tag:blogger.com,1999:blog-220095982024-03-07T12:36:09.053+01:00Marco RigamontiTutta la musica che mi circonda.Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.comBlogger1279125tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-49838907277246707952020-03-26T15:22:00.000+01:002020-07-20T15:02:10.036+02:0010 anni di I Mistici Dell'Occidente dei Baustelle<div style="text-align: center;">
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjd1n7hOBhJbhPZlPjm3ItBGxTwc0n2L3waK3371d1GZchi8C8LdbwTcjj2g9MER_bEz3HwEOIDNXg-hO6xJ9f5p7Qh3laFq4g-tpgx7TxWYsXajAVqgAdYFkZW1Y3OYbl2ZaVz/s1600/mistici-occidente-baustelle.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="559" data-original-width="989" height="360" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjd1n7hOBhJbhPZlPjm3ItBGxTwc0n2L3waK3371d1GZchi8C8LdbwTcjj2g9MER_bEz3HwEOIDNXg-hO6xJ9f5p7Qh3laFq4g-tpgx7TxWYsXajAVqgAdYFkZW1Y3OYbl2ZaVz/s640/mistici-occidente-baustelle.jpg" width="640" /></a></div>
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<i>“Non angosciarti più / Che bisogno c'è?</i></div>
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<i>Quando partono le rondini / Lasciale andare</i></div>
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<i>Non domandare più / Che ragione c'è?</i></div>
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<i>Quando passa il carro funebre / Fallo passare”</i></div>
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Comincia così <i>L'Indaco</i>, il primo pezzo del quinto album dei Baustelle. Le voci all'unisono di <b>Francesco Bianconi</b> e <b>Rachele Bastreghi</b> irrompono dopo quasi due minuti di introduzione strumentale, incitando un'agrodolce accettazione della realtà. Cosa potrebbe simboleggiare quel carro funebre che se ne va, spingendo il trio di <b>Montepulciano</b> a sconsigliare di porsi domande a riguardo? Forse il mercato discografico, che poi è il microcosmo in cui vivono, sempre più sull'orlo del baratro. Oppure un mercato ben più ampio: quello della società occidentale, che grazie alle sue regole impietose (e da un punto di vista strettamente umano poco sensate) è destinato prima o poi ad implodere.</div>
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“Sarebbe comodo / Andarsene per sempre / Andarsene da qui / Andarsene così”, recitavano le ultime parole del brano di congedo del disco precedente. Sarebbe senz'altro comodo, ma non servirebbe a risolvere il problema.
Per questo un'affermazione come “Non è impossibile pensare un altro mondo”, timido barlume di speranza che affiora in <i>Andarsene Così</i> sul finale del disfattista <i>Amen</i>, diventa il mantra di <i>I Mistici Dell'Occidente</i>. O almeno, ci prova: “E non buttarti giù / Che in fin dei conti c'è / Un azzurro che fa piangere / Oltre le nubi”. Parole che suonano quantomai attuali nell'assurdo momento storico che stiamo vivendo, e che probabilmente in questi giorni ci ripetiamo l'un l'altro per farci coraggio. Ma parlare di profezia sarebbe sbagliato: dopotutto, Bianconi ha sempre dichiarato di volere soltanto osservare scrupolosamente la realtà che lo circonda, riversando i suoi pensieri nei testi delle sue canzoni. «Qui dentro ci sono le parole più ottimiste che abbia mai scritto – mi ha raccontato in un'intervista di dieci anni esatti fa, il giorno prima della pubblicazione di <i>I Mistici Dell'Occidente</i> – Sono convinto che in qualche modo ci salveremo. Magari “Disprezzando la realtà”, come dico nella traccia che dà il titolo al disco. Un'espressione che non vuole essere altezzosa: con “disprezzare” intendo suggerire che non è obbligatorio credere ai prezzi che vediamo in vetrina. Il valore non può essere misurato solo attraverso i soldi. Non è l'unico modo culturale possibile».</div>
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Una delle ragioni principali che mi hanno fatto innamorare dei Baustelle è il linguaggio che utilizzano, in perfetto equilibrio tra poesia e disincanto. Nei loro testi ho sempre trovato metafore azzeccate, osservazioni acute, disamine sincere e citazioni di alto livello; non ultima quella dell'omonima antologia curata dallo storico e filosofo <b>Elémire Zolla</b> (<i>I Mistici Dell'Occidente</i>, appunto). Nel libro del 1963 Zolla raccoglie gli scritti dei veri mistici e ne dà una sua interpretazione, ponendo l'accento in particolare sulla transitorietà della vita sancita da credi e religioni, che sottolineano quanto la la redenzione e la vera felicità si possano raggiungere solo alla fine del percorso terreno. Applicando a loro modo la lezione di Zolla, i Baustelle si cimentano in una sfida proibitiva: tentare di trovare rimedio al declino culturale della società moderna senza scivolare in composizioni didascaliche o asettiche. «Abbiamo preso in prestito solo il punto di partenza del ragionamento di Zolla – precisa Francesco – Anche se la nostra è un'ottica laica, crediamo che sia importantissimo provare ad immaginare altri metodi per organizzare questo mondo».</div>
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“Gentili ascoltatori, siamo nullità”; un modo carino e forbito per esprimere l'intolleranza alla macchina consumistica in cui siamo invischiati. Accuse che raggiungono l'apice della crudezza in <i>La Bambolina</i>, brano che descrive l'emancipazione illusoria della donna (“La bambolina (…) si espone in vetrina / si piega, si inchina / al tempo al potere / si guarda il sedere / È grassa, si sente così”), augurandosi che una divinità qualsiasi la salvi “Dai sogni e dai falsi bisogni” e la aiuti a ritrovare la libertà (“Non compri, non esca / Non cresca, sia vera”). Per eludere l'impatto negativo del materialismo forse basterebbe evitare di crescere. “Quel che impari dalla vita non è vero”, sentenzia Bianconi in <i>San Francesco</i>, chiarendo il concetto nella biografia della band: «A livello emotivo, la giovinezza è il periodo di maggiore felicità dell'uomo. Quando sei piccolo vedi nel tuo futuro mille mondi diversi tutti possibili, dal cowboy all'astronauta fino all'ingegnere o al musicista; poi gli interruttori delle opzioni cominciano man mano a spegnersi e si entra in un'altra dimensione».</div>
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Sfortunatamente, la strada dell'eterna giovinezza non è percorribile: non rimane dunque che rifugiarsi nell'amore.
Quello puro de <i>Gli Spietati</i>, per esempio; “C'è un amore che non muore mai / Più lontano degli dei / A sapervelo spiegare / Che filosofo sarei”. O quello estremo e passionale - perfino sbagliato - che culmina nel crudo “Vamos a matar” di <i>La Canzone Della Rivoluzione</i>. «Nessuno vuole giustificare il ricorso alla violenza, ma in questi giorni di ristagno culturale c'è da rimpiangere le epoche in cui c'erano idee forti e la volontà di difenderle ad ogni costo». Non è un caso, dunque, che la contrapposizione tra <b>amore e violenza </b>faccia capolino ben 7 anni prima della pubblicazione del disco che porterà quel titolo. Fa tutto parte di un percorso che i Baustelle avevano iniziato nel 2000, esplicitando la propria immaturità senza vergogna nel titolo dell'esordio (<i>Sussidiario Illustrato Della Giovinezza</i>). Un percorso nel quale <i>I Mistici Dell'Occidente</i> viene però giudicato come qualcosa di molto simile al proverbiale passo falso.</div>
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Anche io, pur essendo un fan dichiarato, ho fatto una certa fatica a metabolizzarlo. Dopo il sorprendente <i>La Malavita</i> e il conclamato <i>Amen</i>, mi aspettavo la consacrazione definitiva; ma ho subito intuito che un disco simile non avrebbe mai sfondato, soprattutto per l'evidente carenza di singoli (gli unici due pezzi suonati dalle radio saranno <i>Le Rane</i> e la già citata <i>Gli Spietati</i>). È stata una delle prime domande che ho rivolto a Francesco quel 25 Marzo del 2010, ottenendo la risposta di chi sa di non potere fare altro che seguire onestamente il proprio istinto: «In un certo senso mi fa piacere che tu non abbia individuato dei singoli, ed è un punto di vista che condivido, trattandosi di canzoni piuttosto riflessive. Lo vedo come un atto di coraggio; se fai un mestiere creativo devi essere disposto a rischiare qualcosa, e noi lo siamo».
Pur raggiungendo il traguardo di disco d'oro e sfiorando la <b>Targa Tenco</b>, <i>I Mistici Dell'Occidente</i> finisce così per essere catalogato come “il disco strano” dei Baustelle. Perfino i diretti interessati hanno ammesso che si trattasse di una sorta di piano B, registrato in attesa di dedicarsi ad un progetto orchestrale ben più ambizioso che in quel momento per varie ragioni non era possibile realizzare. Un album che però a posteriori si rivela prezioso, diventando l'ideale anello di congiunzione tra il rock di <i>Amen</i> e il folk sinfonico di <i>Fantasma</i>. Una ricerca lodevole, ma in parte incompiuta, della verità. Un lavoro che naviga senza vento, composto nella consapevolezza che il tempo ci sfugge, ma il segno del tempo rimane.</div>
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Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-3260893508659588132020-02-29T15:03:00.000+01:002020-07-20T15:03:37.934+02:0020 anni di Machina degli Smashing Pumpkins<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgu2OA6BTxktzyCAze6Fr3U7WMRe9lWhb1SD1Qzz0PNune6FmJN26nt0fSAwFRmWJ-sCd7-0nA_Yf1PkYPsnIm81vrivXNKYBI2qdDIoYyNQ29rGzqlS-1-mejhJCJC3bt-XaTy/s1600/unnamed.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="273" data-original-width="512" height="340" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgu2OA6BTxktzyCAze6Fr3U7WMRe9lWhb1SD1Qzz0PNune6FmJN26nt0fSAwFRmWJ-sCd7-0nA_Yf1PkYPsnIm81vrivXNKYBI2qdDIoYyNQ29rGzqlS-1-mejhJCJC3bt-XaTy/s640/unnamed.jpg" width="640" /></a></div>
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In occasione del ventesimo anniversario del debutto degli Smashing Pumpkins, <b>Billy Corgan</b> annuncia di volere ripubblicare tutti i dischi che hanno definito la prima era della band di Chicago. La promessa viene mantenuta: tra il 2011 e il 2012 spuntano le rimasterizzazioni di <i>Gish, Siamese Dream, Mellon Collie</i> &<i> The Infinite Sadness</i> e perfino di <i>Pisces Iscariot</i>, raccolta di b-side e outtake talmente ben riuscita da guadagnarsi la reputazione di un vero e proprio album. Ma nel 2014, quando arriva il turno di <i>Adore</i> e <i>Machina</i>, Corgan dichiara che la ristampa dell'ultimo tassello subirà un ritardo a causa di questioni legali. Purtroppo la risoluzione degli impicci burocratici non porta a nulla di concreto: la riedizione incontra un nuovo ostacolo nelle elucubrazioni mentali di un Billy intenzionato a presentare il disco nella sua versione definitiva, quella che non era riuscito a realizzare pienamente nel 2000.</div>
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La performance iniziale di <i>Machina/The Machines Of God</i>, che esce il 29 Febbraio del 2000, è tutt'altro che negativa: nella prima settimana raggiunge il podio sia in America che in diversi stati d'Europa. A far suonare l'allarme, semmai, sono i singoli: <i>The Everlasting Gaze</i> e <i>Stand Inside Your Love</i> non replicano il successo di <i>Ava Adore</i> e <i>Perfect</i>, che peraltro avevano già rappresentato una brusca frenata rispetto a due assi pigliatutto come <i>Bullet With Butterfly Wings</i> e <i>1979</i>. <i>Machina</i> scivola così troppo presto nell'oblio, sancendo la fine commerciale degli Smashing Pumpkins. Un declino in qualche modo prevedibile, visti i continui cambi di line-up; al nuovo reclutamento di <b>Jimmy Chamberlin</b>, precedentemente allontanato per problemi di droga, fa da contraltare l'addio di <b>D'Arcy Wretzky</b>. Il posto della bassista, nei video e nei concerti, lo prende l'ex-Hole <b>Melissa Auf der Maur</b>. Ma il 23 Maggio del 2000 Billy Corgan annuncia pubblicamente che dopo il tour gli Smashing Pumpkins si congederanno definitivamente dalle scene, lasciando un ultimo regalo in free download ai fan (<i>Machina II/The Friends And Enemies Of Modern Music</i>).</div>
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«In quel momento non potevo accettare che il pubblico non riuscisse a capire <i>Machina</i> – rivela Billy in un'intervista del 2014 – Ma ora sì. Nonostante i miei amici musicisti e molti critici musicali l'avessero apprezzato, per la maggior parte degli ascoltatori era un disco alieno e scuro, troppo difficile da digerire. Quando si parla di musica pop, ci deve sempre essere un elemento che stimola chi ascolta ad approfondire. E <i>Machina</i>, sia ai tempi che per come esiste ora, si comporta in modo diametralmente opposto: non ti invita all'ascolto, ma ti tira un pugno in faccia e si aspetta che tu stia zitto e buono a sorbirtelo per due ore. Non è stata una scelta saggia, e mi prendo tutte le responsabilità del caso».</div>
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Eppure, il progetto <i>Machina</i> era cominciato all'insegna di una visione ben precisa: l'approccio teatrale, con tanto di maschere volutamente esagerate, era stato pensato come reazione al modo in cui i componenti della band venivano descritti dalla stampa e percepiti dal pubblico. Una decisione che amplifica il discorso iniziato ai tempi di <i>Mellon Collie</i>, quando Billy aveva ucciso metaforicamente la sua identità rasandosi i capelli e indossando una maglietta con la scritta “Zero”. Così, come reso esplicito dallo straniante interludio nel bel mezzo di <i>Glass & The Ghost Children</i>, il protagonista principale sente la voce di un'entità suprema parlare attraverso di lui. In quel momento cambia il suo nome in Glass e quello della sua band in The Machines Of God, mentre i fan partecipano alla storia sotto le spoglie di Bambini Fantasma (The Ghost Children). Le premesse per scrivere un disco intrigante ci sono; ma tra la band che si sfalda e l'etichetta che si rifiuta di pubblicare e promuovere un album doppio in seguito al “fallimento” di <i>Adore</i>, il grande disegno viene per forza di cose ridimensionato.</div>
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In questo terremoto, vale la pena sottolineare un particolare interessante: anche se le contingenze scombinano i piani, l'idea di distacco che Corgan aveva originariamente in testa sopravvive eccome. Perché «C'è qualcosa di perfetto nel non curare ogni singolo dettaglio di un'opera, e permettere alla sincronicità di mostrare la via». Prendendo in prestito il concetto introdotto dallo psicanalista <b>Carl Gustav Jung</b> nel 1950, che descrive un legame tra eventi connessi che avvengono in contemporanea senza influenzarsi a vicenda, Billy trova il modo di giustificare <i>Machina</i>. «Quel disco è stato inciso poco prima del crollo disastroso dell'industria discografica. Pur rendendoci conto che stava accadendo qualcosa, non ci siamo tutelati consciamente; pensavamo di essere un semplice ingranaggio di un sistema che prima o poi avrebbe dovuto fare i conti con la rivoluzione digitale. Osservare il passato, a giochi fatti, è sempre facile; ma in quel momento storico ci sentivamo persi in una terra di mezzo, in balia di forze sconosciute che non riuscivamo a decifrare. E abbiamo deciso di rischiare il tutto per tutto».
Una sensazione che Corgan aveva già avvertito nel 1998, rifiutandosi di replicare la formula di <i>Mellon Collie</i> per assecondare i propri stimoli, lasciando in secondo piano i discorsi legati al possibile gradimento del pubblico e delle major.</div>
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Sia nel caso di <i>Adore</i> che in quello di <i>Machina</i>, ha prevalso l'istinto; ma pur ammettendo che in entrambi i casi i numeri non gli hanno dato ragione, Billy non ha rimorsi. «<i>Adore</i> è il nostro album più significativo: rappresenta lo sganciamento dalla volontà di finire su <b>MTV</b> a tutti i costi, e il desiderio di gettarsi a capofitto nel vuoto, seguendo un'ispirazione personale. <i>Machina</i> è molto più confuso, ma suona incredibilmente moderno oggi. Per questo non voglio sprecare l'occasione di terminarlo fuori tempo massimo, di sviscerare tutto quello che mi passava per la testa in quel periodo e riproporlo in una versione più limpida. E soprattutto, completa».
