10.28.2009

Editors - In this light and on this evening (2009, PIAS)

Se nella musica si dovesse assegnare un oscar per la propensione al rischio ci sono ottime probabilità che il premio 2009 finirebbe dritto nelle mani degli Editors. La band che 4 anni fa aveva scomodato la popolare rivista inglese NME portandola ad inventare il termine “Dark disco” per definire il loro stile. La stessa band che aveva confermato il suo valore con un secondo album capace di finire immediatamente in prima posizione in Uk. Ecco, loro oggi appoggiano le chitarre e puntano tutto su un a dir poco spiazzante suono elettronico. Fortunatamente il rischio della pisciata fuori dal vasetto è scongiurato da almeno tre elementi. Il primo porta il nome di Mark ‘Flood’ Ellis, un produttore che non ha bisogno di presentazioni e che è solito trasformare in oro tutto quello che tocca. Il secondo è insito nel dna della band di Birmingham, da sempre incline ad atmosfere dark e lunatiche che secondo la lezione di Joy Division e compagnia bella ben si sposano con un suono sintetico. Il terzo elemento vi sarà chiaro dopo avere ascoltato questo disco. Perché solo allora vi accorgerete che al di là di chitarre o sintetizzatori qui ci sono nove splendide canzoni, che in un batter d’occhio fanno passare la voglia di smadonnare in cerca di una classificazione precisa dello stile musicale sfoggiato dagli Editors nel loro terzo album. Non è questo l’importante?

8/10

Highlights:
Tutto.

10.26.2009

Noisettes - Wild young hearts (2009, Mercury)

Mettiamola così: ora sarò molto più giustificato quando commetterò l’errore (nel mio caso ricorrente) di pronunciare “Ronettes” al posto di “Noisettes”. L’assonanza tra la storica band prodotta da Phil Spector negli anni 60 e il gruppo indie di Londra si fa consistente anche in termini musicali: sono infatti sempre più rare le sfuriate punkeggianti, in favore di arrangiamenti che fondono rock e philly soul. Il singolo "Never forget you" e la successiva "So complicated" rappresentano la volontà di mirare dritto verso un feeling dichiaratamente revival, comunque mai nascosto in passato da Shingai Shoniwa e soci. La sensazione è quella di un trio che si libera da tutti i concetti di modernismo e suona quello che vuole senza restrizioni; e, come spesso accade in questi casi, il risultato è godibilissimo.

8.5/10
Highlights:
Tutto.

10.21.2009

Muse - The resistance (2009, Warner)

Li avevamo lasciati sulle note di Knights Of Cydonia, a chiudere l’ambizioso Black Holes And Revelations di tre anni fa. Oggi ripartono da quelle terzine con un inno come Uprising: marcia dal consueto basso distorto che urla “Loro non ci controlleranno, ne usciremo vittoriosi”. Pronunciare la parola concept album è superfluo; un po’ perché i tre sono sempre stati concettuali e un po’ perché aprire un disco intitolato “La resistenza” con questi versi è un indizio impossibile da ignorare. Musicalmente parlando Bellamy e soci sembrano ispirati più che mai: il mix di stili che hanno mostrato in dieci anni di dischi appare ancora fresco, e viene in diversi frangenti ulteriormente ampliato. Un pezzo come United States Of Eurasia parte Muse e diventa Queen in un batter d’occhio, per poi spegnersi delicatamente sulle note di un notturno di Chopin. L’organo da chiesa che apre Unnatural Selection si trasforma in un riff ringhioso che accompagna la voce distorta, rilasciando quindi un ritornello epico; a metà il ritmo viene dimezzato e canta la chitarra, infine torna il rock. La sinfonia in tre parti che chiude l’album è un’opera d’arte che pochi nel mondo del pop-rock possono permettersi. Ecco, il segreto è tutto qui: la capacità di proporre (dettata da un’istruzione classica) unita ad una sfrenata ambizione di scrivere il disco definitivo riuscendo nel contempo a rimanere nelle classifiche di mezzo mondo, in barba a tutti gli snobisti che hanno odiato Starlight e a tutti i chart-dipendenti che non vogliono sentire parlare di progressive e credibilità artistica. Vincono loro.

8.5/10

Highlights:
Tutto.


10.17.2009

Steve Bug - Collaboratory (2009, Poker Flat)

Ridendo e scherzando il cammino di Stefan Brügesch nell'industria discografica dura da quasi quindici anni. "Collaboratory" è il suo quinto lp, e ricalca lo stile che il dj di Berlino ha sempre messo in mostra nella sua carriera: deep-house con sfumature techno e più di un richiamo alla vecchia scuola. In "Strong moment" la voce di Cassy si appoggia su una lenta base acid a cassa spezzata accompagnata da un giro di accordi di pianoforte in una vena quasi blues: il risultato è emotivamente perfetto. Le geometrie a incastro di "Trees can't dance" descrivono invece il suo approccio contaminato, che in questo caso consiste nel rubare suoni trance per sistemarli in un pezzo dall'istinto proegressivo; "Swallowed too much bass" e "Month of sip" sono il suo lato oscuro, "Trust in me" e "Like it should be" due chicche deep al cioccolato, "Cherry blossoms" un giochino intrigante a chiudere.

