mercy on me" è un frullato di Cerrone, rondò veneziano e Daft Punk. "Awesome" con The Cool Kids on the mic (tradotta in italiano "Come la" insieme a Marrakesh) è un affare old-school con il trucco rifatto 2009. "It's a better a dj on 2 turntables" riesce ad essere più delirante del suo stesso titolo e deve tantissimo a Switch e alla sua scuola. "Talkin' in my sleep" è senza freni, le due "Warp" mordono che è un piacere, "Mother" è splendidamente agrodolce. Quando il citazionismo non solo respinge la banalità, ma diventa esso stesso fonte d'ispirazione.
8/10
Highlights: Have mercy on us, Awesome, It's a better a dj on 2 turntables, Talkin' in my sleep, Warp 1.9, FFA 1985, Warp 7.7, Mother, I love The Bloody Beetroots, Come la.
Mai conversione all'elettronica fu più azzeccata; dal momento in cui i Simian si sono trasformati in discoteca mobile non ne sbagliano una neanche a pagarli. La conferma definitiva è in questo secondo album, ennesima raccolta di dieci tracce - ottimamente concepite e prodotte alla perfezione - che mischiano electro-pop-disco-hip-hop-house con uno stile raro. Validi e divertenti.
Per godersi un disco di Tiga occorre munirsi di una buona dose di buonumore e di un certo grado di sopportazione del livello di tamarraggine, elemento imprescindibile della ricetta musicale del canadese. Gli amici che lo aiutano a plasmare il suo secondo album sono quelli che lo accompagnano da sempre: Soulwax, Jake Shears, Zdar, Jori Hulkkonen, Gonzales, James Murphy e Jesper Dahlback. Ed è proprio quest'ultimo ad uscire indenne da ogni tipo di critica, mettendo le mani sui due pezzi meglio riusciti del disco ("Mind dimension" e "Shoes"). I fratelli Dewaele sono un po' ovunque (anche nei due brani appena citati), e alternano buone idee ("Overtime", "Beep beep beep") a cose meno riuscite ("What you need"). Dei due interventi di Murphy si salva l'interessante "Gentle giant", mentre affonda inesorabilmente la scontatissima (fin dal titolo) "Sex o'clock". Gonzales azzecca una divertente ma non indimenticabile "Turn the night on", Zdar e Hulkkonen collaborano nella sciatta "Speak, memory", mentre altrove c'è poca dance intelligente e molta kitscheria che non può che stancare.
6/10
Highlights: Beep beep beep, Mind dimension, Shoes, Overtime, Gentle giant.
Se nella musica si dovesse assegnare un oscar per la propensione al rischio ci sono ottime probabilità che il premio 2009 finirebbe dritto nelle mani degli Editors. La band che 4 anni fa aveva scomodato la popolare rivista inglese NME portandola ad inventare il termine “Dark disco” per definire il loro stile. La stessa band che aveva confermato il suo valore con un secondo album capace di finire immediatamente in prima posizione in Uk. Ecco, loro oggi appoggiano le chitarre e puntano tutto su un a dir poco spiazzante suono elettronico. Fortunatamente il rischio della pisciata fuori dal vasetto è scongiurato da almeno tre elementi. Il primo porta il nome di Mark ‘Flood’ Ellis, un produttore che non ha bisogno di presentazioni e che è solito trasformare in oro tutto quello che tocca. Il secondo è insito nel dna della band di Birmingham, da sempre incline ad atmosfere dark e lunatiche che secondo la lezione di Joy Division e compagnia bella ben si sposano con un suono sintetico. Il terzo elemento vi sarà chiaro dopo avere ascoltato questo disco. Perché solo allora vi accorgerete che al di là di chitarre o sintetizzatori qui ci sono nove splendide canzoni, che in un batter d’occhio fanno passare la voglia di smadonnare in cerca di una classificazione precisa dello stile musicale sfoggiato dagli Editors nel loro terzo album. Non è questo l’importante?