L'interminabile silenzio che avvolge il mistero della ripubblicazione di <i>Machina</i> è stato recentemente rotto dai risoluti “yes” di Billy Corgan in risposta alle domande dei fan durante un Q&A su Instagram. Ma ad oggi, non è stata ancora rivelata una data precisa. «Si tratta di un album avulso dalla nostra carriera, che sembra non essere mai uscito veramente. Per cucire attorno a <i>Machina</i> un contesto adeguato, e fare sì che venga finalmente considerato parte della discografia degli Smashing Pumpkins, serviranno tempo e pazienza». Domani si festeggia il ventesimo compleanno di <i>Machina</i>: che possa essere il giorno giusto per riscoprirlo a dovere? Chi lo sa. Quando c'è di mezzo l'istinto di Billy Corgan, ogni sorpresa è lecita.</div>
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Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-37871611828436864612020-02-18T16:14:00.001+01:002020-12-31T18:12:56.858+01:00Viva gli artisti che fanno come gli pare: Damon Albarn<div style="text-align: center;">
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjmX39yjblvOq4ftyTwz8eZY10o5tsh7HllGHoaae42kRjGYZmqNSdY3giZ4nxEevgjo4wy41bMCihJP-Fx_ZSX0dRlSpsYnOqeDAmxkW-WMJqD9r7acInHqbA8wqpgi00GdnO1/s1600/damon-albarn-1492555079.19.2560x1440.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="900" data-original-width="1600" height="360" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjmX39yjblvOq4ftyTwz8eZY10o5tsh7HllGHoaae42kRjGYZmqNSdY3giZ4nxEevgjo4wy41bMCihJP-Fx_ZSX0dRlSpsYnOqeDAmxkW-WMJqD9r7acInHqbA8wqpgi00GdnO1/s640/damon-albarn-1492555079.19.2560x1440.jpg" width="640" /></a></div>
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Dopo il beat preoptente di <i>Born Slippy </i>degli <b>Underworld</b>, scelto come sfondo per le promesse finali di un Mark Renton intenzionato a rigare dritto e scegliere la vita, sui titoli di coda di <i>Trainspotting</i> spunta un valzer bizzarro. Si intitola <i>Closet Romantic</i>, ed è a tutti gli effetti l'esordio discografico da solista di <b>Damon Albarn</b>. Un ragazzo ventisettenne che già all'epoca, mentre con i suoi <b>Blur</b> cercava di contendere agli <b>Oasis</b> lo scettro della miglior band britpop, mostrava chiari segnali di quanto il suo istinto esploratore non ne volesse sapere di rimanere rinchiuso nel recinto del rock.</div>
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Oggi, a quasi un quarto di secolo dall'uscita dello storico film di Danny Boyle, i progetti concepiti dalla mente di Albarn non si contano. In primis, i <b>Gorillaz</b>: sei album all'attivo e il recente annuncio della serie audiovisiva <i>Song Machine</i>, distribuita in episodi sparsi, come a riflettere la schizofrenica rapidità di un mondo in continua evoluzione. E i <b>The Good, The Bad & The Queen</b>, insieme a Paul Simonon dei Clash, Simon Tong dei Verve e al pioniere dell'afrobeat Tony Allen. Ma queste sono soltanto le due realtà più note, perché la discografia di Damon pullula di progetti estemporanei e creazioni occasionali. Basta pensare ai <b>Rocket Juice & The Moon</b>, ennesimo supergruppo costituito insieme al fedele Allen e a Flea dei Red Hot Chili Peppers, O ai continui flirt con collettivi africani che hanno prodotto almeno tre dischi (<i>Mali Music</i> nel 2002, <i>Kinshasa One Two</i> nel 2011 e <i>Maison Des Jeunes</i> nel 2013). Giusto per non farsi mancare nulla, Albarn ha lavorato su varie colonne sonore e ha perfino realizzato un paio di opere teatrali.</div>
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Cercare di mettere ordine in una simile quantità di produzioni è un'impresa quasi impossibile. Ma forse l'ordine non è un criterio da prendere in considerazione quando si parla di un artista vulcanico, che ha un'innata predisposizione a collaborare, a rischiare e a mischiare continuamente le carte. «La prerogativa della musica rock è di non avere radici. Il rock è sperimentale per natura, e quando vuole trovare a tutti i costi la sua identità smette di avere un significato», sentenzia Damon nel 2003. Una considerazione che nel caso specifico serve a giustificare lo spiazzante <i>Think Thank</i>, ma che in generale descrive il suo pensiero artistico; dopotutto, non si può certo dire che i primi sei album dei Blur avessero seguito una formula sonora e compositiva ben definita. Se un alieno ascoltasse singoli come <i>Girls & Boys, Song 2</i> e <i>Tender</i>, provenienti da tre dischi consecutivi pubblicati nel giro di 5 anni, farebbe fatica a trovare un inequivocabile filo conduttore. «A volte è difficile spiegare alla gente che stai facendo un percorso, e forse non sei ancora arrivato; ma non mi sono mai fatto problemi a presentare anche quella parte del viaggio. Senza la piena consapevolezza dei propri errori non si va da nessuna parte».</div>
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Sebbene sperimentare e sfidare continuamente i propri limiti e quelli della musica sia un principio sano e necessario per evolversi, qualcuno potrebbe obiettare che a farne le spese, di fronte a svolte continue e ad un numero così elevato di progetti ed intuizioni, possa essere la qualità. Un'argomentazione che a Damon interessa poco. «Io scrivo con le emozioni, è l'unica via che conosco. Faccio il cantautore perché voglio esprimere gioie e paure attraverso la musica. Nelle note c'è la mia vita». Un'urgenza che nel 1998 trasforma un'innocua conversazione con il fumettista <b>Jamie Hewlett</b> in una visione concreta. «I Gorillaz sono nati in un contesto meravigliosamente spontaneo. Stavamo cazzeggiando sul divano, e all'improvviso ci siamo chiesti se non fosse il caso di creare una band immaginaria. A quel punto Jamie mi ha detto che sarebbe andato nel suo studio a disegnare dei personaggi. Io gli ho risposto che sarei andato nel mio a scrivere musica, e che poi avremmo messo insieme i nostri lavori».</div>
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Uno dei motivi per cui Damon si ritrova a condividere un appartamento con Hewlett è la fine della sua storia con <b>Justine Frischmann</b> degli Elastica. Una relazione lunga e significativa, che tra l'altro l'aveva anche introdotto all'eroina. «Di ritorno da un tour, me la sono trovata pronta in salotto. E ho pensato: “Perché no?”». Damon ha raccontato più volte il suo rapporto con la droga, e l'argomento è tornato di moda ai tempi di <i>Everyday Robots</i>, il suo primo (e finora unico) album solista del 2014. “La stagnola e un accendino / (…) / Cinque giorni attivi e due giorni di pausa”, canta esplicitamente in <i>You And Me</i>, quasi a dedicare un tributo al periodo dell'assuefazione. Sebbene la parola tributo possa sembrare fuori contesto, Damon si è espresso in maniera sincera a riguardo della sua dipendenza: pur mettendo tutti in guardia rispetto all'abitudine malsana, sostiene di avere beneficiato degli effetti dell'eroina. «Non posso negare che mi abbia in qualche modo illuminato creativamente. Io l'ho vissuto come un esperimento; ma purtroppo questo esperimento se diventa routine ti può rubare la vita. Sono stato fortunato, perché non ho subito effetti collaterali negativi e mi alzavo ogni mattina con l'entusiasmo di fare musica. Inoltre, non ho nemmeno avuto bisogno della riabilitazione, perché l'ho trovata in maniera naturale andando a visitare l'Africa. In quel momento sono riuscito a percepire la vera libertà a mente lucida».</div>
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Come il Renton di Danny Boyle, a un certo punto Damon ha messo la testa a posto.
L'importanza dei viaggi nella vita (artistica e non) di Damon Albarn è centrale. Tra le sue mete preferite c'è la <b>Jamaica</b>, oltre all'onnipresente <b>Africa</b>. Ma anche una terra diametralmente opposta per clima e posizione: l'<b>Islanda</b>. «Da piccolo sognavo spesso delle spiagge nere. Poi un pomeriggio, guardando una trasmissione sull'Islanda, ho notato che lì esistevano davvero. Così ho preso un aereo da solo e sono andato a vederle con i miei occhi». L'episodio risale al 1996, anno in cui i Blur incidono il quinto disco in parte a Londra, e in parte proprio nell'isola dell'Europa Settentrionale. Un'isola alla quale rimane legato, come dimostra la colonna sonora composta per <i>101 Reykjavik</i> nel 2000 e il recente annuncio di un nuovo progetto orchestrale ispirato ai paesaggi islandesi (<b>The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows</b>).</div>
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Conviene rassegnarsi: stare dietro a tutto quello che combina quest'uomo è una vera sfida.
Qualcuno potrebbe rimanere stupito dal fatto che in queste poche righe non abbia menzionato nomi enormi, come quelli di <b>Bobby Womack</b> (che si è rivolto a lui per produrre il disco del congedo definitivo), <b>Massive Attack</b> (con i quali ha collaborato a diverse riprese) e la parata di artisti che hanno contribuito alla causa dei Gorillaz (da Lou Reed ai De La Soul, da Neneh Cherry a Ike Turner, da George Benson a Snoop Dogg, da Jean-Michel Jarre a Mick Jones). Ci sarebbe un elenco a parte di illustri collaborazioni sfumate, nel quale svetterebbe il nome di David Bowie. Ma come già detto, fare ordine non è possibile quando si ha a che fare con un artista poliedrico e dinamico, che vive la musica giorno per giorno. «Quando apro la baracca, sono tutti i benvenuti. Le uniche condizioni che pongo sono un buon orecchio e l'apertura mentale. Sono cambiato rispetto a quando ero più giovane, ed ora vivo questo viaggio con più stabilità e maturità. Forse oggi mi muovo in maniera meno frenetica, ma non perderò mai la voglia di avventurarmi in territori che non conosco». A questo punto, i casi sono due: o sono io che non conosco il significato della parola “frenetico”, oppure qualcuno dovrebbe spiegarlo a Damon Albarn. «Ho imparato una cosa dalla vita: quando credi di essere arrivato, la meta cambia. L'unica cosa che posso fare è accettare questa regola e andare avanti».</div>
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Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-30683461061233592982019-11-22T15:45:00.000+01:002019-11-30T15:45:42.353+01:00Coldplay - Everyday life (2019, Parlophone)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg_t0AwQjmb8_XX1K6qASkluvvEavXLGLMDjYRm2Ml0KapQnvf8ukBigfEMotAtMa72OuckyDp1Za2nuV-Uxd2PfjvpsCkbk6sVw_cEgcrWiJfaIKOn1Pkmmda8GZBH7D86isAK/s1600/R-14434723-1574461403-2666.jpeg.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="600" data-original-width="600" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg_t0AwQjmb8_XX1K6qASkluvvEavXLGLMDjYRm2Ml0KapQnvf8ukBigfEMotAtMa72OuckyDp1Za2nuV-Uxd2PfjvpsCkbk6sVw_cEgcrWiJfaIKOn1Pkmmda8GZBH7D86isAK/s200/R-14434723-1574461403-2666.jpeg.jpg" width="200" /></a></div>
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Mentre due o tre anni fa milioni di persone riempivano gli stadi di tutto il mondo per offrire il proprio supporto al coloratissimo tour di <a href="https://marcorigamonti.blogspot.com/2015/12/coldplay-head-full-of-dreams-2015.html" target="_blank">A Head Full Of Dreams</a>, la frangia di contestatori dei <b>Coldplay</b> aumentava a dismisura. Chi non li aveva mai sopportati (e supportati) si è sfregato le mani assistendo al proliferare di aggettivi come “noiosi”, “bolliti”, “venduti”. Nel più classico dei meccanismi moderni, che prevede la fondazione fulminea di veri e propri partiti a favore o contro qualsivoglia oggetto di discussione, l’intolleranza nei confronti di Chris Martin e soci ha preso le sembianze di meme sarcastici e articoli derisori. L’ultimo nel quale mi sono imbattuto, recita più o meno così: “Oggi è un giorno triste per la musica: i Coldplay hanno deciso di non sciogliersi”.</div>
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L’accanimento nei confronti di alcune band, essenzialmente responsabili di avere raggiunto un enorme livello di notorietà, esiste da sempre; ma oggi risplende di una luce ben più abbagliante grazie all’amplificazione garantita dai social network. Il caso più eclatante è quello dei <b>Nickelback</b>: un gruppo capace di vendere più di 50 milioni di dischi e riempire stadi, ma allo stesso tempo di conseguire il poco invidiabile primato di band più odiata al mondo. Ma se una delle accuse principali mosse a Chad Kroeger e soci riguarda la loro immobilità artistica, i Coldplay si sono ritrovati in questa curiosa situazione in seguito a una scelta opposta: quella di evolversi, mettersi alla prova e – perché no – avvicinarsi consapevolmente al pop. Un iter familiare, che conduce alla classica affermazione che almeno una volta abbiamo pronunciato (o sentito pronunciare) nella vita: “Mi piacevano all’inizio, poi si sono commercializzati”. O “si sono persi”. Non tutti riescono a tollerare la trasformazione di qualcosa che sembrava esclusivo in un prodotto apprezzato universalmente.
In parte mi sento anche io vittima di questo meccanismo perverso, che talvolta mi impedisce di godere insieme ai “nuovi arrivati” di un fenomeno che ho avuto la fortuna di intercettare (e amare) prima del successo planetario. Forse non è un caso che la mia passione per i Coldplay abbia cominciato a scricchiolare dal cambio di direzione di <a href="https://marcorigamonti.blogspot.com/2008/08/coldplay-viva-la-vida-or-death-and-all.html" target="_blank">Viva La Vida</a>. Pur consapevole di trovarmi di fronte a un disco inappuntabile, non potevo fare a meno di rimpiangere il suono più scarno di <i>Parachutes</i>, l’album del cuore. L’intimità di <a href="https://marcorigamonti.blogspot.com/2014/05/coldplay-ghost-stories-2014-parlophone.html" target="_blank">Ghost Stories</a> ha risvegliato il mio fervore, mentre ho fatto molta fatica a digerire <a href="https://marcorigamonti.blogspot.com/2015/12/coldplay-head-full-of-dreams-2015.html" target="_blank">A Head Full Of Dreams</a>. Ho espresso il mio disappunto sostenendo che fosse un disco privo di anima: prodotto ad arte, ma di una superficialità a tratti sconcertante. Ciononostante, non sono mai passato dalla parte degli hater. Un po’ perché mi sembrava irrispettoso. Un po’ perché non ho memoria di un artista in grado di evitare di fare qualche passo falso.</div>
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Chissà se Chris Martin, Guy Berryman, Jonny Buckland e Will Champion sono turbati o condizionati dal crescente fastidio nei loro confronti. Personalmente, ho trovato geniale l’operazione di annunciare l’uscita del nuovo disco attraverso delle lettere spedite via posta ai fan. Non che i Coldplay non ci avessero abituati a campagne pubblicitarie stravaganti, ma questa – in un’epoca in cui è sufficiente premere invio per raggiungere istantaneamente il mondo intero – le batte tutte. Ho pensato che potrebbe essere interpretata come una sorta di sberleffo ai danni dei nostalgici dell’esclusività: la freddissima comunicazione digitale moderna, destinata a tutti e a nessuno, che viene sostituita da un messaggio ad personam, molto più caldo almeno nella forma e nelle intenzioni. O forse si può leggere come preciso intento di volere escludere dalla comunicazione tutti quelli che di fronte alla notizia avrebbero fatto spallucce, o colto l’occasione per ironizzare. Infine, ho sperato che si trattasse di un indizio sulla musica contenuta in <i>Everyday Life</i>: come dire che non dobbiamo aspettarci un album patinato, dove in qualche canzone appare una Rihanna o una Beyoncé. Probabilmente le mie sono solo congetture, e la manovra aveva il solo scopo di creare attesa e fare parlare dell’album; ma, se parliamo di musica, le cose stanno proprio così.