7.5/10

Highlights:
Trees can't dance, Strong moment, Trust in me, Like it should be, Cherry blossoms.

10.16.2009

Lady Sovereign - Jigsaw (2009, Midget Records)

La rapper bianca di Wembley sforna un secondo disco che non brilla per originalità e stile: apertura e chiusura ("Let's be mates" - "I got the goods") sono dimenticabili, l'hip-hop di "Food play" suona datato (Missy certe cose le faceva più di dieci anni fa), il ritornello di "Pennies" non è abbastanza incisivo, "Guitar" è un vero disastro tra il ritornello stonato e un arrangiamento completamente fuori moda e fuori tempo. A salvare "Jigsaw" dall'anonimato ci pensano una buona citazione dei Cure in "So human", i beat nervosi scuola Switch di "Bang bang" e "I got you dancing" e soprattutto la linea rock esplorata da brani come "Student union" e la title-track; che sia questa la direzione da approfondire nel prossimo lavoro?

6/10

Highlights:
So human, Jigsaw, Bang bang, I got you dancing, Student union.

10.14.2009

Archive - Controlling crowds (2009, Warner)

L'evoluzione degli Archive sembra giunta ad un punto di arrivo. Il collettivo londinese che aveva esordito in pieno periodo trip-hop (1996) ha modificato lentamente il suo stile: tra passi falsi (il secondo "Take my head" che cercava di bissare la bellezza dell'esordio "Londinium" fallendo nell'impresa per via di un'ambizione pop che non aveva motivo di esistere) e svolte radicali ("You all look the same to me" introduceva un concetto di band nell'accezione rock del termine), tra sperimentazioni (la dicotomia del 2004 "Noise" vs "Unplugged") e prese di posizione più definitive (il penultimo "Lights" era un album psichedelico a tutti gli effetti, con qualche momento di indecisione che invece di spiccare finiva per passare inosservato) sono giunti a questo "Controlling crowds". Ora i compromessi non esistono più: adesso la loro musica è proiettata verso il prog, con tutte le sfaccettature che questo termine si porta dietro. Momenti di quiete che si alternano a lunghe e violente bufere di rumore, per esempio. O la divisione del disco in tre parti, a sottolinearne la natura concettuale. O la voglia di mischiare chitarre e synth ("Clones"), riverberi industriali e rime hip-hop ("Quiet time", "Bastardised ink" e "Razed to the ground"), scherzi in stereofonia e decine di strati sonori a salire ("Collapse/Collide"). L'accessibilità abita altrove, ma un po' di impegno in ascolti ripetuti fa di questo un album da custodire e ricordare nel tempo.

8.5/10

Highlights:
Tutto.

10.11.2009

The B.P.A. - I think we're gonna need a bigger boat (2009, Southern Fried Records)

Accantonato (momentaneamente?) il moniker "Fatboy Slim", Norman Cook si concentra su un nuovo progetto in collaborazione con Simon Thornton; The Brighton Port Authority pianta saldamente le sue radici nel pop-rock degli anni 60 (cosa che non stupisce vista l'attitudine sixties mai nascosta dal dj inglese), chiamando a raccolta un'eclettica serie di ospiti. La scelta risulta tanto interessante quanto coraggiosa, perchè esagerando con la varietà c'è sempre il rischio di incappare nell'incoerenza. La sensazione che lascia "I think we're gonna need a bigger boat" è in un certo senso straniante solo al primo ascolto; poi ci si rende conto che il signor Cook ha tutte le carte in regola per potere spaziare a destra e a sinistra senza perdere il filo del discorso. L'esempio lampante è il singolo "Toe jam", dove compaiono sia David Byrne che Dizze Rascal; un accostamento improbabile che funziona a meraviglia. Ottima anche la prova di Iggy Pop nella rockettara "He's Frank", pezzo dove riaffiorano i propositi big-beat più genuini del nostro (chiaramente evidenti anche in "Should I stay or should I blow" con Ashley Beedle e in "Local town" cantata dal giovane londinese Jamie T). Nell'arrangiamento in levare di "Spade" si odono echi Beats International, "Jumps the fence" ( che riavvolge il nastro fino alla spensieratezza di "Better living through chemistry") contagia nella sua giocosa stupidità, "Island" (splendidamente interpretata da Justin Robertson) e la sognante "Seattle" (affidata alla perfetta voce di Emmy The Great) cullano dolcemente, la cover di "So it goes" di Nick Lowe chiude tutto come meglio non si potrebbe.