Mettiamola così: ora sarò molto più giustificato quando commetterò l’errore (nel mio caso ricorrente) di pronunciare “Ronettes” al posto di “Noisettes”. L’assonanza tra la storica band prodotta da Phil Spector negli anni 60 e il gruppo indie di Londra si fa consistente anche in termini musicali: sono infatti sempre più rare le sfuriate punkeggianti, in favore di arrangiamenti che fondono rock e philly soul. Il singolo "Never forget you" e la successiva "So complicated" rappresentano la volontà di mirare dritto verso un feeling dichiaratamente revival, comunque mai nascosto in passato da Shingai Shoniwa e soci. La sensazione è quella di un trio che si libera da tutti i concetti di modernismo e suona quello che vuole senza restrizioni; e, come spesso accade in questi casi, il risultato è godibilissimo.
Li avevamo lasciati sulle note di Knights Of Cydonia, a chiudere l’ambizioso Black Holes And Revelations di tre anni fa. Oggi ripartono da quelle terzine con un inno come Uprising: marcia dal consueto basso distorto che urla “Loro non ci controlleranno, ne usciremo vittoriosi”. Pronunciare la parola concept album è superfluo; un po’ perché i tre sono sempre stati concettuali e un po’ perché aprire un disco intitolato “La resistenza” con questi versi è un indizio impossibile da ignorare. Musicalmente parlando Bellamy e soci sembrano ispirati più che mai: il mix di stili che hanno mostrato in dieci anni di dischi appare ancora fresco, e viene in diversi frangenti ulteriormente ampliato. Un pezzo come United States Of Eurasia parte Muse e diventa Queen in un batter d’occhio, per poi spegnersi delicatamente sulle note di un notturno di Chopin. L’organo da chiesa che apre Unnatural Selection si trasforma in un riff ringhioso che accompagna la voce distorta, rilasciando quindi un ritornello epico; a metà il ritmo viene dimezzato e canta la chitarra, infine torna il rock. La sinfonia in tre parti che chiude l’album è un’opera d’arte che pochi nel mondo del pop-rock possono permettersi. Ecco, il segreto è tutto qui: la capacità di proporre (dettata da un’istruzione classica) unita ad una sfrenata ambizione di scrivere il disco definitivo riuscendo nel contempo a rimanere nelle classifiche di mezzo mondo, in barba a tutti gli snobisti che hanno odiato Starlight e a tutti i chart-dipendenti che non vogliono sentire parlare di progressive e credibilità artistica. Vincono loro.
Ridendo e scherzando il cammino di Stefan Brügesch nell'industria discografica dura da quasi quindici anni. "Collaboratory" è il suo quinto lp, e ricalca lo stile che il dj di Berlino ha sempre messo in mostra nella sua carriera: deep-house con sfumature techno e più di un richiamo alla vecchia scuola. In "Strong moment" la voce di Cassy si appoggia su una lenta base acid a cassa spezzata accompagnata da un giro di accordi di pianoforte in una vena quasi blues: il risultato è emotivamente perfetto. Le geometrie a incastro di "Trees can't dance" descrivono invece il suo approccio contaminato, che in questo caso consiste nel rubare suoni trance per sistemarli in un pezzo dall'istinto proegressivo; "Swallowed too much bass" e "Month of sip" sono il suo lato oscuro, "Trust in me" e "Like it should be" due chicche deep al cioccolato, "Cherry blossoms" un giochino intrigante a chiudere. 7.5/10 Highlights: Trees can't dance, Strong moment, Trust in me, Like it should be, Cherry blossoms.
La rapper bianca di Wembley sforna un secondo disco che non brilla per originalità e stile: apertura e chiusura ("Let's be mates" - "I got the goods") sono dimenticabili, l'hip-hop di "Food play" suona datato (Missy certe cose le faceva più di dieci anni fa), il ritornello di "Pennies" non è abbastanza incisivo, "Guitar" è un vero disastro tra il ritornello stonato e un arrangiamento completamente fuori moda e fuori tempo. A salvare "Jigsaw" dall'anonimato ci pensano una buona citazione dei Cure in "So human", i beat nervosi scuola Switch di "Bang bang" e "I got you dancing" e soprattutto la linea rock esplorata da brani come "Student union" e la title-track; che sia questa la direzione da approfondire nel prossimo lavoro?