Perché in questa ora scarsa suddivisa concettualmente in due parti non c’è traccia di cori da stadio, arrangiamenti dance o hit radiofoniche. È un disco decisamente elegiaco, che in più di un episodio si avventura in esplorazioni per nulla scontate, traendo ispirazione da culture e tradizioni lontane dall’Occidente. È il caso di <i>Church</i>, che cita il cantante pakistano qawwal <b>Amjad Farid Sabri</b>, o di <i>Bani Adam</i>, che ospita un testo della poetessa iraniana <b>Saadi Shirazi</b>. O del singolo <i>Arabesque</i>, con i fiati impazziti orchestrati da <b>Femi Kuti</b>, la cui nazione d’origine (la Nigeria) viene apertamente citata nella soave <i>Èkó</i>. Gli archi di <i>Sunrise</i>, il gospel di <i>BrokEn</i> e i cori solenni di <i>When I Need A Friend</i> virano invece verso il sacro, mentre in <i>Wonder Of The World / Power Of The People</i>, <i>Old Friends</i> e <i>Guns</i> l’arrangiamento è ridotto a chitarra e voce (un minimalismo che ricorda gli esordi dei primi anni zero). <i>Daddy</i> e <i>Cry Cry Cry</i> sono due dolci ballad (la prima funerea, la seconda solare), mentre l’unico brano che si può lontanamente associare a una folla in delirio è l’altro singolo, <i>Orphans</i>.</div>
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Diciamolo: i Coldplay hanno tirato fuori un disco che non c’entra nulla con le impalcature smaccatamente pop di <a href="https://marcorigamonti.blogspot.com/2015/12/coldplay-head-full-of-dreams-2015.html" target="_blank">A Head Full Of Dreams</a>. Hanno deciso che è tornato il momento di sperimentare. Di sfidare nuovamente i propri limiti. Ma se sperimentare significa tentare di mettere a fuoco qualcosa, è bene ricordare che molto spesso il frutto delle sperimentazioni musicali non centra l’obiettivo. Esistono una miriade di dischi notevoli che mostrano spunti interessanti, ma li presentano in maniera disarmonica, poco naturale e poco coesa. L’esatto contrario di <i>Everyday Life</i>, che raggiunge il risultato con classe e coerenza, fregandosene di tutto: della discografia, delle tendenze e forse perfino del pubblico (compresi i fedelissimi che negli anni hanno abbracciato con euforia tutte le divagazioni stilistiche della band). Probabilmente quest’opera toccante e ambiziosa non basterà a placare l’incomprensibile fastidio sbandierato in rete da chi ha deciso di schierasi a priori contro i Coldplay. Ma d’altra parte, come sosteneva <b>Goethe</b>, “parlare è un bisogno; ascoltare è un’arte”. Aggiungiamo a questa massima una postilla: ascoltare senza pregiudizi, nel mondo in cui viviamo, è un’utopia. Forse ogni tanto conviene rinunciare all’ironia imperante e provare a pensare con la propria testa. E lasciarsi guidare solo e unicamente dalla musica. Basta guardare con i propri occhi un gruppo globale (l’ultimo gruppo globale?) come i Coldplay che suonano sulle mura di Amman in Giordania, per recuperare quella magia impalpabile, e sentirla presente e vera. E a quel punto, nemmeno il sarcasmo può scalfire l’utopia.</div>
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<span style="color: red; font-weight: bold;"><span style="color: red;">8.5/10</span><br /><br /><span style="color: purple;">Highlights: </span></span><span style="color: purple;">Tutto.</span><br />
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<br />Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-30946460218819202312019-09-22T15:49:00.000+02:002020-07-20T16:02:38.851+02:00Viva gli artisti che fanno come gli pare: Trent Reznor<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgFywLWfA4OPsBsD-mtnY7BSQO7UPSzPRHj5fRWmSQL0dH9oqyu64koDgMTby0gSnYoHuCpoO2mSeOTExwyIDjcRwZrQ0XpiW-2FVTqVvzYj7fYYKH65qnufQQICcra3NRLjOTW/s1600/trent-reznor-woodstock.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="620" data-original-width="1000" height="396" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgFywLWfA4OPsBsD-mtnY7BSQO7UPSzPRHj5fRWmSQL0dH9oqyu64koDgMTby0gSnYoHuCpoO2mSeOTExwyIDjcRwZrQ0XpiW-2FVTqVvzYj7fYYKH65qnufQQICcra3NRLjOTW/s640/trent-reznor-woodstock.jpg" width="640" /></a></div>
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In un episodio della quinta stagione di <b>Black Mirror</b>, Miley Cyrus aizza le ragazzine cantando un singolo del 1990 dei <b>Nine Inch Nails</b> rivisitato nell'arrangiamento e nel testo. Un mese fa, lo stesso singolo è stato scelto dalla <b>Microsoft</b> per il trailer del nuovo capitolo della saga di videogiochi Gears Of War. A quasi trent'anni dalla pubblicazione, <i>Head Like A Hole</i> è più attuale che mai. Un pezzo rabbioso, che mette in chiaro il carattere di un uomo poco incline a piegarsi alle regole. “Preferirei morire piuttosto che darti il controllo”, urla <b>Trent Reznor</b> in faccia al Dio Denaro nel ritornello. Parole che tornano utili quando la TVT, etichetta che ha pubblicato <i>Pretty Hate Machine</i>, gli chiede di sbrigarsi a confezionare un nuovo album, possibilmente “meno duro, più commerciale e adatto alle radio”.</div>
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“Che si fottano”, pensa Reznor. Lo pensa, ma deve mordersi la lingua: il contratto in essere, che aveva firmato con entusiasmo qualche tempo prima, prevede delle clausole di esclusività che gli impediscono di pubblicare nuova musica senza l'avallo della <b>TVT</b>. Tutto ciò che può fare è registrare in segreto i nuovi pezzi, nella speranza che i presenti qualcuno in grado di sbloccare la situazione di stallo e salvare i NIN da un epilogo prematuro. L'interessamento della <b>Interscope</b> è provvidenziale, ma anche se non esistono alternative la fiducia di Trent è ai minimi storici: oltre a non sopportare che la sua creatura venga trattata come merce di scambio, vuole essere sicuro di avere piena libertà artistica. L'accordo viene siglato solo quando la label di <b>Jimmy Iovine</b> e <b>Ted Fields</b> gli assicura totale autonomia affidandogli la conduzione di un'etichetta indipendente, gestita insieme all'allora fido manager John Malm Jr.. La <b>Nothing Records</b> debutta nel 1992 con l'e.p. <i>Broken</i>, e nel video di <i>Gave Up</i> svetta una scritta su un monitor che recita “Fuck you Steve”. Incidentalmente, il proprietario della TVT si chiama <b>Steve Gottlieb</b>.</div>
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(Il frame in questione è al minuto 0:35. Si, quello che fa finta di suonare la chitarra è un giovane e struccato <b>Marilyn Manson</b>. Si, quello che suona davvero l'altra chitarra è <b>Richard Patrick</b> dei <b>Filter</b>).</div>
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Il bisogno di indipendenza è una costante nella vita di Reznor, che all'età di 5 anni comincia a prendere lezioni di piano mostrando un certo talento e una spiccata propensione alla creatività. Non può fare a meno di interpretare a modo suo i rigorosi spartiti di musica classica, provocando i continui richiami dei suoi insegnanti. Si fottano pure loro: anche perché quando Trent scopre i sintetizzatori, si dimentica completamente del pianoforte. Dopo il diploma, il ragazzo affascinato da numeri e calcoli decide di specializzarsi in informatica, ma un anno di college è più che sufficiente per fargli capire che quella strada non fa per lui. Ha un carattere introverso e solitario, ma non è il tipico nerd. Fin dai tempi in cui suonava nella banda liceale, aveva trovato nelle note un antidoto alla sua timidezza; passare il resto dei suoi giorni a smanettare sui computer senza avere almeno provato ad inseguire il sogno di una carriera musicale è fuori discussione.</div>
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Per fare sul serio decide di lasciare <b>Mercer</b>, la cittadina rurale dove ha trascorso l'adolescenza, alla scoperta di un mondo che fino ad allora aveva solo intravisto in televisione. Si trasferisce a <b>Cleveland</b>, dove trova lavoro in uno studio di registrazione. “Raschiavo i peli pubici dei musicisti dal sedile del water, ma in cambio potevo entrare di notte e usare lo studio». Nonostante abbia militato in diverse band, Trent fa fatica a condividere con qualcuno il suo modo di pensare la musica. Per questo motivo, i Nine Inch Nails vengono concepiti come una one-man band. Reznor suona tutti gli strumenti (esclusa la batteria), e incide il suo primo disco nello studio dove è assunto come inserviente.
Consapevole del potenziale pop della sua scrittura, ma allo stesso tempo allergico all'indottrinamento, Trent ripudia il consiglio dell'odiata ex-etichetta sfornando un lavoro meno accessibile di <i>Pretty Hate Machine</i>. Lo annuncia così: “<i>Broken</i> è un album brutto, realizzato durante un pessimo momento della mia vita. Sto iniziando a capire come funziona tutto questo, e non mi piace”. In quel momento sta anche ponendo le basi per il suo capolavoro.</div>
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<i>The Downward Spiral</i> è un'opera concettuale e grave, incentrata sull'autodistruzione. “Quando l'ho scritto, parlavo di un personaggio che fa a pezzi la sua vita alla ricerca di qualche risposta. Speravo fosse una sorta di caricatura, invece ho finito per descrivere la mia realtà».
L'immagine di <i>Mr. Self Destruct</i> che urla “I wanna fuck you like an animal” tra sudore e fango a <b>Woodstock '94 </b>è ingannevole: dietro a quella sfacciata irruenza si nasconde un'anima tremendamente insicura, che non può certo beneficiare del successo di un disco per guarire. Bisogna attendere cinque anni per ascoltare il seguito di <i>The Downward Spiral</i>: <i>The Fragile</i>, pubblicato nel settembre del 1999, è un tentativo (fallito) di fare ordine nel caos. Qualche mese dopo, annebbiato da fiumi di alcol, Trent va in overdose da quella che pensava fosse cocaina, ma che in realtà era eroina. Il <i>Fragility Tour</i>, nomen omen, si rivela il punto più basso della sua esistenza. ”Ero dipendente, ma non lo riconoscevo. Credevo di avere il controllo della situazione».</div>
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Riecco il tema del controllo. Quello che Trent non era disposto a concedere a nessuno, a costo di morire. Lo stesso controllo che ora, a mente lucida dopo un periodo di riabilitazione, lo costringe ad affrontare la paura di fallire senza potere fare affidamento su sostanze obnubilanti. Un ostacolo che, con pazienza e abnegazione, Reznor supera brillantemente. La rinascita è scandita da colonne sonore di spessore (composte insieme ad <b>Atticus Ross</b>, che nel 2016 diventa un membro ufficiale dei NIN), collaborazioni autorevoli (come quella di <b>Dave Grohl </b>in <i>With Teeth</i>), progetti ispirati (gli <b>How To Destroy Angels</b>, insieme alla moglie Mariqueen) e invenzioni di sistemi di promozione e distribuzione della musica all'avanguardia (<i>Year Zero</i> e <i>The Slip</i>). Una serie di vivide testimonianze della mente di un artista visionario, capace di guadagnarsi la stima di gente come <b>David Bowie</b> e <b>David Lynch</b> partendo dai bagni di uno studio di registrazione di Cleveland. E di diventare un punto di riferimento senza mai scendere a compromessi.</div>
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Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-7117638040600490352019-08-22T14:59:00.000+02:002020-07-20T15:05:28.044+02:0020 anni di Microchip emozionale dei Subsonica<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhu2voqXaF1b0IOJrx0MHnHwEe4P6CMDy30Ni_FpBzznR0qge2LmaeTYG3Ng14sUHYl5ti8ABxzgvIGqBDhu_2Qa4sxq8VGkhQzmLNr_jtExsbftFDSjqh4etrTMwK1t49cWA0N/s1600/Schermata+2020-07-20+alle+15.04.50.png" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="654" data-original-width="1178" height="354" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhu2voqXaF1b0IOJrx0MHnHwEe4P6CMDy30Ni_FpBzznR0qge2LmaeTYG3Ng14sUHYl5ti8ABxzgvIGqBDhu_2Qa4sxq8VGkhQzmLNr_jtExsbftFDSjqh4etrTMwK1t49cWA0N/s640/Schermata+2020-07-20+alle+15.04.50.png" width="640" /></a></div>
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Ogni tanto mi domando che fine abbia fatto Aurora, la ragazza che vent'anni fa sognava innesti artificiali degni di un romanzo cyberpunk. Nutrendosi di gelato e dormendo rigorosamente di giorno per sfruttare l'aria complice che le donava il buio, Aurora voleva essere in tutto e per tutto un automa. Bramava carne sintetica, labbra cromate e occhi bionici, magari provvisti di un sistema in grado di registrare i ricordi come succede in un episodio di <b>Black Mirror</b>. Ma il suo desiderio più proibito era un congegno denominato <i>Microchip Emozionale</i>; un dispositivo installato sotto pelle in grado di segnalare quei sentimenti nascosti nella sua anima che proprio non riusciva ad esprimere.</div>
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Aurora era un outsider. Una ragazza allergica ai vuoti rumori della realtà, che combatteva alzando il volume della sua musica preferita a stecca. Affrontare il mondo in maniera convenzionale era fuori discussione: meglio una sana e consapevole solitudine, piuttosto. Per raccontare le gesta della protagonista di uno dei brani cardine del secondo disco, i Subsonica avevano fatto uno strappo alla regola dei testi scritti in prima persona, optando per una narrazione in terza persona che solitamente esclude o limita il coinvolgimento dell'autore. In questo caso la regola non vale: sotto diversi aspetti, la figura di Aurora è una proiezione quantomai fedele del pensiero della band.</div>
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Pubblicato il 26 agosto del 1999 dalla <b>Mescal</b>, etichetta indipendente nata sei anni prima con il preciso scopo di tutelare progetti artisticamente meritevoli ma ignorati dal mercato italiano (gli outsider, appunto), <i>Microchip Emozionale</i> segna un punto di svolta nella carriera dei <b>Subsonica</b>. Chi li conosceva già dal primo lavoro era pronto a un’evoluzione, ma in pochi avrebbero scommesso su un disco in grado di proiettare i torinesi in territori mainstream senza sacrificare un briciolo di autenticità. Musicalmente e lessicalmente inconsueto rispetto alle tipiche produzioni made in Italy, l'album riesce comunque a ritagliarsi uno spazio significativo in classifiche e playlist, sollecitando una rivoluzione di pensiero che va ben oltre la musica.<br />
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Il segreto di <i>Microchip Emozionale</i> va ricercato nella sua marcata identità su più livelli. Compositiva, innanzitutto. Perché ad eccezione di <i>Lasciati</i> e <i>Strade</i> (pezzi in cui Samuel mette lo zampino) e <i>Discolabirinto</i> (scritto a quattro mani da Morgan e Boosta), il disco è opera di <b>Max Casacci</b> e <b>Davide Dileo</b>. Qundo i due uniscono le forze sprigionano un potenziale pop devastante, confermato dal primo singolo <i>Colpo Di Pistola</i> e da <i>Tutti I Miei Sbagli</i>, brano portato al <b>Festival di Sanremo</b> e successivamente incluso nella ristampa del 2000. Ma anche lavorando separatamente la coppia mostra un affiatamento esemplare, ed è grazie allo loro supervisione armonica e melodica che il disco sfoggia una coerenza impeccabile.</div>
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Una compattezza che si riflette anche in fase di arrangiamento attraverso l'esplorazione di soluzioni sonore che non appartengono al DNA della musica italiana. Le antenne si drizzano fin dallo skit introduttivo, che stravolge un campione della voce di Samuel creando una sorta di beatbox, per poi lasciare spazio alla linea di basso sintetica di <i>Sonde</i>. Quando <i>Colpo Di Pistola</i> raddoppia il ritmo sul ritornello o quando in <i>Liberi Tutti</i> spuntano arpeggiatori acidi è impossibile non pensare alla scena Uk capitanata da gente come <b>Fatboy Slim</b> e <b>Chemical Brothers</b>, così come l'incedere cupo di <i>Lasciati</i> richiama immediatamente le atmosfere rarefatte del <b>Trip-Hop</b>. Non si tratta di un caso: i Subsonica trovano ispirazione nella freschezza delle nuove correnti elettroniche d'oltremanica, e vogliono filtrarle attraverso un'ottica da rock band. Ben vengano dunque loop, sintetizzatori e manipolazioni sonore; ma sempre mantenendo vivo lo spirito del gruppo, e quindi contando su esecuzioni principalmente suonate. Un precetto che <b>Ninja</b> (batteria) e <b>Pierfunk</b> (basso), assi portanti del comparto ritmico, metabolizzano con estrema naturalezza.</div>
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L'inappuntabile coesione di <i>Microchip Emozionale</i> non si esaurisce qui, ma si rispecchia anche nella cura dei testi, straordinariamente coraggiosi sia nella forma che nei contenuti. Se l’elenco di farmaci antidepressivi snocciolato nelle strofe di <i>Depre</i> rappresenta il punto più alto della sperimentazione, il linguaggio degli altri brani, sebbene più comprensibile, non rinuncia a veri e propri azzardi. Quante volte è capitato di sentire nelle canzoni italiane termini come “training autogeno”, “neurotrasmettitori” o “shock adrenalinico”? Come dimostrato dalla storia, esprimersi in modo accessibile è una delle chiavi per il successo, a maggior ragione se chi ascolta conosce la tua lingua. Fare affidamento sulle classiche rime cuore/amore è una strategia del tutto legittima per raggiungere il pubblico, ma a quanto pare scendere a compromessi in nome di un'ordinaria (quanto scontata) musicalità non interessa ai Subsonica. E la buona notizia è che il loro messaggio viene recepito nonostante l'utilizzo di un vocabolario più ampio (ed alto).</div>
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Come chiariscono nella Bowiana <i>Il Mio D.J.</i>, i Subsonica sono quello che suonano (“I am a d.j. / I am what I play”): in quei solchi scorre la loro anima, e non hanno nessuna intenzione di venderla al diavolo. Il loro obiettivo, semmai, è dare alla gente quello che ancora non sa di volere, prerogativa dei bravi selezionatori musicali. L'unico modo per connettersi all'assenza di gravità dei torinesi è volerlo fortemente, perché nei loro corpi, proprio come in quello di Aurora, non c'è traccia di impianti artificiali, e quindi sono sprovvisti anche di sensori diplomatici.</div>
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Pur non sapendone nulla di cibernetica, mi sembra di capire che il <i>Microchip Emozionale</i> tanto desiderato da Aurora rimane una chimera. Bisognerà aspettare ancora un bel po' per un'invenzione simile. Ma sono sicuro la ragazza si sarà sentita meno sola ascoltando il secondo disco dei Subsonica a cavallo tra i due millenni. Un album che tra avveniristiche discoteche-labirinto e transiti satellitari sviscerava oscurità assolutamente umane, diventandone l'antidoto. Un'opera immune allo scorrere del tempo, pronta anche oggi a confortare tutte le Aurore in cerca di risposte sparse per il pianeta.</div>
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Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-79228966513559548262019-07-15T15:32:00.000+02:002020-07-20T15:48:51.550+02:00Viva gli artisti che fanno come gli pare: Thom Yorke<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhv4vOZ3KkGj1_nOoEaKOfT0apCjDNVXMsXG_jk3ZhPX0TFGjWdI3egJUB-3LpBTRvrluKaM1ltxwh5LVdFaMe-lue8B6g5R1hINdePJ6ClREk9jifG5g00US2FoIB4B8rpw3QS/s1600/Thom-Yorke-London-Februar-011.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="720" data-original-width="1200" height="384" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhv4vOZ3KkGj1_nOoEaKOfT0apCjDNVXMsXG_jk3ZhPX0TFGjWdI3egJUB-3LpBTRvrluKaM1ltxwh5LVdFaMe-lue8B6g5R1hINdePJ6ClREk9jifG5g00US2FoIB4B8rpw3QS/s640/Thom-Yorke-London-Februar-011.jpg" width="640" /></a></div>
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Quando Paul McCartney chiede assistenza a <b>Nigel Godric</b>h per il suo tredicesimo disco, il produttore supera un comprensibile attacco di panico, ma alla fine accetta. D'altronde è difficile immaginare che qualcuno possa resistere alla tentazione di collaborare con un pezzo di storia della musica. Però è successo: invitato a suonare il pianoforte in un brano di <i>Memory Almost Full</i>, <b>Thom Yorke</b> declina cordialmente la proposta di McCartney. «La canzone è bellissima, ma per suonare quella parte di piano bisogna sapere gestire le mani separatamente. Io non sono capace. Mi limito a strimpellare».