8/10

Highlights:
He's Frank (slight return), Should I stay or should I blow, Island, Seattle, Spade, Toe jam, So it goes.

10.09.2009

David Guetta - One love (2009, Virgin)

Belli i tempi di "Just a little more love". In quel disco (2002) c'era "Give me something" con la voce di Miss Barbara Tucker. C'era "Love don't let me go" nella versione originale, e non mescolata con un remix di Tocadisco per un pezzo di The Egg. In quegli anni David Guetta provava a remixare un classico del calibro di "Heroes" di David Bowie seguendo la lezione in sidechain dei Daft Punk. All'uscita di "Guetta blaster" (2004) la puzza di bruciato cominciava a farsi sentire. L'esplicito "Pop life"(2007) metteva finalmente in chiaro le ambizioni (ahinoi) pop del dj francese. E allora vai di shampoo, Fuck Me I'm Famous e tutte le altre tamarrate al seguito. E il bello è che ascoltando "When love takes over" (con Kelly Rowland) o "How soon is now" (con Julie McKnight) ti viene quasi voglia di dargli un'altra chance, di pensare che alla fine lo status di superstar che ha guadagnato se lo stia meritando. Ma una volta ascoltate "Sexy bitch" (con Akon), "On the dancefloor" e "I wanna go crazy" (con Will.I.Am) ti ritrovi a chiedere se ci sia un limite all'ignoranza. Provi a suonare "Memories" (con Kid Cudi) e ti accorgi che è un pezzo inutile. Metti il featuring con Chris Willis e sai già che parte con un piano elettrico che batte i quarti, poi entrano voce e pad e infine il solito ritmo spaccatutto. Ci tenti con "Novel" e ti rendi conto che il copione cambia di pochissimo. Ti chiedi se la collaborazione con Kelly Rowland sia stato un caso, e trovi subito la conferma nella sua interpretazione da Destiny's Child scaduta in "Choose" e nell'insipida "It's the way you love me". Intanto il F.m.i.f. Remix di "I gotta feeling" dei Black Eyed Peas riesce a superare in bruttezza l'originale (e non è roba da poco). Quella cosa a metà tra electro e hip-hop che risponde al nome di "Toyfriend" è meglio non prenderla neanche in considerazione. C'è anche una ballad (!!!); si chiama "If we ever" e francamente sarebbe stato meglio escluderla dalla tracklist. E allora l'unica diventa salvare il salvabile: è un vero peccato che l'ottima linea melodica (cantata dalla bravissima Estelle) della title-track venga messa in discussione da un arrangiamento che è una fotocopia dell'ultimo irritante Bob Sinclar. Fashion music for average people; quando il mondo si renderà conto che non siamo più negli anni 90 (dove bastava un singolo per giustificare un album pieno di riempitivi) sarà troppo tardi.

4.5/10

Highlights:
When love takes over, How soon is now, One love.

10.07.2009

Gossip - Music for men (2009, Columbia)

"Music for men" non cambia di una virgola la formula magica del precedente "Standing in the way of control"; al resto ci pensa Beth Ditto, con la sua voce e il suo carisma.

7.5/10

Highlights:
Heavy cross, 8th wonder, Love long distance, Pop goes the world, Men in love, Four letter word.

10.06.2009

Alice In Chains - Black gives way to blue (2009, Virgin)

Sono passati sette anni da quando Layne Staley se n’è andato, e viene difficile contestare il fatto che la sua voce rimarrà insostituibile. Non si tratta solo del timbro particolare e di quell’alchimia unica che formava intrecciandosi con il canto di Jerry Cantrell; c’è un discorso molto più profondo, che attiene ad un uomo che è diventato uno dei punti fermi della generazione Grunge. Chi vorrebbe trovarsi nei panni di William DuValle, la persona che ora deve sostituire Layne? Quanto impossibile può essere questa nuova sfida che gli Alice In Chains si sono sentiti di affrontare? E quanto può essere triste ascoltare il nuovo disco di una band spezzata da un’overdose che fin dai primi vagiti ha fatto della tristezza la sua bandiera? Molto. La malinconia diventa quasi insopportabile quando i quattro rallentano come sanno fare loro ("Acid bubble", "Your decision"), o quando ti accorgi che le prime parole dell’album sono: “Hope / a new beginning / Time / Time to start living / Like just before we died”. O ancora, quando decidono di ripulirsi dalle distorsioni ("When the sun rose again e la struggente title-track che chiude il disco) riportandoci indietro fino al loro perfetto unplugged registrato per Mtv nel 1996. Onestamente, di più non si poteva fare.

7.5/10

Highlights:
All secrets known, Check my brain, Your decision, A looking in view, Acid bubble, Black gives way to blue.