6/10
Highlights: So human, Jigsaw, Bang bang, I got you dancing, Student union.
L'evoluzione degli Archive sembra giunta ad un punto di arrivo. Il collettivo londinese che aveva esordito in pieno periodo trip-hop (1996) ha modificato lentamente il suo stile: tra passi falsi (il secondo "Take my head" che cercava di bissare la bellezza dell'esordio "Londinium" fallendo nell'impresa per via di un'ambizione pop che non aveva motivo di esistere) e svolte radicali ("You all look the same to me" introduceva un concetto di band nell'accezione rock del termine), tra sperimentazioni (la dicotomia del 2004 "Noise" vs "Unplugged") e prese di posizione più definitive (il penultimo "Lights" era un album psichedelico a tutti gli effetti, con qualche momento di indecisione che invece di spiccare finiva per passare inosservato) sono giunti a questo "Controlling crowds". Ora i compromessi non esistono più: adesso la loro musica è proiettata verso il prog, con tutte le sfaccettature che questo termine si porta dietro. Momenti di quiete che si alternano a lunghe e violente bufere di rumore, per esempio. O la divisione del disco in tre parti, a sottolinearne la natura concettuale. O la voglia di mischiare chitarre e synth ("Clones"), riverberi industriali e rime hip-hop ("Quiet time", "Bastardised ink" e "Razed to the ground"), scherzi in stereofonia e decine di strati sonori a salire ("Collapse/Collide"). L'accessibilità abita altrove, ma un po' di impegno in ascolti ripetuti fa di questo un album da custodire e ricordare nel tempo.
Accantonato (momentaneamente?) il moniker "Fatboy Slim", Norman Cook si concentra su un nuovo progetto in collaborazione con Simon Thornton; The Brighton Port Authority pianta saldamente le sue radici nel pop-rock degli anni 60 (cosa che non stupisce vista l'attitudine sixties mai nascosta dal dj inglese), chiamando a raccolta un'eclettica serie di ospiti. La scelta risulta tanto interessante quanto coraggiosa, perchè esagerando con la varietà c'è sempre il rischio di incappare nell'incoerenza. La sensazione che lascia "I think we're gonna need a bigger boat" è in un certo senso straniante solo al primo ascolto; poi ci si rende conto che il signor Cook ha tutte le carte in regola per potere spaziare a destra e a sinistra senza perdere il filo del discorso. L'esempio lampante è il singolo "Toe jam", dove compaiono sia David Byrne che Dizze Rascal; un accostamento improbabile che funziona a meraviglia. Ottima anche la prova di Iggy Pop nella rockettara "He's Frank", pezzo dove riaffiorano i propositi big-beat più genuini del nostro (chiaramente evidenti anche in "Should I stay or should I blow" con Ashley Beedle e in "Local town" cantata dal giovane londinese Jamie T). Nell'arrangiamento in levare di "Spade" si odono echi Beats International, "Jumps the fence" ( che riavvolge il nastro fino alla spensieratezza di "Better living through chemistry") contagia nella sua giocosa stupidità, "Island" (splendidamente interpretata da Justin Robertson) e la sognante "Seattle" (affidata alla perfetta voce di Emmy The Great) cullano dolcemente, la cover di "So it goes" di Nick Lowe chiude tutto come meglio non si potrebbe.
8/10
Highlights: He's Frank (slight return), Should I stay or should I blow, Island, Seattle, Spade, Toe jam, So it goes.