Non è una scusa, e non si tratta di mera umiltà. È un'osservazione che scaturisce da un'analisi realista e genuina, che non contempla approfondimenti su eventuali tornaconti personali. «Thom non era dotato come il suo amico <b>Johnny Greenwood</b>» ha rivelato il suo insegnante di musica del liceo «Però era un grande pensatore e adorava sperimentare».</div>
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Sono parole che descrivono bene l'attitudine di un musicista atipico, che non si è mai preso la briga di imparare a leggere spartiti, convinto che comporre attraverso un'impostazione classica rappresenti un ostacolo alla libertà di espressione. Una libertà che Thom vuole tenersi stretta, e dalla quale nascono veri e propri colpi di genio. Un esempio? <i>Pyramid Song</i>. Gli accordi di piano cadono in posizioni scomode, inducendo l'ascoltatore ad avvertire una certa instabilità, quasi come se il brano fosse pericolante. In realtà il singolo tratto da <i>Amnesiac</i> è in 4/4, una metrica assolutamente ordinaria: è il pensiero laterale di Yorke a donare profondità alla canzone, che suona ritmicamente ostica pur accomodandosi in uno schema metrico comune. Chissà se sarebbe mai arrivato a un risultato simile facendo affidamento sulle teorie, munito di carta e penna.</div>
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La filosofia di Thom prevede un buon grado di naturale improvvisazione. Come quando durante il tour di <i>Kid A</i> gli viene spontaneo compensare la mancanza della chitarra a tracolla tenendo occupate le braccia in un altro modo, finendo così per inaugurare i suoi iconici balletti nervosi, figli di un'indole schiettamente istintiva. Movimenti ricalcati dal recente cortometraggio firmato <b>Paul Thomas Anderson</b> in occasione dell'uscita del suo terzo disco solista, <i>Anima</i>. Un album in linea con le infatuazioni elettroniche di Yorke, che subentrano con prepotenza durante il blocco creativo successivo a <i>Ok Computer</i> (1997). Nel tentativo di trovare nuovi stimoli, Thom decide di andare in pellegrinaggio in Cornovaglia, camminando tra le scogliere e passando il tempo a scrivere e disegnare. La colonna sonora di questa parentesi solitaria della sua vita è composta quasi interamente dai lavori di Aphex Twin e Autechre, paladini della IDM (<b>Intelligent Dance Music</b>). Una musica spigolosa e robotica, dove non c'è spazio per la voce umana, ma nella quale Thom individua lo stesso potenziale emotivo delle canzoni suonate alla chitarra. Nella testa di Yorke il rock è giunto al capolinea: la brusca svolta stilistica di <i>Kid A</i> parte da qui.</div>
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«Da bambino credevo che la fama avrebbe colmato un vuoto, ma in realtà è successo il contrario: ero al centro dell'attenzione, e volevo essere da tutt'altra parte. La musica per me è sempre stata la via per progredire. Invece ero lì, immobile, a testimoniare la vendita del mio lavoro al miglior offerente». <i>Ok Computer</i> consacra i Radiohead, ma risucchia la linfa vitale di Thom. «Chiudi gli occhi, e convinciti di non essere qui. Ripeti alla nausea che tutto questo non sta succedendo» è il suggerimento dell'amico <b>Michael Stipe</b>, mantra che si riflette nel testo della catartica <i>How To Disappear Completely</i>. Più tardi, Thom riuscirà ad affrontare il suo smarrimento in maniera più lucida: “Non c'è alcuna scintilla nel buio” mormora in <i>Analyse</i> “Sei giù di morale, perché stai solo ricoprendo un ruolo”.</div>
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Quando i Radiohead si prendono una pausa dopo <i>Hail To The Thief</i> (2003), Thom ne approfitta per assecondare il bisogno impellente di dare alla luce il suo primo album solista.
<i>The Eraser</i> (2006) è un disco politico e inquieto, lontano anni luce dal rock. Concepito come la colonna sonora dell'isolamento, sia esso reale o metaforico, l'album è composto da nove schegge sbilenche costruite su un laptop a partire da registrazioni pre-esistenti. Insieme al fido Godrich, Thom taglia e cuce, rimaneggia e stravolge. Ma a differenza delle composizioni elettroniche che le hanno ispirate, le tracce ospitano una voce priva di effetti, che dona alle composizioni un'umanità sconvolgente. Sembra quasi che Thom voglia ribadire che esiste un modo per andare d'accordo con la tecnologia, principale motore dell'opprimente velocità alla quale il mondo si sta muovendo.</div>
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Una velocità che attraverso la rete destabilizza anche il music business, che diventa uno dei bersagli preferiti di Thom. Il cervellotico <i>Tomorrow's Modern Boxes</i> (2014) prosegue il discorso iniziato dai Radiohead con <i>In Rainbows</i> (2007), presa di posizione chiara contro le major, accusate di non gestire a dovere il processo di distribuzione della musica in una nuova era. Dopo l'eclatante <b>pay-wat-you-want</b>, ecco l'esperimento pay-gate. Un nuovo tentativo di bypassare le etichette, definite senza mezzi termini i “custodi auto-eletti”.
Scrosciano applausi e piovono critiche, perché per offrire il proprio contributo a una possibile rivoluzione è necessario rischiare.</div>
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Ma quello che fa riflettere è che Thom non è mai stato costretto a rimettersi in gioco. Dopo <i>Ok Computer</i> avrebbe potuto replicare la formula ad libitum insieme ai suoi Radiohead, e invece ha azzerato tutto. <i>In Rainbows</i> avrebbe venduto bene anche se distribuito in maniera più tradizionale, e invece è stato messo a disposizione del pubblico senza intermediari e senza prezzo. Accettare l'invito di <b>Paul McCartney</b> avrebbe aggiunto una collaborazione di valore al suo curriculum, ma ha preferito tirarsi indietro per rispettare i suoi ideali. Thom ha sempre messo il suo pensiero davanti a ogni possibile vantaggio. Ai tempi del liceo, un suo amico l'aveva soprannominato “Salamandra”, un appellativo che a lui non era mai andato giù. Nella simbologia del medioevo, la salamandra identificava le virtù che consentono alla persona retta di passare indenne attraverso tribolazioni e tentazioni. Il suo compagno del liceo ci aveva visto lungo.</div>
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Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-19533512829332733652019-06-22T15:34:00.000+02:002019-10-17T15:37:11.692+02:00Mark Ronson - Late night feelings (2019, RCA)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgvxQyiXyK5KGQIOXJSDRIucn4zb-o-uFowO3AQwThA8zDQOqaHuOrPSN9mLEmC8y-1u4SQZLRl5Tmj9sElUDL9pUM9TJ8wVBhYLt9DKF9VJCs4IlNBsSuIfW6X8YsY0B9sxrY_/s1600/R-13827249-1562250954-5010.jpeg.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="597" data-original-width="599" height="198" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgvxQyiXyK5KGQIOXJSDRIucn4zb-o-uFowO3AQwThA8zDQOqaHuOrPSN9mLEmC8y-1u4SQZLRl5Tmj9sElUDL9pUM9TJ8wVBhYLt9DKF9VJCs4IlNBsSuIfW6X8YsY0B9sxrY_/s200/R-13827249-1562250954-5010.jpeg.jpg" width="200" /></a></div>
Mark Ronson ha una certa familiarità con i Grammy. Il primo è probabilmente il più importante e risale al 2008, quando gli viene riconosciuto il titolo di <i>Produttore Dell'Anno</i> per avere confezionato nel modo che tutti conosciamo il secondo disco di <b>Amy Winehouse</b>. La voce senza tempo della compianta cantautrice britannica non poteva contare su una figura più calzante: quella di un produttore capace di lucidare il passato e consegnarlo al presente in una veste fresca con la destrezza di un veterano, quasi come se avesse vissuto in prima persona l'evoluzione dei suoni funk e soul negli anni '60 e '70. Gli ultimi due Grammy sono invece datati 10 Febbraio 2019, e questa volta li riceve come autore della miglior canzone scritta per un film, televisione o altri media audio-visivi (<i>Shallow</i>, interpretata da <b>Lady Gaga</b> e <b>Bradley Cooper</b>) e del miglior brano dance (<i>Electricity</i> di <b>Silk City & Dua Lipa</b>).
Ma in mezzo a questi premi ricevuti per lavori dietro alle quinte non si è fatto mancare anche un riconoscimento diretto nel 2016, quando si aggiudica la statuetta grazie a un singolo che porta la sua firma: <i>Uptown Funk</i> non è solo la canzone dell'anno, ma un infallibile riempipista tuttora strasuonato, che non sembra abbia alcuna intenzione di invecchiare.<br />
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Al di là di talento ed eclettismo, pare che sia proprio questo il vero segreto dell'inglese classe 1975: sfornare brani inossidabili, che invece di rifugiarsi nella moda del momento si presentano come classici istantanei destinati a durare in eterno.
L'intenzione di legare il suo nome d'arte a un immaginario d'altri tempi appare chiara anche dalla copertina del nuovo disco, che raffigura una strobosfera a forma di cuore in rigoroso bianco e nero. Il cuore è spezzato per una motivazione ben precisa: Ronson per l'occasione si è concentrato su pezzi tristi, quelli che a sua detta emanano vibrazioni emotive non trascurabili. Non che non avesse già dimostrato la sua bravura in questo campo (basta ascoltare gli arrangiamenti di spessore di <i>You Know I'm No Good</i> e <i>Love Is A Losing Game</i>, tratti da <i>Back To Black</i> di Amy Winehouse), ma evidentemente dopo la sbornia funk di <i>Uptown Special</i> (2015) Mark ha sentito il bisogno di dedicarsi a scrivere ballad e canzoni struggenti. E che struggimento sia, dunque.<br />
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Sebbene non si tratti di una novità (Mark ha sempre fatto affidamento su collaborazioni prestigiose fin dai tempi del primo <i>Here Comes The Fuzz</i>, dove oltre ad alcuni esponenti di rilievo della scena hip-hop e r&b svettavano le presenze di <b>Rivers Cuomo</b> e <b>Jack White</b>), il primo particolare di <i>Late Night Feelings</i> che salta all'occhio sono le voci incaricate di cantare le sue melodie. Si passa dai nomi di punta di <b>Miley Cyrus</b>, Alicia Keys, Lykke Li e Camila Cabello a cantautrici meno in vista come Wynter Gordon, King Princess, Yebba, Angel Olsen, Ilsey Juber, Diana Gordon e The Last Artful, Dodgr. Un roster esclusivamente femminile, che risponde all'esigenza di plasmare un album delicato e seducente.
Se non fosse terribilmente fuori moda, mi verrebbe da definire <i>Late Night Feelings</i> un disco di musica leggera, termine che dal punto di vista strettamente concettuale è assimilabile al più utilizzato pop. Una musica dal linguaggio comprensibile a tutti, e potenzialmente in grado di catturare l'interesse di diverse fasce di età abbracciando stili e contaminazioni varie e sfruttando l'appeal di superstar mondiali e promesse pronte al grande salto. Il rischio che l'album suoni come un'accozzaglia male assortita di generi e timbri misti è però scongiurato dalla visione centrata di Ronson, che sa esattamente quello che sta facendo. In linea con l'intenzione di suonare pop senza seguire pedissequamente i suoni del momento, Mark forgia tredici tracce sensuali che non scadono mai nel volgare. Un'impresa tutt'altro che facile, considerando la garanzia di attenzione assicurata da immagini e parole esplicite.
Certo, alcune soluzioni strizzano un occhio alle tendenze attuali, perché nessuno qui vuole rinnegare il fatto che siamo nel 2019. Ma c'è una certa eleganza negli echi reggaeton e nelle armonizzazioni vocali di <i>Don't Leave Me</i>, espedienti che sono diventati la norma dall'esplosione di <b>Major Lazer</b> in poi (e guarda caso, il progetto Silk City è composto proprio da Mark Ronson e <b>Diplo</b>). Anche la voce di <b>Camila Cabelo</b> in <i>Find U Again</i> è pesantemente trattata, ma è un fatto che passa in secondo piano grazie all'arrangiamento di classe. In altri casi i riferimenti a brani che hanno fatto la storia della disco e del soul si mostrano senza vergogna: la linea di basso di <i>Pieces Of Us</i> va a tanto così da quella di <i>Dare Me</i> delle <b>Sister Sledge</b> (uno dei brani più saccheggiati ai tempi in cui la dance andava a cercare ispirazione nei tardi anni '70), così come <i>True Blue</i> si rivela un titolo premonitore considerando gli evidenti richiami alle sonorità in voga negli anni '80.<br />
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Che <i>Late Night Feelings</i> avesse tutte le carte in regola per essere un album ispirato lo si era già capito dallo scorso Novembre, all'uscita del primo singolo <i>Nothing Breaks Like A Heart</i>. Ma dato l'incedere del brano, probabilmente il più ritmato del mazzo, non sapevamo ancora che avremmo avuto a che fare con una collezione di pezzi morbidi e raccolti, che pur non rinunciando a un'estetica funk non si prestano al ruolo di hit da ballare. Ma la forza del quinto album di Mark Ronson sta anche nella ferma intenzione di descrivere le sensazioni da tarda notte dichiarate nel titolo, rafforzando così con una coerenza d'altri tempi la sua convinzione che certe prerogative del passato abbiano tutto il diritto di esistere anche oggi. In un'epoca in cui il concetto di album in ambito pop ha perso valore, Mark tira fuori un disco impeccabile e privo dei cosiddetti “riempitivi”, da ascoltare dall'inizio alla fine senza l'impellente esigenza di saltare una traccia. La palla a specchi è in fratumi, e riposa in una scatola. Verrà il momento di ripararla e appenderla di nuovo sul tetto dei club di mezzo mondo, ne sono certo. Ma nell'attesa, mi lascio cullare volentieri dalle note di un album senza tempo come <i>Late Night Feelings</i>. <br />
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<span style="color: red; font-weight: bold;"><span style="color: red;">8/10</span><br /><br /><span style="color: purple;">Highlights: </span></span><span style="color: purple;">Tutto.</span></div>
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<iframe width="560" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/FQT1gVMUmdw" frameborder="0" allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen></iframe>Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-60116614880697047142019-06-14T15:18:00.000+02:002020-07-20T15:21:06.540+02:00Viva gli artisti che fanno come gli pare: Noel Gallagher<div style="text-align: center;">
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi8nG0p4dXUDx5WDmgtJk46mvD9yqp0DM-D61kVld7b2p8mePSXdyJ-YwomDE2oOZeEjwr_S40iLXNa16aI_WcFesrNcG5T_Iswrq6ctY_ZwhyphenhyphenR7mBelVJK-ToyVkw4JAwLC-yn/s1600/nghfb-photo-credit-mitch-ikeda-s.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="394" data-original-width="700" height="360" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi8nG0p4dXUDx5WDmgtJk46mvD9yqp0DM-D61kVld7b2p8mePSXdyJ-YwomDE2oOZeEjwr_S40iLXNa16aI_WcFesrNcG5T_Iswrq6ctY_ZwhyphenhyphenR7mBelVJK-ToyVkw4JAwLC-yn/s640/nghfb-photo-credit-mitch-ikeda-s.jpg" width="640" /></a></div>
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Il giorno in cui esce <i>Black Star Dancing</i>, singolo che anticipa il nuovo e.p. dei <b>Noel Gallagher's High Flying Birds</b>, Liam Gallagher twitta un “enigmatico” FUCK OFF a caratteri cubitali. I pochi che si rifiutano di collegare l'insulto al pezzo di Noel si devono ricredere un paio di settimane dopo, quando Liam non resiste alla tentazione di provocare nuovamente il fratello, questa volta in maniera meno sgarbata ma non per questo poco pungente: “Il fatto che mi stia facendo crescere i capelli lunghi è decisamente più entusiasmante di qualsiasi pezzo che pubblicheranno Noel Gallagher e le sue frittelle sballate”.</div>
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Tutto nella norma, conoscendo il personaggio.
La reazione di Liam è inversamente proporzionale a quella di <b>Nile Rodgers</b> degli Chic, che stando a quanto rivelato da Noel in una recente intervista si è detto entusiasta <i>Black Star Dancing</i>. Anche questa dichiarazione non stupisce: il basso che saltella sulla cassa in quattro richiama esplicitamente un'estetica che Nile ha contribuito a plasmare, e anche se i chiari riferimenti disco del brano si perdono presto in contemplazioni cosmiche esplorando territori distanti dall'inclinazione pop-funk degli Chic, era del tutto prevedibile che un santone della disco si potesse trovare d'accordo con un suono simile.