Belli i tempi di "Just a little more love". In quel disco (2002) c'era "Give me something" con la voce di Miss Barbara Tucker. C'era "Love don't let me go" nella versione originale, e non mescolata con un remix di Tocadisco per un pezzo di The Egg. In quegli anni David Guetta provava a remixare un classico del calibro di "Heroes" di David Bowie seguendo la lezione in sidechain dei Daft Punk. All'uscita di "Guetta blaster" (2004) la puzza di bruciato cominciava a farsi sentire. L'esplicito "Pop life"(2007) metteva finalmente in chiaro le ambizioni (ahinoi) pop del dj francese. E allora vai di shampoo, Fuck Me I'm Famous e tutte le altre tamarrate al seguito. E il bello è che ascoltando "When love takes over" (con Kelly Rowland) o "How soon is now" (con Julie McKnight) ti viene quasi voglia di dargli un'altra chance, di pensare che alla fine lo status di superstar che ha guadagnato se lo stia meritando. Ma una volta ascoltate "Sexy bitch" (con Akon), "On the dancefloor" e "I wanna go crazy" (con Will.I.Am) ti ritrovi a chiedere se ci sia un limite all'ignoranza. Provi a suonare "Memories" (con Kid Cudi) e ti accorgi che è un pezzo inutile. Metti il featuring con Chris Willis e sai già che parte con un piano elettrico che batte i quarti, poi entrano voce e pad e infine il solito ritmo spaccatutto. Ci tenti con "Novel" e ti rendi conto che il copione cambia di pochissimo. Ti chiedi se la collaborazione con Kelly Rowland sia stato un caso, e trovi subito la conferma nella sua interpretazione da Destiny's Child scaduta in "Choose" e nell'insipida "It's the way you love me". Intanto il F.m.i.f. Remix di "I gotta feeling" dei Black Eyed Peas riesce a superare in bruttezza l'originale (e non è roba da poco). Quella cosa a metà tra electro e hip-hop che risponde al nome di "Toyfriend" è meglio non prenderla neanche in considerazione. C'è anche una ballad (!!!); si chiama "If we ever" e francamente sarebbe stato meglio escluderla dalla tracklist. E allora l'unica diventa salvare il salvabile: è un vero peccato che l'ottima linea melodica (cantata dalla bravissima Estelle) della title-track venga messa in discussione da un arrangiamento che è una fotocopia dell'ultimo irritante Bob Sinclar. Fashion music for average people; quando il mondo si renderà conto che non siamo più negli anni 90 (dove bastava un singolo per giustificare un album pieno di riempitivi) sarà troppo tardi.
4.5/10
Highlights: When love takes over, How soon is now, One love.
"Music for men" non cambia di una virgola la formula magica del precedente "Standing in the way of control"; al resto ci pensa Beth Ditto, con la sua voce e il suo carisma.
7.5/10
Highlights: Heavy cross, 8th wonder, Love long distance, Pop goes the world, Men in love, Four letter word.
Sono passati sette anni da quando Layne Staley se n’è andato, e viene difficile contestare il fatto che la sua voce rimarrà insostituibile. Non si tratta solo del timbro particolare e di quell’alchimia unica che formava intrecciandosi con il canto di Jerry Cantrell; c’è un discorso molto più profondo, che attiene ad un uomo che è diventato uno dei punti fermi della generazione Grunge. Chi vorrebbe trovarsi nei panni di William DuValle, la persona che ora deve sostituire Layne? Quanto impossibile può essere questa nuova sfida che gli Alice In Chains si sono sentiti di affrontare? E quanto può essere triste ascoltare il nuovo disco di una band spezzata da un’overdose che fin dai primi vagiti ha fatto della tristezza la sua bandiera? Molto. La malinconia diventa quasi insopportabile quando i quattro rallentano come sanno fare loro ("Acid bubble", "Your decision"), o quando ti accorgi che le prime parole dell’album sono: “Hope / a new beginning / Time / Time to start living / Like just before we died”. O ancora, quando decidono di ripulirsi dalle distorsioni ("When the sun rose again e la struggente title-track che chiude il disco) riportandoci indietro fino al loro perfetto unplugged registrato per Mtv nel 1996. Onestamente, di più non si poteva fare. 7.5/10
Highlights: All secrets known, Check my brain, Your decision, A looking in view, Acid bubble, Black gives way to blue.
Se fosse davvero importante ci si chiederebbe dove sono finiti gli Arctic Monkeys di "Dancing shoes" e "Brianstorm". Se la parola punk avesse ancora un significato ci si chiederebbe cosa ascolteranno da domani i fan più punk degli Arctic Monkeys. Ma sono domande che non hanno alcun senso di esistere di fronte ad un disco come "Humbug". I fenomeni di Myspace si sono evoluti con una naturalezza così morbida da fare gridare al miracolo. Attenzione, non che i due dischi precedenti fossero degli insignificanti vagiti di quattro ragazzini che si trovano in una sala con due chitarre, un basso e una batteria; tutt’altro. Ma qui si va decisamente oltre. La poesia psichedelica contaminata da visioni Morrisoniane del singolo "Crying lightning" è il primo segno inequivocabile di un cambio di rotta, è una dichiarazione d’intenti bella e buona, rappresenta Alex Turner che dice al mondo: “Adesso facciamo quello che vogliamo noi, le mode possono aspettare”. "Humbug" è un disco che vive in una propria dimensione, fuori dal tempo. E non solo per il fatto che è stato registrato nel deserto traendo ispirazione da Hendrix e Cream. Ma anche perché l’affiancamento in fase di produzione di un tipo come Josh Homme (Queens Of The Stone Age) al sempre affidabile James Ford crea un’alchimia sonora perlomeno interessante. E poi, intendiamoci: rischiare nuove strade per pura passione - e farlo con questa personalità - quando il successo del pur breve passato ti sta ancora abbracciando non è esattamente qualcosa di ordinario.
Che non esistano compromessi in un disco dei Jet è cosa nota. Un po’ perché basta ricordare il sound dei brani che nel 2003 hanno sancito il loro successo ("Are you gonna be my girl" e "Rollover dj"), un po’ perché ditemi cos’altro si possa pensare di fronte ad un titolo come "Shaka rock". Gli Australiani non hanno mai fatto mistero delle loro influenze e di quelle che sono sempre state le loro intenzioni: fare del sano e possibilmente chiassoso rock’n’roll. Quel genere di musica dove se non ti vengono le parole basta metterci un coretto di vocali e funziona tutto a meraviglia lo stesso. Oppure dove un bel “Yeah!” strillato senza alcuna classe non si rifiuta mai e trova una sua collocazione praticamente ovunque. Sebbene la partenza non sia di quelle memorabili ("K.I.A." è anonima) e l’album abbia dei momenti trascurabili ("Walk" e "Times like these" su tutti), non si può negare che la spontaneità del riff di "She’s a genius" - unita alla sonante energia vocale di Nic Cester - faccia il suo dovere, che le quartine di piano che sostengono "17" (e che ricompaiono in "La dee da") siano azzeccate e che perfino il lento "Grudge" abbia un perchè. Nessuna rivoluzione, certo; ma forse è semplicemente giusto così. 7/10 Highlights:She's a genius, 17, La dee da, Hollywood, Let me out, Grudge.
Regina è una forza della natura; "Far" è il suo quinto, impeccabile album. Un fiabesco incrocio tra incontenibile fantasia e invidiabile talento compositivo, supportato dalla sua originale, inconfondibile interpretazione. Un'artista che in quasi dieci anni di carriera si è scoperta mainstream in una sola occasione ("Fidelity"), quasi per caso. La sua personalità è strabordante, la passione che mette in ogni singola nota sincera e non c'è alcun segno di paura di osare; se non è perfezione, poco ci manca.
La notte del 21 Gennaio 2009 un mix letale di pillole e alcohol si è portato via Charles Cooper, metà dei Telefon Tel Aviv. Quel duo che otto anni prima aveva esordito con l'indimenticabile "Fahrenheit fair enough"; uno di quegli album che dimostra che la freddezza degli strumenti digitali può essere quanto mai calda. Il giorno prima della morte di Charles è uscito il loro terzo disco, ironicamente (o era tutto programmato?) intitolato "Immolate yourself". Nemmeno tre autopsie sono riuscite a fare luce sul mistero della scomparsa del trentaduenne musicista di Chicago: suicidio o incidente? Atto di lucida volontà oppure ingenua, banale distrazione? Eppure sembrava quasi che quei due volessero in qualche modo ripartire. La conversione all'analogico. L'abbandono dei glitch metodicamente tagliati e posizionati che avevano fatto la loro fortuna. L'esplorazione di territori electro, ai limiti del synth-pop. Quello che rimane è l'alone malinconico che da sempre ha contraddistinto le loro produzioni, una tristezza rigorosamente in tonalità minore che emoziona. Ora più che mai, e forse per l'ultima volta.