Sorvolando sui ben noti attriti tra i fratelli Gallagher, che sicuramente influenzano qualsiasi opinione del vulcanico Liam dandogli l'opportunità di esibirsi in una delle sue specialità (esagerare), i pareri diametralmente opposti dell'ex cantante degli Oasis e dello storico chitarrista statunitense sono un riflesso verosimile delle reazioni dei fan, che (guarda un po') si dividono.</div>
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Da una parte c'è chi si trova perfettamente in linea con le esternazioni di Liam: piuttosto di prendere in considerazione la deriva disco-psichedelica di Noel, meglio accontentarsi delle oneste rimasticature del fratellino minore, che nonostante i risultati non sempre eccelsi sfoggiano una coerenza inattaccabile. Dall'altra parte si schierano invece i sostenitori convinti della genialità del fratello più grande, che basta e avanza per dare credito a qualsiasi strada gli venga in mente di percorrere. Anche se a svettare nelle polemiche sui social sono sempre gli estremi, suppongo (e mi auguro) che esista anche una frangia di mezzo, composta da quelli che riescono a superare il tutto sommato comprensibile disorientamento iniziale apprezzando l'istinto di una conclamata rockstar di 52 anni alla ricerca di un'evoluzione di cui potrebbe fare tranquillamente a meno. Io credo di fare parte di quest'ultima categoria, per quello che possa fregare a Noel.</div>
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Complice il bombardamento di contenuti che si succedono a velocità smodata a cui siamo soggetti, è fin troppo facile cadere nella trappola di pronunciare sentenze affrettate. Ma le reazioni esagerate (siano esse ovazioni o categorici rifiuti) di fronte a un pezzo come <i>Black Star Dancing</i> non paiono del tutto giustificate, perché basta un ascolto distratto dei primi tre dischi degli High Flying Birds per rendersi conto del fatto che Noel ha intrapreso un percorso da qualche anno, non da qualche giorno. Un percorso che culmina in un e.p. per nulla spiazzante se ascoltato per intero, includendo dunque <i>Rattling Rose</i> e <i>Sail On</i>, brani intrisi di una dolce nostalgia che con la disco non c'entra proprio nulla, mentre con le infatuazioni del passato espresse in <i>Chasing Yesterday </i>vanno a nozze.</div>
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Ma a quanto pare il processo verte sul beat disco del singolo, che oltretutto nell'e.p. compare in tre versioni: originale, 12'' Mix (il formato preferito dai dj) e remix firmato <b>The Reflex</b>, dj francese che ha già messo le mani su diversi pezzi degli High Flying Birds. La voglia di Noel di cimentarsi con musica da ballare trapela però fin dal secondo singolo della sua band (<i>AKA...What A Life!</i>), visto che ai tempi è lui stesso a confessare al suo manager di sentirsi un filo in colpa per avere scritto un pezzo “<b>disco</b>”. Ma per dovere di cronaca occorre specificare che l'interesse di Noel nei confronti dell'elettronica risale ad almeno 15 anni prima, quando collabora con gente che il rock ce l'ha nel sangue, ma lo esprime a modo suo: i <b>Chemical Brothers</b>, insieme ai quali scrive le superbe <i>Setting Sun</i> e <i>Let Forever Be</i> prestando perfino la sua voce, e il pioniere della drum & bass <b>Goldie</b>, al quale offre volentieri il suo supporto alla chitarra nell'arrabbiatissima <i>Temper Temper</i>. Nonostante si parli di universi lontanissimi dal suono degli <b>Oasis</b>, evidentemente Noel ci vede qualcosa di intrigante, che però negli anni '90 non può fisicamente esplorare a dovere, impegnato com'è a rivestire il ruolo di rock & roll star.</div>
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C'è inoltre un prezioso particolare che accomuna i featuring citati e <i>Black Star Dancing</i> con annessi mix e remix: si tratta di brani che, pur deviando dalle sonorità a cui viene comunemente accostato Noel, non sono stati scritti o arrangiati con l'intenzione di sbancare le classifiche. Vent'anni fa il cantautore britannico non aveva certo bisogno di conquistare il grande pubblico, dato che la sua band era al culmine della carriera e sul tetto del mondo, così come svendersi nel 2019 comporterebbe mosse ben più spregiudicate di un pezzo disco dalla vena psichedelica che non diventerà certo la hit dell'estate. Una volta sgombrato il campo da eventuali accuse infondate, conviene accettare i fatti per quello che sono: Noel, che la cosa piaccia o meno, fa quello che vuole. Chi ha voglia di seguirlo è il benvenuto, chi proprio non ce la fa può sempre mettere in loop i dischi degli Oasis. Il resto sono chiacchiere che scompariranno con la velocità di una timeline, in attesa di una nuova polemica (sterile) in grado di oscurare il contenuto a beneficio di un'analisi superficiale che lascia il tempo che trova.</div>
Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-32293127789063236362019-05-17T16:42:00.000+02:002020-07-20T15:07:35.850+02:0020 anni di Play di Moby<div style="text-align: center;">
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjtUuPyzWLRpke2Q_0pVWUFQ4Cq6irwvfe2AXQ79bgWmWpxh6PjgxpPnk435nVaabp2DT5nMqYN8yuNZSANpc4KrptqYh-8zxTrrvO4gqp1TXKf5iGku-_d1H2DXrVgyppHFA0G/s1600/Schermata+2020-07-20+alle+15.07.04.png" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="513" data-original-width="899" height="364" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjtUuPyzWLRpke2Q_0pVWUFQ4Cq6irwvfe2AXQ79bgWmWpxh6PjgxpPnk435nVaabp2DT5nMqYN8yuNZSANpc4KrptqYh-8zxTrrvO4gqp1TXKf5iGku-_d1H2DXrVgyppHFA0G/s640/Schermata+2020-07-20+alle+15.07.04.png" width="640" /></a></div>
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“Trentaseienne pelato, torna a casa. È finita, nessuno ascolta la techno!”, tuona <b>Eminem</b> in <i>Without Me</i> nel 2002. Il bersaglio dei suoi insulti è Moby, produttore newyorkese classe 1965 catapultato dall'underground alla fama grazie a <i>Play</i> (1999). «Sorvolando sulla sua misoginia e omofobia, credo che sia un rapper talentuoso – risponde il musicista americano nel 2014 in un dibattito online con i fan – Oltretutto, mi ha fatto moltissima pubblicità gratis». Una pubblicità sommaria, dato che la musica di <i>Play</i> non è affatto techno. E ingannevole, visto che lo stesso giorno in cui viene pubblicato <i>Without Me</i> esce anche il sesto disco di Moby (<i>18</i>), che debuttando al numero 1 in varie classifiche europee dimostra quanto il trentaseienne pelato sia tutt'altro che finito.</div>
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Considerare <i>Play</i> lo spartiacque della carriera di <b>Moby</b> è riduttivo: il disco gli cambia la vita. Non è un caso che la sua prima biografia (<i>Porcelain: A Memoir</i>, 2016) si fermi proprio lì, mentre la seconda parte della storia (<i>Then it Fell Apart</i>, disponibile in Italia dall'11 Giugno) prosegua il discorso ripartendo dall'album della svolta. Un album registrato in uno studio casalingo che si ritrova a competere con musica pop iper-prodotta, diventando un successo senza precedenti in ambito elettronico. Ancora oggi Moby non ha ben chiaro cosa ci fosse di così speciale in <i>Play</i>, un lavoro che giudica discreto, non migliore o peggiore di altri suoi dischi. «Ma se proprio dovessi scommettere sulla qualità che ha reso possibile la connessione con la gente, punterei sulla sua vulnerabilità emotiva».</div>
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A questo punto è necessario riavvolgere il nastro di 3 anni per analizzare il punto più basso della carriera di Moby, che ha un nome e un cognome: <i>Animal Rights</i>. Dopo avere accarezzato la notorietà con inni dance capaci di inserirsi alla perfezione nel contesto rave (<i>Go, Next Is The E, Hymn, Feeling So Real, Everytime You Touch Me</i>), il produttore incide un disco <b>pseudo-punk</b> che viene massacrato dalla critica e rifiutato dai fan. Come se la scarsa affluenza ai concerti e il benservito della Elektra non fossero sufficienti, a rendere lo scenario ancora più deprimente ci si mette anche un tumore diagnosticato alla madre. La frustrazione professionale alimentata dalla triste notizia ha effetti devastanti: Moby, astemio da vent'anni, diventa un alcolizzato. È così confuso che pensa seriamente di commettere il suicidio definitivo, comunicando al suo manager Barry Taylor l'intenzione di dare un seguito ad <i>Animal Rights</i> con un album heavy metal cupo e lento. Di fronte alla farneticazione, Barry non si scompone e riporta il suo assistito sulla terra con delicatezza e sincerità: «Tu sei bravo a fare canzoni rock, ma quello che la gente adora è la tua musica elettronica. Li rende felici». Una risposta genuina che si trasforma nella proverbiale luce in fondo al tunnel, convincendo Moby a comporre musica in grado di “regalare felicità, o quanto meno una splendida e consolatoria tristezza”.</div>
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Mai definizione fu più azzeccata. Moby parte da una manciata di voci appartenenti a epoche lontane, e le ricontestualizza culturalmente e a livello di suono, fondendo <b>Gospel</b> e <b>Blues</b> con ritmiche elettroniche gentili, dolci note di pianoforte e orchestrazioni semplici ed efficaci. Ma l'ispirazione ritrovata non basta per frenare il suo pessimismo. Prima di andare in stampa Moby crede che nessuno si degnerà di ascoltare il disco, e la cosa non lo turba: male che va, può sempre tornare a studiare filosofia o architettura e appendere i synth al chiodo, rassegnandosi a una vita lontano dai riflettori. Quando si mette a cercare un'etichetta per distribuire il disco in America, la sua negatività sembra trasformarsi in nefasta profezia.</div>
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Il suo pezzo preferito è <i>Natural Blues</i>, un brano che si aggiudica l'indesiderabile attestato di ago della bilancia in grado di convincere le label a non pubblicare <i>Play</i>. Daniel Miller della Mute vorrebbe escludere dalla tracklist <i>Bodyrock</i>, considerandola un generico ammiccamento alla scena Big Beat capitanata da <b>Fatboy Slim</b> e <b>Chemical Brothers</b>. E cosa dire dei martellanti e meccanici ritornelli di <i>Find My Baby, Honey</i> e <i>Why Does My Heart Feel So Bad</i>? In assenza di ripetizioni ossessive, Moby esagera nell'altro senso: <i>Porcelain</i> è un pezzo senza ritornello, che suona male perfino alle orecchie del suo autore. Il rock di <i>Southside</i> e le pulsioni Industrial di <i>Machete</i> contribuiscono ad aumentare il rischio che il lavoro venga tacciato di incoerenza. A quanto pare, l'unica cosa semplice dell'album è il titolo. Per il resto, il caos regna sovrano.</div>
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<i>Play </i>esce il 17 Maggio del 1999, ma se ne accorgono solo gli addetti ai lavori. Poi, grazie a un'infinità di licenze televisive e all'incursione di <i>Porcelain</i> nella colonna sonora di <i>The Beac</i>h (2000), a inizio millennio fa capolino nelle classifiche inglesi, scalandole lentamente e raggiungendo la vetta ad Aprile. Da lì in poi, la strada è in discesa: con i suoi 8 singoli, un fatto più unico che raro quando si parla di album di musica elettronica, <i>Play</i> esplode, accomodandosi nel salotto del pop.</div>
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Frutto di una gestazione complicata, il quinto tassello della discografia di Moby non trasforma solo un ex-produttore techno in una star. Cambia la percezione del mondo nei confronti dell'elettronica, che da genere riservato a pochi appassionati diventa una musica credibile per tutti, anche per chi non ha la più pallida idea di cosa siano loop, sample e sequencer. Il segreto? La vulnerabilità, che traspare sia dalle voci tratte da vecchi dischi ricoperti di polvere che da quella fragile e insicura di Moby. I sofferti lamenti del passato che si alternano a melodie disegnate in uno sgangherato studio di Manhattan alla fine del secolo scorso da un'anima tormentata. Le emozioni vere, che indipendentemente dagli strumenti utilizzati riescono sempre e comunque a trovare la strada per farsi sentire. Emozioni che risplendono ancora oggi, a vent'anni di distanza, nella loro inviolabile bellezza.</div>
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Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-40717406328734049132019-05-10T16:20:00.000+02:002020-07-20T15:08:37.710+02:0025 anni di Weezer dei Weezer<div style="text-align: center;">
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj-B9OcxqTCzn5ldIN4Nd-KeZ4EC-CeV1qtvXADteVfTGOeSpBGQsbM41U1pFzlddutRXCLcRlAb9HwEaZxgqVQSl9Co5lJipVnQW7-ioCGz8XxVdIo3kZy2gWXLSxqv1R-u1CG/s1600/120801-weezer.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="413" data-original-width="620" height="426" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj-B9OcxqTCzn5ldIN4Nd-KeZ4EC-CeV1qtvXADteVfTGOeSpBGQsbM41U1pFzlddutRXCLcRlAb9HwEaZxgqVQSl9Co5lJipVnQW7-ioCGz8XxVdIo3kZy2gWXLSxqv1R-u1CG/s640/120801-weezer.jpg" width="640" /></a></div>
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“In box mi sento al sicuro, perché nessuno mi considera. Il box è casa mia, e nessuno mi sente cantare questa canzone”. <i>In The Garage</i>, ode al box convertito in sala prove al numero 2226 di Amherst Avenue a Los Angeles, è l'ultimo brano scritto da <b>Rivers Cuomo</b> prima di registrare quello che passerà alla storia come il <i>Blue Album</i> (1994). A giudicare dal testo della canzone, l'eccentrico frontman non sembra desiderare fama e grandi palchi; in fondo lui sta bene lì, in quel rifugio pieno di fumetti della Marvel, poster dei Kiss e guide di Dungeons & Dragons. È conscio di essere un nerd fuori moda: perché dunque non mettere in chiaro quello che prova?<br />
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Esprimere i propri sentimenti senza filtri è senz'altro una dote. Ma forse, Cuomo si lascia un po' prendere la mano dal connubio sincerità/insicurezza che descrive fin troppo bene il suo carattere. Ispirato da un incidente automobilistico del fratello, scrive un pezzo incentrato sulla riscossione di un premio assicurativo (<i>My Name is Jonas</i>). Quando invece una bottiglia di birra trovata in frigo gli fa tornare in mente la causa del divorzio dei suoi genitori (l'alcolismo del padre), interpreta l'episodio come indizio inconfutabile dell'imminente separazione tra il patrigno e la madre, riversando la sua ansia in <i>Say it Ain't So</i>.
Le metafore che inventa sono troppo criptiche, e vengono puntualmente fraintese. <i>Undone (The Sweater Song)</i> e <i>Only in Dreams</i> sembrano canzoni d'amore, ma non lo sono affatto: il maglione sfilacciato della prima dovrebbe rappresentare il suo isolamento mentale, mentre il timido teenager e la sua bella irraggiungibile della seconda simboleggiano rispettivamente Rivers e la musica sofisticata che sogna un giorno di riuscire a comporre. I tentennamenti legati ai rapporti sono da ricercare semmai nell'imbarazzante gelosia di <i>No One Else</i> (“Voglio una ragazza che non rida per nessun altro / che quando sono via non si trucchi e non esca di casa”) o nelle mortificanti confessioni di <i>The World Has Turned and Left Me Here</i> (“Ho parlato per ore con la tua foto nel mio portafoglio / E tu hai ascoltato e riso di gusto della mia arguzia / O forse no”). </div>
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Il debutto dei Weezer approda sugli scaffali il 10 Maggio 1994, e in quel momento la parola d'ordine è grunge. Rivers lo sa bene: «Le prime volte che abbiamo suonato dal vivo la gente ci insultava. Ci dicevano: “Andate via, vogliamo una band grunge”». Davanti a contestazioni di questo tipo, la vera rockstar avrebbe probabilmente risposto al fuoco con qualche “fuck you” ben assestato, cavalcando la provocazione e uscendone vincitore. Ma il nostro anti-eroe non porta camicie di flanella e non è esattamente spigliato, quindi la sua reazione si concretizza in un piccolo shock. E chissà, forse questi episodi contribuiscono ad alimentare il complesso inferiorità che lo porta a iscriversi a Harvard per studiare musica classica dopo il successo clamoroso del <i>Blue Album</i>.
Un successo che assume proporzioni enormi in relazione al periodo storico di riferimento: in mezzo ad affascinanti poeti maledetti che raccontano storie di droga, morte e depressione, ecco quattro ragazzi goffi e impacciati che giocano a fare i Beach Boys distorti cantando di inadeguatezza e turbamenti da emarginati sociali. Forse il mondo, un mese dopo la tragica scomparsa di Kurt Cobain, aveva bisogno di voltare pagina e di intonare <i>Buddy Holly</i> con leggerezza gustandosi l'esilarante video che cita <b>Happy Days</b>.</div>
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Fraintesi o meno, i Weezer spopolano. I problemi arrivano dopo.
Perché a distanza di 25 anni da quel 10 Maggio, ogni singolo lavoro della band Losangelina ha pagato dazio al mirabolante esordio. Un botto troppo grande da replicare? Un colpo di fortuna al quale hanno fatto seguito pallide copie (nei casi migliori) e fiaschi colossali (nei casi peggiori)? C'è chi sostiene che i Weezer siano nati e finiti con il <i>Blue Album</i>. Dopo la rivalutazione di <i>Pinkerton</i>, massacrato dalla critica e ignorato dal pubblico nel 1996, si è creato il partito di chi ritiene che i Weezer si siano persi dopo il secondo album (che oltretutto è anche l'ultimo insieme al bassista <b>Matt Sharp</b>, figura chiave in fase di arrangiamento dei brani). Gli hardcore fan, come da definizione, sono invece pronti a difendere l'intera discografia con i denti. Ma qual'è la verità?