8/10 Highlights: The birds, Your mouth, Mostly translucent, Stay away from being maybe, You are the worst thing in the world.
Daniel Hunter è un regalo della myspace-generation. All'età di sedici anni ha dato vita al progetto PlayRadioPlay!, un interessantissimo blend di pop-rock ed elettronica che si è concretizzato in questo ottimo primo album su Island. L'etichetta ora lo ha scaricato, forse a torto visto il suo innegabile potenziale stilistico e melodico; ai posteri la sentenza, intanto "Texas" rimane una gemma da ascoltare in loop senza vergogna.
"Free" è un affare delicato ed acustico, con il quale il trentaduenne Newyorkese di "Chariot" conferma le sue capacità di scrittura e dà una confortante prova di maturità a livello espressivo.
Intanto quei puntini che spezzano la parola “fine” hanno un significato preciso: sono un’abbreviazione per Energy Never Dies, e sintetizzano bene l’approccio della band dispensatrice di alcuni tra i ritmi più contagiosi della generazione hip-pop. La spacconaggine della bella Fergie nel primo singolo "Boom boom pow" ( “I’m so three-thousand and eight, you’re so two-thousand and late”) rispecchia anche il drastico cambio di stile dei quattro californiani (abbreviando: di Will.I.Am, da sempre produttore e mente degli arrangiamenti dei loro dischi). Un suono nel complesso molto più freddo e spesso minimale, con omaggi trance in stile Timbaland, puntate electro ("Missing you") e pezzi spudoratamente dance (l'evitabilissima "I gotta feeling"). Obiettivamente questa svolta non si può considerare una scelta coraggiosa: è sostanzialmente il trend che stanno seguendo tutti da qualche anno a questa parte. Il progetto perde quando sfora nel cheesy, ma rimane comunque solido; e l’energia, come da promessa, viene conservata.
7/10
Highlights: Boom boom pow, Rock that body, Meet me halfway, Imma be, Alive, Missing you, Rockin' to the beat.
Con la solita noncurante verve provocatoria torna Peaches, a tre anni da quel transitorio (ma in fondo valido) "Impeach my bush". Che i panni di reginetta dell'electro-clash cominciassero a starle stretti lo si era già capito da parecchio tempo, e in questo senso "I feel cream" rappresenta la liberazione ultima da quelle pesanti catene: è chiaro fin dai sussurri di "Serpentine", inno punk polemico e a suo modo altezzoso che apre le danze. Subito dopo "Talk to me" (con i Soulwax al banco del mixer) risplende di una luce finora nascosta, e uno si chiede come mai, vista la qualità del brano e il talento vocale della signorina. Di punto in bianco tutto quel funk rock si spegne nel sognante beat electro di "Lose you", come se Madonna cantasse a testa in giù spinta da un'innata propensione verso l'antidivismo. La sua attitudine electropunk torna con prepotenza in "More", "Trick or treat", "Mommy complex" e nella title-track, ma si ricordano più volentieri le rime violente di "Billionaire", il pop sbagliato di "Mud" e "Relax" e il minimalismo atmosferico della conclusiva "Take you on".
8/10
Highlights: Serpentine, Talk to me, Lose you, Billionaire, Mud, Relax, Take you on.
Anche se è vero che "Shake it" fa battere il piedino con una certa facilità, non esistono altri motivi per resuscitare un disco del 2007 che mischia con una certa immaturità rock e dance. I finti coretti punk sono irritanti e il valore culturale di scrittura dei pezzi è destinato a raccogliere le attenzioni di una fascia d'età compresa tra i 3 e gli 8 anni; problemi troppo grossi per essere nascosti da una produzione superlusso.