Difficile a dirsi.</div>
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Nonostante mi ritenga un sostenitore accanito, non ho potuto fare a meno di rimanere deluso in alcune occasioni. Il valore inestimabile del primo disco non sarà mai in discussione, e proprio per questo motivo l'insipida trilogia <i><a href="https://marcorigamonti.blogspot.com/2008/07/weezer-weezer-red-album-2008-interscope.html" target="_blank">Red Album</a></i> (2008) / <i><a href="https://marcorigamonti.blogspot.com/2010/02/weezer-raditude-2009-dgc-interscope.html" target="_blank">Raditude</a></i> (2009) / <i><a href="https://marcorigamonti.blogspot.com/2010/11/weezer-hurley-2010-epitaph.html" target="_blank">Hurley</a></i> (2010) mi ha fatto pensare che forse sarebbe stato meglio accantonare le speranze di un ritorno della band ai fasti di un tempo. Ma l'ammirevole sincerità di Rivers è venuta in mio soccorso nel 2014. Il testo di <i>Back to the Shack</i>, singolo tratto dal nono <i>Everything Will Be Alright in the End</i>, è un vero e proprio mea culpa recitato da un Cuomo che ammette di avere perso il controllo della situazione. “Ho dovuto fare degli errori per scoprire chi fossi veramente”, confessa, arrivando a menzionare esplicitamente l'anno di grazia 1994 e a dichiarare la sua volontà di ritornare in quella baracca di Amherst Avenue da dove tutto è iniziato. Un'ammissione chiara: dopo avere compiuto il proverbiale giro, cinque anni fa i Weezer erano intenzionati a ripartire da zero.
Un'operazione che ha dato i suoi frutti, mostrando un songwriting rinvigorito e convincente, anche se è inutile mentire: certe cose non ritornano.</div>
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Può forse uno sfigato divenuto improvvisamente superstar tornare nell'anonimato? Sebbene non si possa affermare che Rivers ci abbia in un certo senso provato, frequentando l'università dopo avere calcato i palchi di mezzo mondo e mettendosi in discussione a prescindere dal successo ottenuto, una volta portata a termine una missione pazzesca come quella di passare da una confortevole tana al riparo da qualsiasi contatto sociale agli <b>MTV Music Awards</b> nel giro di qualche mese le prospettive cambiano. Diventa necessario metabolizzare la metamorfosi e reagire di conseguenza, intraprendendo un nuovo percorso che solo i sognatori potrebbero immaginare privo di errori. Personalmente, la mia disponibilità ad accettare i passi falsi aumenta in corrispondenza del rifiuto dell'ipocrisia e del coraggio di fare della sana autocritica. Poi, una volta rispettato il principio della sincerità (in primis con sé stessi, meglio ancora se condivisa con i fan), vada come vada. Per citare nuovamente <i>Back in the Shack</i>: “C'è ancora molto da fare / E se moriremo nell'oscurità non importa / Almeno abbiamo alzato un polverone”.</div>
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Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-67354834177458469872019-04-22T16:39:00.001+02:002019-04-22T16:39:16.238+02:00The Chemical Brothers - No geography (2019, Virgin EMI)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjoKK825BB4wapPwG-RzHHMGHyzsxi0LaoQURmeHJm2atfYyqGCJGn7HT-zuwK0hmn0dFTXx9awI0we1hYi2sj5D64_Uy2X0lJDfkfkZXjeClBVWMQgyziHPUN-vwtVihfa9IsT/s1600/R-13399166-1555227420-9021.jpeg.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="600" data-original-width="600" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjoKK825BB4wapPwG-RzHHMGHyzsxi0LaoQURmeHJm2atfYyqGCJGn7HT-zuwK0hmn0dFTXx9awI0we1hYi2sj5D64_Uy2X0lJDfkfkZXjeClBVWMQgyziHPUN-vwtVihfa9IsT/s200/R-13399166-1555227420-9021.jpeg.jpg" width="200" /></a></div>
A un passo dal nuovo millennio la Chemical Brothers mania raggiunge il suo apice. <i>Surrender</i> (1999) espande gli orizzonti sonori esplorati nei due album precedenti, e al grido di <i>Hey Boy Hey Girl</i> i trentenni <b>Ed Simons</b> e <b>Tom Rowlands</b> diventano i superstar djs per eccellenza. La credibilità del progetto, insieme a quella della musica elettronica tutta, cresce vertiginosamente. <b>Noel Gallagher</b> (già voce di <i>Setting Sun</i>) torna a collaborare con il duo in <i>Let Forever Be</i>, <b>Bobby Gillespie</b> dei Primal Scream accompagna ai cori <b>Bernard Sumner</b> dei New Order in <i>Out of Control</i>, <b>Jonathan Donahue</b> dei Mercury Rev compare in <i>Dream On</i> e <b>Hope Sandoval</b> dei Mazzy Star impreziosisce <i>Asleep From Day</i>. Il consenso è universale: i beat dei fratelli chimici vanno a genio proprio a tutti.
Da allora sono passati vent’anni. Un lasso temporale che, considerando la velocità con cui le mode si avvicendano e gli stili si evolvono, è lecito definire un’eternità. Ma il ticchettio delle lancette e i mutamenti culturali ad esso associati contano relativamente per Ed e Tom: attraverso produzioni senza tempo, i cinque dischi successivi hanno confermato una personalità superiore a qualsiasi tendenza del momento, e i due si sono più volte reinventati rimanendo fedeli alla propria identità sonora. Il segreto, come rivelatomi da Tom Rowlands in un’intervista dell’estate scorsa, è una gestione matura e serena dell’entusiasmo. «Abbiamo la fortuna di conservare la lampadina che ci accompagna fin dall’inizio della nostra carriera, e ogni tanto si accende: è in quell’istante che sappiamo che dalle nostre macchine verrà fuori qualcosa di interessante».<br />
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Un’affermazione che nel contesto di <i>No Geography</i>, nono album in studio del duo di Manchester, assume anche un significato concreto. Perché in questo caso le macchine a cui Tom si riferisce non sono sintetizzatori all’ultimo grido, ma i cimeli responsabili della spina dorsale di <i>Exit Planet Dust</i> (1995) e <i>Dig Your Own Hole</i> (1997), i primi due tasselli della discografia dei Chemical Brothers. Il salto nel passato assume dunque le sembianze di una signora sfida: due alfieri della musica elettronica rispolverano letteralmente apparecchi di un quarto di secolo fa ricercando un possibile nuovo futuro, diverso da quello che proprio loro avevano contribuito a forgiare sul finire degli anni ’90. Quasi la tentazione di riscrivere una timeline della musica, giocando a ritrovarsi precisamente al punto di partenza. Ma c’è anche il rischio che l’esperimento si trasformi in una sorta di barzelletta dall’esito desolatamente nostalgico: “Ci sono due quasi cinquantenni che giocano a tornare ragazzi suonando strumenti appartenenti a un’altra epoca…”.<br />
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A cacciare lo spettro di un’eventuale disfatta ci pensa subito <i>Eve of Destruction</i>, che apre le danze con pulsazioni disco funk volutamente derivative, ma non per questo sorpassate: il giro di basso a la <i>Block Rockin’ Beats</i> si alterna a stoccate old school techno, e l’amalgama è tenuto insieme da una pasta sonora di batteria indiscutibilmente “Chemical”. Lo stato di grazia del duo trova immediata conferma nella trionfale title-track e nella plastica <i>Got To Keep On</i>, ma il bello è che il meglio deve ancora venire. Introdotto dal puro esercizio di stile <i>Gravity Drops</i>, ecco un viaggio psichedelico del calibro di <i>The Universe Sent Me</i>, con la voce di <b>Aurora Aksnes</b> (unica ospite del disco insieme al rapper giapponese <b>Nene</b>). Il muro di suono crolla su una ripetizione ossessiva della giovane cantautrice norvegese, poi il panorama cambia radicalmente con l’ispiratissimo singolo <i>We’ve Got To Try,</i> che parte da un oscuro brano gospel/soul del 1973 (<i>I’ve Got To Find A Way</i> dello Halleluiah Chorus) per poi esplodere in una deflagrazione acida da applausi.
Probabilmente l’eclettismo e il talento sfoggiati in questa mezz’ora sarebbero già sufficienti per assegnare a <i>No Geography</i> un numero spropositato di stelline. Ma non è ancora il momento: l’ipnotica <i>Free Yourself</i> e l’arrogante <i>MAH</i> rinverdiscono i fasti dei rave, presentando tutti gli attributi necessari a soddisfare la definizione di “arma da dancefloor” (o, come a Ed e Tom piace battezzare questo tipo di tracce, “<i>Electronic Battle Weapon</i>”). Il sipario cala sulla meditativa <i>Catch Me I’m Falling</i>, e mentirei se dicessi che non mi sarei aspettato un finale introspettivo, dato che l’espediente è stato spesso utilizzato in passato.<br />
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Forse la grandezza dei Chemical Brothers sta proprio nel rispettare un copione già scritto (familiare soprattutto per chi li conosce bene), senza però apparire scontati. Forti di un passato che li ha visti in prima linea nella rivoluzione sonora, Ed Simons e Tom Rowlands non ci pensano proprio a sacrificare la propria personalità o a riposizionarsi: immuni da interferenze esterne, si tengono bene alla larga dal labirinto di generi e sotto-generi che contraddistingue la musica elettronica e implicherebbe fatali limitazioni. Che si tratti di una scelta precisa o di predisposizione naturale, poco importa. Quello che conta è l’ennesima lezione di identità e passione offerta in <i>No Geography</i> da due quasi cinquantenni che giocano a tornare ragazzi, e che ancora una volta rimandano a data da destinarsi la battaglia più ostica che prima o poi qualsiasi musicista deve affrontare: quella contro il tempo.<br />
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<span style="color: red; font-weight: bold;"><span style="color: red;">8/10</span><br /><br /><span style="color: purple;">Highlights: </span></span><span style="color: purple;">Eve of Destruction, No geography, The universe sent me, We've got to try, Free yourself, Mah.</span><br />
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<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/mRfSM-lv55I" width="560"></iframe>
Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-32592081359650903822019-04-21T14:59:00.000+02:002020-07-20T14:59:57.653+02:0060 anni di Robert Smith<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<b><span style="font-size: large;">60 anni di Robert Smith</span></b></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiArhH6aT4MD2kG1FhiBimsdbJgi2P3JWoH6sDmRckMLmJNqa-I7QGr0A96QShG_ZREA_bQ4cVAV2__aE9cZUIpX0YZ_irIKkb2uPNbPTTwpJgK48svrBpX5q3LmAAb4fCv-tGn/s1600/5616.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1200" data-original-width="1200" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiArhH6aT4MD2kG1FhiBimsdbJgi2P3JWoH6sDmRckMLmJNqa-I7QGr0A96QShG_ZREA_bQ4cVAV2__aE9cZUIpX0YZ_irIKkb2uPNbPTTwpJgK48svrBpX5q3LmAAb4fCv-tGn/s400/5616.jpg" width="400" /></a></div>
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Nel corso di un'intervista del 2004, alla classica domanda “C'è qualche canzone che avresti voluto scrivere tu?” Robert Smith risponde così: “<i>Happy Birthday to You</i>, perché sarei matematicamente certo del fatto che in ogni istante in giro per il mondo la gente starebbe cantando un mio pezzo. Oppure <i>Life on Mars?</i> di David Bowie». Un'affermazione perfetta per ricordare che oggi quella sagoma di Robert compie sessant'anni, una quarantina abbondante dei quali dedicati ai suoi <b>Cure</b>.
A un primo impatto la risposta di Smith fa sorridere per l'accostamento di una semplice filastrocca tardo ottocentesca a un ben più elaborato inno entrato nella storia del rock. Ma a ben vedere dietro quelle parole si nasconde l'eterno duello tra frivolezza e profondità che da sempre contraddistingue il cantautore inglese e la sua musica.</div>
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Probabilmente Robert non voleva fare una battuta: è stato semplicemente onesto, come sempre. Come quando, per esempio, nel 1987 ammette che il debutto di nove anni prima l'aveva lasciato insoddisfatto. «Ai tempi <i>Three Imaginary Boys</i> è stato criticato per la sua leggerezza. Sono d'accordo: non piaceva neanche a me. Avrei voluto incidere un disco di sostanza, e invece è venuto fuori un lavoro superficiale».
Le critiche riservate all'album del 1978 sono prettamente stilistiche, mentre quelle mosse al primo singolo <i>Killing An Arab</i> vertono sul titolo della canzone, frettolosamente bollato come razzista. Quando la questione viene sollevata nel corso di una delle prime interviste rilasciate da Smith, lui risponde con sfacciata ironia: «Questo pezzo è dedicato a tutti gli Arabi ricchi che frequentano le discoteche nei dintorni del college di Crawley per rimorchiare ragazzine». La realtà è diversa, naturalmente: il pezzo si ispira alle vicende narrate dallo scrittore e filosofo francese <b>Albert Camus </b>nel romanzo del 1942 <i>L’Étranger </i>(Lo straniero).</div>
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L'episodio non sarà certo l'unico fraintendimento che Smith dovrà affrontare in carriera, anzi. Di lì a breve, il suo iniziale rifiuto a sfoggiare un'immagine precisa viene interpretato come mancanza di identità. «Non piacciamo perché non abbiamo un look che ci distingue – dichiara Robert nel 1979 - Le persone non riescono a identificarsi in noi perché non possono imitarci. Non siamo i Ramones o i Clash. Ci ho provato a indossare abiti fighi, ma sono quasi sempre scomodi, e io voglio sentirmi a mio agio. Ecco perché sul palco mi vesto come se dovessi andare a fare la spesa». La volontà di non adeguarsi al gioco delle rockstar filtra dalle parole di <i>Jumping Someone Else's Train</i> (1979), un brano che «Prende in giro i ragazzi che improvvisamente ascoltano certa musica e cambiano abbigliamento soltanto per seguire una moda, come sta succedendo ora con il revival mod. Spero che non abbia successo, altrimenti ci accuseranno di saltare sul carro del vincitore. E comunque, se mai avrà successo, succederà perché verrà interpretato nella maniera sbagliata, come accade sempre con i nostri pezzi».</div>
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Il sarcastico pessimismo di Robert si evolve in depressione sfociando nella trilogia <i>Seventeen Seconds</i> (1980) / <i>Faith </i>(1981) / <i>Pornography</i> (1982), un'escalation tenebrosa che culmina nel nichilismo (“Non importa se moriamo tutti”, canta in <i>One Hundred Years</i>) e che posiziona i Cure al centro della mappa del nascente <b>Gothic Rock</b>. Ma è meglio evitare di utilizzare questo termine in presenza di Robert. «E' una disgrazia quando ci definiscono così. Il Goth è terribilmente monotono. Se proprio dovessi catalogare il nostro suono, credo che all'inizio fossimo post-punk. Ma poi siamo diventati i Cure, punto». Da band senza immagine a pionieri della scena Goth: per Robert accettare tutto questo è impossibile. Se proprio è necessario inventarsi un'estetica, spetta a lui scegliere quale.</div>
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Durante le date del tour di <i>Pornography</i>, i Cure inaugurano il caratteristico stile “Capelli sparati, trucco sbavato e vestiti neri”. «Le luci del palco scioglievano il make-up, così sembrava che ci fossimo presi a pugni». L'estetica simboleggia la violenza psicologica dei nuovi brani, ma anche quella che si instaura nei rapporti tra i membri di una band sull'orlo di una crisi di nervi e a un passo dallo scioglimento. Dopo avere toccato il fondo, l'unica soluzione è tornare in scena con qualcosa di assolutamente scioccante. Robert scrive la “stupida canzone pop” <i>Let's Go to Bed</i>, e dopo averla fatta sentire agli altri in sala cala un silenzio agghiacciante. «Hanno pensato che fossi impazzito. Anche io credevo che i fan l'avrebbero odiata: non ci si può trasformare da idolo goth a pop star in un battito di ciglia». E invece, succede. Da <i>The Head on the Door </i>(1985) in poi i numeri dei Cure decollano. Merito di una ritrovata confidenza e di un'organizzazione meticolosa: durante le sessioni, Robert arreda lo studio a seconda del mood delle singole canzoni, con tanto di linee guida scritte sui muri destinate ai musicisti. «Il giorno in cui dovevamo registrare <i>Sinking</i>, le istruzioni erano di piangere entro le 6 del pomeriggio».</div>
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Il successo dell'eclettico <i>Kiss Me, Kiss Me, Kiss Me</i> (1987) («Eravamo diventati tutto quello che odiavo: suonavamo negli stadi e le ragazze si strappavano i vestiti di dosso. Così ho ricominciato a drogarmi e a sentirmi depresso, e sapevo che la serenità avrebbe presto abbandonato il gruppo») è il preambolo al più cupo <i>Disintegration</i> (1989), che invece di cavalcare lo stile di una hit come <i>Just Like Heaven</i> punta dritto in senso opposto. Nonostante ad oggi <i>Wish</i> (1992) sia uno dei dischi preferiti di Robert (oltre ad essere l'album più famoso dei Cure), in quel momento l'entusiasmo è sotto le scarpe. «Non stavamo osando – confessa Smith – Mi sembrava di scimmiottare quello che già sapevo fare».</div>
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Con <i>Wild Mood Swings </i>(1996), l'interesse nei confronti dei Cure cala, ma la qualità della loro musica rimane altissima. Ne è testimonianza il disco immenso del 2000: «Registrando <i>Bloodflowers</i>, ho raggiunto il mio obiettivo: comporre divertendomi e raggiungendo vette emozionali davvero intense, senza uccidermi in corso d'opera». Dopo l'omonimo <i>The Cure</i> (2004) e <i>4:13 Dream</i> (2008), il silenzio. Ma recentemente Robert è tornato a parlare con la consueta schiettezza: “Siamo stati nello studio dove i Queen hanno registrato <i>Bohemian Rhapsody</i> a incidere 19 canzoni che durano in media 10/12 minuti. Adesso non so che fare. Qualcuno mi ha consigliato di pubblicare un disco triplo, ma non sono d'accordo. Ne sceglierò 6 o 7, e farò un album che piacerà molto ai nostri fan e farà infuriare tutti gli altri. Nonostante l'età, mi sento ancora talmente buio e cupo che potrei addirittura decidere di farlo uscire il giorno di Halloween». Noi aspettiamo con ansia. Nel frattempo, tanti auguri per i tuoi 60 anni Robert.</div>
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Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-21744206158343956602019-04-08T14:31:00.002+02:002019-04-08T14:34:52.755+02:00Billie Eilish - When we all fall asleep, where do we go? (2019, Interscope)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjdFFxzTXI6yQhbkr1IqAmeVAggxbzunRO7QYuZ2vfzFWaeeu7WnONEc53BrIQy1PYe-J1vmW_ZqhDXWptn35xXrp84I_cB-ZZaM_Nxhxz0gvjx76R9FkH3hfF_HvgCM5Y9qk8B/s1600/z90oyvhoyhd21-800x800.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="800" data-original-width="800" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjdFFxzTXI6yQhbkr1IqAmeVAggxbzunRO7QYuZ2vfzFWaeeu7WnONEc53BrIQy1PYe-J1vmW_ZqhDXWptn35xXrp84I_cB-ZZaM_Nxhxz0gvjx76R9FkH3hfF_HvgCM5Y9qk8B/s200/z90oyvhoyhd21-800x800.jpg" width="200" /></a></div>
Provo a ricordare l'ultima volta che mi è capitato di attendere con trepidazione il primo album di una predestinata del pop, e sembra che sia passata un'eternità. Non mi stupisce, considerando che misuro la curiosità attraverso il parametro dell'audacia e cerco in tutti i modi di non lasciarmi condizionare dal pur fondamentale lavoro di immagine sul personaggio. Ho la sensazione che di generiche popstar promettenti ne spuntino fin troppe, ma quelle che si presentano con sonorità e intenti almeno in parte spiazzanti si contino sulle dita di una mano. Riavvolgendo il nastro di circa 6 anni, mi viene in mente <a href="https://marcorigamonti.blogspot.com/2014/03/lorde-pure-heroine-2013-universal-music.html" target="_blank">Lorde</a>. Una ragazzina che dopo avere firmato con una major all'età di 13 anni sforna il primo album appena sedicenne, imponendosi con una spregiudicatezza non comune e riuscendo a mantenere il delicato equilibrio tra personalità e consenso del pubblico anche con il secondo lavoro del 2017.<br />
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Per tanti motivi, credo che <b>Billie Eilish</b> abbia tutte le carte in regola per aspirare a una carriera simile. Stile e disinvoltura ci sono. L'appeal pop pure, e la formula non è concettualmente distante da quella della Neozelandese: il mix di melodie vincenti e contaminazioni sonore eterogenee culmina in composizioni fresche e insolite, ma assolutamente digeribili anche da chi non si definisce un intenditore di musica a 360°. I più attenti hanno fiutato qualcosa fin dall'e.p. <i>Don't Smile at Me</i> del 2017, anno in cui i responsabili della colonna sonora di <i>Thirteen Reasons Why</i> non hanno esitato a inserire un suo brano (<i>Bored</i>) al fianco di pezzi monumentali di <b>Cure</b> e <b>Joy Divisio</b>n. Una scelta tutt'altro che casuale: l'immaginario dipinto da Billie è volutamente cupo e sconfina spesso nell'horror, iconografia metaforicamente perfetta per raccontare i turbamenti della cosiddetta generazione Z.<br />
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Sul finire dell'anno scorso sono rimasto impressionato dall'enfatica <i>When The Party's Over</i>, collegandola immediatamente a <i>Hide & Seek</i> di <b>Imogen Heap</b>, un successo decisamente “alternativo” di quindici anni fa. Qualche mese più tardi a stregarmi definitivamente ci ha pensato <i>Bury a Friend</i>, stomp energico ma elegante, dove smaccati silenzi enfatizzano una frase scarna e diretta come “I wanna end me”. Mi è sembrata una ninna nanna vietata ai minori cantata da una minorenne, una cantilena maledetta. Forse il termine adatto per descrivere la canzone è straniante: ti ritrovi a battere il piedino al ritmo di un oggetto misterioso e a canticchiare una melodia angosciante e al contempo spaventosamente orecchiabile. Inutile girarci intorno: se mi aspetto tanto da <i>When we all fall asleep, where do we go</i>? il merito è soprattutto di queste due gemme.
In entrambi i casi appare evidente che in fase di arrangiamento la prerogativa di <b>Finneas O'Connell </b>(fratello di Billie responsabile della produzione dei brani) sia attenersi alla regola del “Less is more”, espressione resa celebre a inizio 900 dall'architetto Tedesco Ludwig Mies van der Rohe. Non è certo la prima volta che la legge del minimalismo viene traslata in ambito musicale, ma in un momento storico in cui la tecnologia consente di farcire le composizioni a piacere, il gesto di puntare su pochi elementi ben definiti invece di riempire indiscriminatamente l'intero spettro delle frequenze potrebbe essere interpretato come una piccola rivoluzione. E comunque la strategia, ragionata o meno, funziona solo se te lo puoi permettere. Ci vogliono idee, tecnica e talento nello scegliere i timbri giusti. In una parola, ci vuole gusto.<br />
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Da parte sua, la diciassettenne Losangelina osserva il mondo che la circonda con partecipazione, filtrando anche le più comuni emozioni adolescenziali attraverso un linguaggio personale e conturbante, in linea con l'eccentrico paesaggio sonoro che ospita la sua voce. Così l'umiliazione di un rifiuto viene smaltita attraverso il sarcasmo di <i>Wish You Were Gay</i>, mentre la mancanza di comunicazione con il partner diventa spunto per la già citata <i>When The Party's Over</i>, confessione ovattata che sfocia in un turbinio di cori e armonie lussureggianti. Quando è necessario, Billie non ha nessuna paura di cantare fuori dal coro: “Sono la loro sigaretta di riserva / E io continuo a bere coca-cola / Non mi serve uno Xanax per stare meglio”, sospira con una voce pesantemente distorta sopra la scheletrica <i>Xanny</i>, pezzo che si schiera contro l'abuso di medicinali per scopo ricreativo.
Per atmosfere e cadenza ritmica, <i>Bad Guy</i> e <i>Ilomilo</i> sembrano figlie adottive (e leggermente più sbarazzine) di <i>Bury a Friend</i>. Il confronto non regge, ma rimangono tracce efficaci e coinvolgenti. Spostandoci invece su battute più lente, i brani degni di menzione si moltiplicano. <i>Xanny</i> è uno dei momenti più alti del disco, così come convincono la sofferta <i>Listen Before I Go</i>, la sognante <i>I Love You</i> e la seducente <i>You Should See Me in a Crown</i> (scritta su ispirazione deòla serie Tv <i>Sherlock</i>). Altri numeri sono più insipidi, ma rimane intatta la convinzione di essere al cospetto di una ragazza, peraltro giovanissima, che potrebbe davvero prendersi presto la corona di regina. In tal caso sarebbe una vittoria genuina e spontanea. Una conquista personale, ma non solo: in un terreno minato, dove sacrificare la propria indole all'altare del successo è sconfortante pratica comune, l'incoronazione di una come Billie sarebbe un evento da ricordare.<br />
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<span style="color: red; font-weight: bold;"><span style="color: red;">8/10</span><br /><br /><span style="color: purple;">Highlights: </span></span><span style="color: purple;">Xanny, You should see me in a crown, Wish you were gay, When the party's over, Bury a friend, Listen before I go.</span><br />
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Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-45778187880959511912019-03-04T12:22:00.002+01:002019-04-08T14:35:50.036+02:00Hozier - Wasteland, baby! (2019, Columbia)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgmgpve89xFNiZlBabYsRywFMmUX_Ah9QCuS-GRRY6bwo_EA2vE1gHoGxutzdVhw233bqfWA9t4yB1QXs_rgwS235NSBt0FLAnk6gB80j2FLPBwf-ui0J0R9K-rO7_wDIjSF_p7/s1600/Hozier_Wasteland%252CBaby%2521_3000RGB.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="800" data-original-width="800" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgmgpve89xFNiZlBabYsRywFMmUX_Ah9QCuS-GRRY6bwo_EA2vE1gHoGxutzdVhw233bqfWA9t4yB1QXs_rgwS235NSBt0FLAnk6gB80j2FLPBwf-ui0J0R9K-rO7_wDIjSF_p7/s200/Hozier_Wasteland%252CBaby%2521_3000RGB.jpg" width="200" /></a></div>
Raccontare la favola di un musicista che sale alla ribalta grazie a un brano divenuto virale sta diventando quasi noioso. Personalmente trovo molto più interessante analizzare quello che succede dopo l'episodio: perché se è vero che la fortuna aiuta gli audaci, non è sempre detto che chi è baciato dalla sorte riesca a mantenere lucidità e coerenza, dimostrando così la sua vera stoffa. Ma per quanto si possa essere critici o sospettosi, anche in questo campo esistono delle eccezioni: come nel caso di <b>Andrew Hozier-Byrne</b>, che nell'autunno del 2013 ha beneficiato del familiare meccanismo esponenziale della rete messo in moto da una condivisione del video di <i>Take Me To Church</i> da parte dell'attore/giornalista/attivista inglese Stephen Fry. Ascoltare un brano simile e dubitare anche solo per un istante del talento del cantautore irlandese, allora poco più che ventenne, sarebbe stato francamente fuori luogo.<br />
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Oggi Hozier di anni ne ha quasi 29, e pubblica il secondo album della sua carriera. La scorsa estate aveva espresso il suo parziale disinteresse in merito a quanto le sue nuove composizioni avessero potuto reggere il confronto con la hit in grado di scalare le classifiche del pianeta. «Voglio solo che i miei pezzi vengano ascoltati. Tutto il resto lo vivo come un bonus». Parole che basterebbero per sancire che l'esame lucidità è da ritenersi superato con successo. Per quanto riguarda la coerenza artistica, invece, basta considerare i fatti. Nello specifico, la scelta di ospitare nell'e.p.uscito lo scorso Settembre un paio di nomi fuori moda e fuori tempo: <b>Booker T. Jones</b>, leggendario polistrumentista settantaquattrenne di Memphis, e <b>Mavis Staples</b>, mitologica voce gospel e rhythm & blues che a Luglio spegnerà ottanta candeline.<br />
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Mavis affianca Hozier in <i>Nina Cried Power</i>, “canzone sulle canzoni di protesta” nonché prima traccia di <i>Wasteland, Baby!</i>. Un pezzo dove vengono citate figure chiave del passato come James Brown, John Lennon, Billie Holiday, Nina Simone e perfino la stessa Staples. Artisti che avevano a cuore l'emancipazione e la libertà, ai quali Andrew vuole accostarsi lasciando a Mavis il compito di esprimere la sua umile convinzione: “La resistenza è stata cantata da persone più forti di me / incitandoci a scuotere le catene / se amiamo essere liberi”. Il messaggio è tanto palese quanto profondo: <i>Nina Cried Power</i> è un'ode universale alla musica scomoda, che attraverso la grazia di voci intoccabili è riuscita a raggiungere le masse senza scadere in frivolezze ed esaltazioni della superficialità.
Il citazionismo di Hozier non si esaurisce qui: la successiva <i>Almost (Sweet Music)</i>, il brano che ha anticipato il disco, menziona più o meno direttamente artisti appartenenti alla scena jazz come Ella Fitzgerald, Duke Ellington, John Coltrane e Chet Baker. La terza traccia (<i>Movement</i>) si concentra invece sull'aspetto coreografico della musica tirando in ballo il mito di Fred Astaire e il ballerino Ucraino contemporaneo Sergei Polunin. Riferimenti continui e insistenti, a sottolineare l'importanza delle radici. Ringraziamenti reiterati, perché Andrew sa di non essere un innovatore, ma piuttosto un rispettoso esecutore di riti soul e blues, generi musicali che quando vengono interpretati con sensibilità e competenza funzionano benissimo anche senza eccessivi stravolgimenti dettati dal modernismo.<br />
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Al netto di alcune impegnate riflessioni sociali, ascoltando <i>Wasteland, Baby!</i> si ha l'impressione di assistere a una gioiosa celebrazione della bellezza dell'arte, della vita e dell'amore. Anche quando i toni si fanno più intimi (come avviene nella doppietta <i>As It Was</i> / <i>Shrike</i>, che si concentra su relazioni interrotte associate a ritorni più o meno possibili, o nell'intensa title-track che chiude il disco) non mancano speranza e positività. Il manifesto di questo pensiero è espresso a chiare lettere in <i>No Plan</i>, brano che si ispira apertamente alle teorie del fisico Statunitense Lawrence Krauss. «Dovremmo essere contenti di avere l'opportunità di trascorrere questo momento relativamente breve sulla Terra, e accogliere la confusione della vita con una risata e un'alzata di spalle. Siamo in ballo, e allora balliamo».
Parlando di ondeggiamenti, oltre alla già citata <i>No Plan</i> il pezzo che si presta meglio alla causa è <i>Nobody</i>, con le sue svisate di chitarra che puntellano un ritmo fluido e incalzante il giusto, raggiungendo un equilibrio perfetto tra dolcezza e sensualità. Ma a dettare legge rimane la voce, come rimarcato in <i>To Noise Making (Sing)</i>, uno dei brani più significati dell'album. “Non devi cantare perfettamente, ma canta con energia. Nel migliore dei casi, troverai un piccolo rimedio. Nel peggiore, il mondo canterà insieme a te”. Queste tre frasi sintetizzano la visione di Andrew Hozier-Byrne, e la sua volontà di sottolineare il valore assoluto e imprescindibile della musica, a costo di risultare ripetitivo. Con una piccola (ma non trascurabile) nota a margine: Andrew canta che è una meraviglia.<br />
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<span style="color: red; font-weight: bold;"><span style="color: red;">8/10</span><br /><br /><span style="color: purple;">Highlights: </span></span><span style="color: purple;">Nina cried power, Almost (sweet music), No plan, Nobody, To noise making (sing), As it was, Shrike, Wasteland, baby!.</span><br />
<span style="color: purple;"><br /></span></div>
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Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-46966710672720840132018-11-15T13:50:00.000+01:002019-04-08T14:36:57.222+02:00Smashing Pumpkins - Shiny and oh so bright vol.1 (2018, Napalm Records)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgBtBOmmtNvff8Cy_8t29P_oFaJNiA61lI0MXqfS2xpPOniw7-0Cufpbs17M4yTm0V1wvmNsTgjZhSlrd7b6Xh3C4ev1YIm8UUSHYanYRHcaOGCPhyphenhyphenvY2Nlyhvy-7RCaMGNNIXg/s1600/R-12785108-1542373215-6862.jpeg.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="583" data-original-width="600" height="193" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgBtBOmmtNvff8Cy_8t29P_oFaJNiA61lI0MXqfS2xpPOniw7-0Cufpbs17M4yTm0V1wvmNsTgjZhSlrd7b6Xh3C4ev1YIm8UUSHYanYRHcaOGCPhyphenhyphenvY2Nlyhvy-7RCaMGNNIXg/s200/R-12785108-1542373215-6862.jpeg.jpg" width="200" /></a></div>
Nel giorno del suo quarantottesimo compleanno, James Iha sale a sorpresa sul palco di Los Angeles dove si stanno esibendo gli <b>Smashing Pumpkins</b>. È il 26 Marzo del 2016, e James non suona insieme a Billy Corgan e Jimmy Chamberlin dai tempi del famoso conflitto tra amici e nemici della musica moderna (<i>Machina II</i>), preambolo dello scioglimento della band e inconsapevole profezia dell'imminente catastrofe («Ai tempi credevo che regalare un disco fosse una provocazione, ma non mi aspettavo che sarebbe diventata la regola, causando così il collasso quasi totale della discografia», confessa Corgan nel 2010). Ma dicevamo di Iha, che quella sera si piazza con nonchalance di fianco ai suoi ex-compagni e come se niente fosse suona <i>Mayonaise</i>, <i>Soma</i> e <i>Whir</i>. Una decina di anni prima James aveva rifiutato l'invito di Billy, vedendoci lungo: la reunion per <i><a href="https://marcorigamonti.blogspot.com/2007/08/i-dubbi-sono-leciti-quando-si-tratta-di.html" target="_blank">Zeitgeist</a></i> aveva convinto solo Chamberlain, che poco dopo aveva di nuovo salutato il suo amico Billy.
Da quel momento in poi, Corgan aveva gestito la band a suo isterico piacimento, reclutando e licenziando musicisti senza soluzione di continuità. Poi, quasi dal nulla, l'apertura di James lo stuzzica: che sia il caso di riprovare a radunare il nucleo originale? Tra tweet e speculazioni varie, l'operazione riesce. L'unico tassello mancante è D'arcy, dapprima confermata e poi respinta perché “poco partecipativa”. Ma cerchiamo di essere positivi, perché per la prima volta in 18 lunghi anni 3/4 dei membri fondatori di una delle band più influenti degli anni 90 si ritrovano in uno studio per registrare un nuovo insperato capitolo insieme.<br />
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La pubblicazione di <i>Shiny and oh so bright</i> è talmente sconnessa rispetto alla storia (della band, ma forse della musica intera) che il sottotitolo “Nessun passato. Nessun futuro. Nessun sole” non stona affatto con la circostanza. Niente di nuovo sotto quel sole che a detta di Billy non esiste: siamo abituati alla sua visione apocalittica, e anche ai suoi arcaismi linguistici da mezzo poeta ottocentesco. A destare stupore, semmai, è l'esiguo numero di tracce che compongono il disco. Nonostante si tratti di un primo volume, fa strano constatare che la proverbiale loquacità del leader della band di Chicago si sia fermata a 8 brani per un totale di mezz'ora di musica, soprattutto considerando che intorno a Febbraio 2018 aveva dichiarato di essere al lavoro su 26 pezzi.