In tempi di forzato Michael Jackson revival è impossibile non pensare al Vincent Price di "Thriller" ascoltando il break parlato di "Tigerlily". E non si tratta solo di un tributo al disco più venduto nella storia della musica; lo spoken di Kit Jackson (il cognome è forse una coincidenza?) è una specie di dichiarazione d'intenti, la ciliegina sulla torta di un brillante album synth-pop che non sbaglia un colpo. La forza dei 12 brani contenuti nell'esordio della signorina Elly Jackson è quella di riuscire a proporre canzoni ottimamente scritte in una forma che raccoglie le influenze delle ultime evoluzioni elettroniche da club. Il risultato è quindi al contempo vincente e raffinato, finendo per mettere tutti d'accordo; mica roba da poco. 8.5/10
Non tutti i mali vengono per nuocere. Quindi non importa se "No time for fears" sembra un anthem rock fine 80 / inizio 90, se "Sing when you're in love" e "Last goodbye" sono troppo brit-pop per essere credibili nel 2009, se "Nation of checkout girls" appare come un furto ai Pulp di "Common people" virati punk e se i ritornelli di "Be somebody" e "Don't break the red tape" sono ultrascontati. Si passa sopra anche a quell'ostinato di Tom Clarke che fa spesso il verso a Johnny Rotten (e neanche malaccio a dirla tutta). Perchè alla fine il titolo del disco è coerenza pura: musica per la gente. Dopotutto, it's only rock'n'roll.
7/10
Highlights: No time for fears, Sing when you're in love, Last goodbye, Nation of checkout girls, Be somebody, Don't break the red tape.
I tempi di "Emerge" e dell'electro-clash erano lontani anni luce anche quando uscì il secondo "Odyssey" (2005), album che rappresentava una sterzata piuttosto convinta verso il synth-pop. Con "Entertainment" il duo si avventura in qualcosa di maturo ed involuto finendo per negare il significato stesso della parola pop, persa in arrangiamenti caotici e in una moltitudine di idee melodiche che minano l'accessibilità di molti pezzi. Si ricordano dunque l'efficace "In a modern world" (di scuola Pet Shop Boys), l'hook vincente di "Money can't dance", le vibrazioni funky di "Infidels of the world unite" e la conturbante "Door train home".
6/10
Highlights: Money can't dance, In a modern world, Infidels of the world unite, Door train home.
In una visione prettamente formale della musica "The Fray" è un disco educato e preciso; ad un ascolto fugace appare anche emotivamente valido, e il suono pulito e diretto contribuisce a creare il magico effetto "patina da major" difficile da resistere per definizione. Peccato che aleggi costante una monotonia davvero insopportabile nelle melodie, nella struttura ed nell'espressione vocale di Isaac Slade, alla disperata ricerca di un'altra "How to save a life" che non arriva.
5/10
Highlights: Absolute, You found me, Never say never.
Jeremy Greenspan e Matthew Didemus incarnano la faccia raffinata del synth-pop moderno; "Begone dull care" (terzo lavoro in studio) conferma il loro gusto che si snoda attraverso melodie catchy e arrangiamenti semplici ma di classe, fermandosi puntualmente ad un passo dal kitsch e lasciandoti li mezzo sognante.
7.5/10
Highlights: Parallel lines, Dull to pause, Hazel, Sneak a picture, The animator.
Quel paragone a Kate Bush sembra sempre più azzeccato. Natasha Khan va oltre il già splendente esordio "Fur and gold", passando con disinvoltura dall'intimità di brani come "Moon and moon" e "Siren song" alla velata malinconia ottanta di "Daniel", dal pop delicato di "Pearl's dream" all'ammiccante sensualità di "Good love". Menzione obbligatoria per l'ennesimo perfetto lavoro di David "Faultline" Kosten alla produzione.
L'impatto di un disco come "Experience" all'alba dei 90 non può essere messo in discussione. Poco dopo "Music for the jilted generation" è andato oltre, definendo alcuni standard e diventando un punto fermo della cultura dance. Il terzo "The fat of the land" era una bestia broken-punk, contaminazione pura, probabilmente figlia del panico generato anche e soprattutto dai loro due album precedenti. Poi il buio, e quel "Always outnumbered, never outgunned" del 2004 che per molti aspetti sembrava rappresentare un canto del cigno quasi scontato. E invece Liam Howlett ritrova Maxim e Keith Flint. E con loro, la luce. Il Ritorno.
La prima solare certezza che emerge dall’ascolto del nuovo disco di Moby è che le compagnie telefoniche non faranno a pugni per aggiudicarsi un suo singolo da accostare a qualche spot televisivo (c'è chi odia ancora "Lift me up" a causa di un numero sproporzionato di passaggi pubblicitari nel 2005). La seconda è che se lo scopo del “piccolo idiota” era quello di scrivere della musica bella senza curarsi delle leggi del mercato e affrontando la faccenda in maniera “casalinga” e naturale l’obiettivo è raggiunto con una certa classe. "Study war" e "Pale horses" confermano la sua splendida e ormai celebre semplicità di scrittura, un misto di spontaneità e anni di esperienza in studio di registrazione. C’è anche il gusto di andare a cercare ispirazione nel passato (“perché i dischi moderni sono a volte talmente brillanti e tirati a lucido che rischiano di perdere qualsiasi tipo di umanità”); e così la voce della 26enne di Los Angeles che canta "Walk with me" viene processata e a lavoro ultimato suona come un campionamento di un pezzo folk anni 50. Ci sono dei frammenti magici e ariosi come la strumentale "Scream pilots" e la corale "A seated night" e momenti più oscuri come il supposto singolo "Shot in the back of the head" e l’inquietante "Ghost return" (entrambe estremamente Lynch-iane). C’è la dolce malinconia di brani come "Hope is gone" e "Jltf", che sono si i tipici pezzi che ti aspetti da Moby, ma sono anche davvero toccanti e di una bellezza rara. Le compagnie telefoniche cercheranno sicuramente altrove, ed è una gioia potere affermare che questo album brillerà di una luce tutta sua.
8/10
Highlights: Pale horses, Shot in the back of the head, Study war, Walk with me, Jltf, Wait for me, Hope is gone, Isolate.
I quattro anni che dividono "Playing the angel" (2005) da "Sounds of the universe" sono letteralmente imbottiti di ristampe aggiornate, edizioni limitate, registrazioni live e greatest hits; i Depeche Mode non hanno rivali quando si tratta di curare il proprio marchio e mantenere alta la tensione anche quando di nuovo c’è poco o niente. Ecco, se c’è una cosa certa, lampante e poco discutibile è la pressoché totale mancanza di novità a livello sonoro o melodico di questo nuovo lavoro, il dodicesimo album in studio della loro lunga e fortunata carriera. Perché chi ha imparato a conoscerli si sarà stancato del singolo Wrong (pezzo che riesce ad annoiare anche in 3 miseri minuti di durata) dopo una manciata di passaggi in radio; senza dubbio sanno fare di meglio. Volete mettere la goduria che si prova ascoltando un capolavoro come "Little soul" (strofa trascinata quasi Alice In Chains annegata in un contesto dark fiabesco con tanto di illuminante riff di chitarra a fare capolino nel finale)? O il synth-rock gommoso di "Fragile tension"? O il respiro lento e delicato di "Jezebel"? O la semplicità brillante di un affresco di tipico stampo Gore come "In sympathy"? Se poi Dave Gahan oltre ad offrire una prestazione vocale ai limiti della perfezione scrive anche tre pezzi che centrano l’obiettivo ("Miles away" su tutti) si può ragionevolmente parlare di stato di grazia. Dopotutto perché pretendere qualcosa al di fuori dagli schemi da chi l’ha già fatto (e molto bene) in passato? Perché aspettarsi qualcosa di diverso da una band che è continuamente citata e a volte addirittura saccheggiata per quello che ha combinato in quasi trent’anni di musica? Un disco adulto, coerente ed estremamente lucido, nonchè ottimo biglietto di presentazione per riempire gli stadi di tutto il mondo.
8/10
Highlights: In chains, Fragile tension, Little soul, In sympathy, Come back, Miles away, Jezebel.