Ma al di là dei numeri, a fare sognare i fan della vecchia guardia è stata un'altra voce. Quella inerente allo stile del nuovo disco, che secondo Corgan avrebbe rinverdito i fasti di <i>Gish</i> e <i>Siamese Dream</i>, tornando a puntare convinti sulle chitarre. Un'asserzione puntualmente sconfessata da <i>Knights of Malta</i>, che apre le danze con pianoforte, archi e cori quasi gospel. Intendiamoci, è un pezzo magnifico, che oltretutto alle mie orecchie suona freschissimo. Ma se proprio dobbiamo finire sulla giostra dei paragoni, è sicuramente meno accostabile alla rabbia degli esordi e più vicino alla maturità di <i>Mellon Collie and the Infinite Sadness</i> e <i>Adore</i>.<br />
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La conferma che il riferimento principale siano il terzo e il quarto lavoro delle zucche la trovo nella successiva <i>Silvery sometimes (Ghosts)</i>, singolo dall'andamento palesemente “<i>1979</i>” responsabile del mio redivivo entusiasmo nei confronti di una band che credevo destinata a spegnersi lentamente senza più sussulti.
Non che non abbia apprezzato il primo estratto <i>Solara</i>, anzi. Mi ha fatto pensare a un ibrido tra <i>Bullet with butterfly wings</i> e <i>Fuck you (An ode to no one)</i>, con le dovute proporzioni e considerando che sono state scritte e arrangiate da un Billy neanche trentenne, mentre ora è un uomo di 50 anni. Spezzando con decise distorsioni una tracklist finora delicata, <i>Solara</i> non è l'unica sfuriata del disco: le fanno compagnia l'eccellente <i>Marchin' on</i> e la conclusiva <i>Seek and you shall destroy</i>, che sfortunatamente morde più nel titolo che nei fatti. Ma gli Smashing Pumpkins non hanno mai fatto affidamento unicamente su chitarre fragorose. A incantare ci pensano le sognanti <i>Travels</i> e <i>Alienation</i> (che sono anche i pezzi più lunghi dell'album) e la dolce <i>With sympathy</i>, che conta su un'interpretazione sentita di Billy Corgan.<br />
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Confesso che al termine dell'ascolto non ne ho abbastanza. Ingolosito da un lavoro nel quale avevo riposto molte speranze e conscio del fatto che si tratti di un album ispirato e prodotto ad arte (d'altronde la regia è di <b>Rick Rubin</b>), vorrei potere girare il disco e godermi il lato B. Ma siccome non si può avere tutto dalla vita, mi accontento di riascoltare l'album dall'inizio, riflettendo sulle prime parole di Billy. “Lo faremo succedere / Volerò per sempre / Piloteremo l'arcobaleno”. Sta succedendo davvero. Non posso sapere se il primo volume di <i>Shiny and oh so bright</i> rappresenti un inatteso guizzo d'orgoglio oppure un nuovo inizio. Ma il solo fatto che non sfiguri per niente al fianco di tasselli fondamentali della discografia degli Smashing Pumpkins è una notizia che mi riempie il cuore di gioia.<br />
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<span style="color: red; font-weight: bold;"><span style="color: red;">8/10</span><br /><br /><span style="color: purple;">Highlights: </span></span><span style="color: purple;">Tutto.</span><br />
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Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-75329538463063322012018-11-09T13:42:00.000+01:002019-04-08T14:37:56.099+02:00Muse - Simulation theory (2018, Warner)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjZXje6ZfeAKTGAYC83vxZv1mQAJPhJVCxPsmBWzrj7VirwAEfL4V20Z63aLKDMutFDNqULA1ASh38LvajnnprKbyYZ5gxu4t8NuANtTRzZDdGKwuP63eImBBFKV-msuz8gf8aZ/s1600/Muse-Simulation-Theory.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="620" data-original-width="620" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjZXje6ZfeAKTGAYC83vxZv1mQAJPhJVCxPsmBWzrj7VirwAEfL4V20Z63aLKDMutFDNqULA1ASh38LvajnnprKbyYZ5gxu4t8NuANtTRzZDdGKwuP63eImBBFKV-msuz8gf8aZ/s200/Muse-Simulation-Theory.jpg" width="200" /></a></div>
Non più di un anno fa, Matthew Bellamy aveva sentenziato che i <b>Muse</b> non avrebbero più pubblicato album, concentrandosi invece solo sui singoli da dare in pasto alla rete. Sapete, i soliti discorsi: la fruizione della musica che è cambiata, le playlist, gli adolescenti che in linea di massima non hanno voglia di sorbirsi un disco dall'inizio alla fine, il crollo della soglia di attenzione degli ultimi tempi, eccetera. Qualche mese fa trapela invece la notizia che tutti i brani messi in circolazione in questi mesi, che sfoggiano un sound smaccatamente anni 80 e sono accompagnati da video che pescano a piene mani dall'immaginario della suddetta decade, convoglieranno in un disco. Un mezzo passo indietro? Uno stratagemma per fare parlare di sé anche nel momento “morto” tra tour e nuovo disco? Del semplice fumo negli occhi per confondere lo spettatore e poi colpirlo a sorpresa, scatenando un entusiasmo che in assenza di dichiarazioni e smentite non ci sarebbe stato?
Qualunque sia il motivo del ripensamento, cari Muse, con me cascate male. Perché sono più retrò dei vostri filmati che ho intravisto su YouTube. Faccio parte di quella razza in via di estinzione che utilizza raramente lo streaming, e che aspetta ancora il lavoro completo per possederlo e archiviarlo solo dopo un ascolto attento. Mi piace giudicare l'opera nell'insieme, perché è l'unico modo per cogliere certe sfumature e magari scoprire che i brani meno strombazzati sono addirittura migliori rispetto a quelli divulgati in fase di promozione. E anche se mi avevate quasi convinto con la storiella dei singoli, vi aspettavo al varco. Perché nonostante vi sforziate di essere moderni, siete come me.<br />
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La conferma di quanto non siete cambiati ce l'ho appena scopro che il vostro ottavo album si chiama <i>Simulation Theory</i>. Un titolo assolutamente in linea con quelli del passato, che si soffermavano su ipotesi, teoremi e concetti vari. Questa volta, dopo il convinto ritorno alle chitarre di <i>Drones</i> che abbandonava le sperimentazioni del precedente <i>The 2nd Law</i>, vi siete buttati su sonorità decisamente più elettroniche, che forse chi non ha ancora capito quanto vi piace svariare farà fatica a digerire. Sento già urlare gli ex-fan allo scandalo, rimpiangendo i bei tempi in cui i Muse erano una Rock Band con la R e la B maiuscole. Suppongo che non ci sia bisogno che vi dica di lasciare parlare chi vi critica, perché non si può certo piacere a tutti, specialmente quando si parla di un'estetica che appartiene all'amata/odiata epoca delle spalline imbottite. Perfino io ho storto il naso sull'incipit di <i>Something Human</i>, perché quel suono non è solo anni 80, ma è pure tornato prepotentemente in voga nel pop “moderno”. Non ho intenzione di dilungarmi sulla presunta non-modernità del pop, perché ci sono fior di sociologi e musicologi che hanno analizzato a fondo il tema. Ma mi limito a fare una considerazione: se questo atteggiamento è in generale accettato e spesso esaltato, perché quando lo fanno gli altri va bene e quando lo fate voi no?<br />
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Per ciò che avete dimostrato nel tempo, mi sento in dovere di resistere alla tentazione di definire un brano pacchiano solo perché comincia come un riempipista di David Guetta. Non nego che il primo ascolto sia stato traumatico, ma dopo essermi ambientato ho capito che <i>Something Human</i> è un pezzo 100% Muse, solo che si presenta con un vestito al quale non ero abituato. Oltrepassato questo scoglio, che a mio avviso rimane il più difficile da superare, il resto è in discesa. Un po' perché vi siete presi la briga di aprire con un'opportuna dichiarazione d'intenti come <i>Algorithm</i>, capace di trovare un equilibrio perfetto tra la vostra nota epicità e il timbro dei macchinari analogici di cui vi siete invaghiti. Un po' perché pezzi come <i>Propaganda</i> e <i>Dig Down</i> non risulteranno così strampalati alle orecchie di chi ha apprezzato <i>Madness</i>. Per quanto riguarda numeri come <i>Pressure</i> e <i>Thought Contagion</i>, dove la componente elettronica è meno invasiva, il problema proprio non si pone. In questo senso il compromesso ideale è probabilmente <i>The Dark Side</i>, dove armonie e melodie familiari vanno a braccetto con strumenti che appartengono (in teoria) a territori lontani dal vostro stile. Ma visto che ho utilizzato questa parola, colgo l'occasione per riciclarla con un'accezione diversa: che stile, quell'assolo.<br />
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A costo di sembrare ingenuo, sono ancora convinto che al di là di suggestioni temporanee, mode del momento e pura apparenza, quello che a conti fatti rimanga sia la musica. E francamente me ne frego se lo sforzo richiestomi dai Muse derivi da un sincero desiderio di esplorare nuovi terreni oppure non sia altro che il frutto di una furba trovata commerciale che punta a qualche oscura strategia di riposizionamento. <i>Simulation Theory</i> è un disco solido, partorito da una band che raramente ha fatto passi falsi in carriera. Un trio che in quanto a scrittura non tradisce mai e che nel tempo ha dimostrato di avere talento da vendere, confermando il proprio valore sui palchi del mondo intero. A proposito: chi è talmente allergico a queste sonorità da non riuscire a sopportare l'album ha per caso pensato di mettere a confronto un'esibizione dal vivo di uno dei tanti progetti tutto fumo e poco arrosto degli anni 80 con un live dei Muse? Questo è solo uno dei modi per sottolineare quanto lo strumento conti fino a un certo punto. E' il modo in cui lo utilizzi che fa la differenza.<br />
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<span style="color: red; font-weight: bold;"><span style="color: red;">7.5/10</span><br /><br /><span style="color: purple;">Highlights: </span></span><span style="color: purple;">Algorhithm, Th dark side, Something human, Thought contagion, Get up and fight, Dig down.</span><br />
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<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/QQ_3S-IQm38" width="560"></iframe>
Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-62896014455747114312018-11-08T13:24:00.000+01:002019-04-08T14:38:56.684+02:00Coldplay - A head full of dreams (2018, Doc.)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgvl0kSwiofEnt9lTellLuZ_6rftMAkDjQFcmkSQBFpD55aSmJCAXjAMD-gzkDj6578iL2rgjfe2tpgz0_K7CNCeyNpskOgdkIJi8-pvABqH_CrnOHiVXbqEQ0QooAreahlJ4xh/s1600/A-Head-Full-of-Dreams.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="720" data-original-width="1280" height="225" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgvl0kSwiofEnt9lTellLuZ_6rftMAkDjQFcmkSQBFpD55aSmJCAXjAMD-gzkDj6578iL2rgjfe2tpgz0_K7CNCeyNpskOgdkIJi8-pvABqH_CrnOHiVXbqEQ0QooAreahlJ4xh/s400/A-Head-Full-of-Dreams.jpg" width="400" /></a></div>
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Alle 9 in punto maledico prima la sveglia e poi me stesso per avere fatto troppo tardi ieri sera. Apro gli occhi realizzando che il malvagio strumento ha interrotto un sogno di cui ricordo solo frammenti sparsi, ma che mi stava lasciando una sensazione tutto sommato positiva. Colgo dunque l'occasione per ri-maledire la sveglia mentre il mio cervello comincia a mettere a fuoco il motivo che mi ha spinto a riposare 5 ore scarse: oggi è il giorno dell'anteprima di <i>A head full of dreams</i>, il lungometraggio che celebra la carriera dei <b>Coldplay</b>. Provo ad essere poetico, considerando che passerò da un sogno a una testa che in teoria di sogni è piena. Tento di auto-motivarmi considerando che ha smesso di piovere, e che quindi risparmierò le imprecazioni che provoca il traffico di Milano in una giornata uggiosa. Ma non c'è proprio nulla da fare: non ho molta voglia di assistere alla proiezione della storia di una delle mie ex-band preferite. </div>
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Non penso che i Coldplay abbiano tradito le attese, perché solo un pazzo potrebbe sostenere una tesi simile. Passare una camera da letto adibita a sala prove a un tour negli stadi con più di 5 milioni di biglietti venduti nel giro di vent'anni scarsi non è roba da niente. Il loro valore è francamente incontestabile. Semplicemente, quando le loro scelte stilistiche non combaciavano più con i miei gusti personali, ho dato una pacca sulla spalla a <b>Chris Martin</b> e soci con grande rispetto e ho smesso di aspettarmi qualcosa in grado di farmi provare le emozioni di <i>Parachutes</i> e <i>A rush of blood to the head</i>. Un po' come quando ti accorgi che non hai più moltissimo da condividere con il tuo amico d'infanzia, quello che ti ha accompagnato in un altro periodo della tua vita, e ti allontani in modo naturale senza serbare rancore. Questo è il motivo per cui non sono andato a San Siro l'estate scorsa, snobbando un concerto che molti miei amici avevano definito clamoroso.<br />
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La pellicola si apre proprio con i colori dell'ultimo tour, con quei quattro puntini che si dimenano sul palco dello stadio di Sao Paulo circondati da 100.000 anime urlanti munite di braccialetti fluorescenti. Uno spettacolo che avevo già intravisto in rete, ma che al cinema ha l'effetto immediato di fare vacillare qualcosa nelle mie convinzioni: che mi sia perso qualcosa? Ma no, i “miei” Coldplay sono quelli degli inizi. I ragazzi che al college ci vanno solo per trovare altri appassionati di musica con cui suonare e che si divertono a farsi riprendere da Mat Whitecross, un aspirante regista che incontrano prima di formare la band. Un amico vero, che un bel giorno si rende conto di avere in archivio più di 1000 ore di girato e si offre di fare una selezione e ricavare un film capace di raccontare l'intero percorso dei ragazzi di Londra. Inizialmente Chris non sembra entusiasta dell'idea. Ma dopo avere visionato alcuni clip, si rende conto che è il momento giusto per un'operazione simile. Perché se è sacrosanto pensare sempre al prossimo passo, certe volte è anche opportuno fermarsi a osservare tutto quello che è successo finora.<br />
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Memore dell'ottimo <i>Oasis:Supersonic</i>, confido molto nella bravura di Whitecross. E faccio bene, perché la scelta di seguire un ordine cronologico avendo cura di saltellare tra presente e passato è vincente. Fa un certo effetto passare da Chris che si rivolge alla telecamera promettendo agli inesistenti spettatori del 1998 che nel giro di quattro anni sarebbero diventati una grande band alle immagini di un live del 2002. Così come è inevitabile sorridere paragonando il primo concerto in assoluto dei Coldplay agli stadi che brulicano di fan festanti. Sono testimonianze preziose, perché sottolineano quanto l'ironia di Chris (“Buon per voi che siete venuti a sentirci oggi, che non siamo ancora famosi come i Bon Jovi”) in realtà nascondesse un desiderio reale, un obiettivo da raggiungere, una voglia non comune di arrivare in cima. La netta sensazione è che il leader dei Coldplay sapesse già che in futuro quei filmati sarebbero stati utilizzati per celebrare il successo del suo gruppo. E il fatto stesso che ogni singola tappa sia stata ripresa meticolosamente rende la pellicola unica: si tratta della prima volta in assoluto che una band di fama mondiale può essere raccontata in questo modo, e non attraverso reperti raffazzonati qua e là, come fotografie sbiadite o ricordi di amici, parenti e collaboratori.<br />
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Tra momenti di euforia e i rari periodi no (l'allontanamento temporaneo di Will Champion, l'ispirazione che non arriva in <i>X&Y</i> e il divorzio tra Chris e Gwyneth Parltrow), quello che emerge del film è piuttosto chiaro: i Coldplay sono una famiglia. Da quando si sono incontrati hanno fatto tutto insieme. Il valore dei singoli componenti della band è senza dubbio inferiore rispetto a quello della squadra. Mat non ha mai smesso di seguirli, e perfino il loro primo manager Phil Harvey (da loro spesso definito il quinto membro della band) è un amico del college. E anche se ora sono diventati enormi, sembra che le cose non siano cambiate: la passione genuina di Chris che viene immortalato quando fa sentire per la prima volta <i>The scientist</i> ai suoi amici è la stessa che manifesta quando si ritrova a dare istruzioni a <b>Beyoncé</b> suonando quattro accordi su una tastiera in una camera da letto. Sono scene come questa che mi fanno ritrovare i “miei” Coldplay, che mi fanno pensare di essermi effettivamente perso qualcosa. Proprio perché sono stato un fan della prima ora, avrei dovuto essere tra i 117.000 di San Siro. A raccogliere frammenti sparsi di un sogno divenuto realtà, celebrando l’apice di una splendida carriera.<br />
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Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-58986010282593478122018-11-02T13:59:00.003+01:002019-04-08T14:40:54.621+02:00The Prodigy - No tourists (2018, Take Me To The Hospital)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiM6doD-iAnB0GVTvS8Iume-kOmbKISEc74IlO6mYggt_lN_u0crR81yBwLha6xLsjWstwEA-E8ZOvUNEKrOakkjqtlKwmiChvnxdMraG670mVdH5tmQvEeMwWSlt2F5Yhfqbhr/s1600/R-12731655-1540915841-8957.jpeg.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="539" data-original-width="600" height="179" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiM6doD-iAnB0GVTvS8Iume-kOmbKISEc74IlO6mYggt_lN_u0crR81yBwLha6xLsjWstwEA-E8ZOvUNEKrOakkjqtlKwmiChvnxdMraG670mVdH5tmQvEeMwWSlt2F5Yhfqbhr/s200/R-12731655-1540915841-8957.jpeg.jpg" width="200" /></a></div>
Ancora prima di premere play per iniziare l'ascolto di <i>No Tourist</i>, ho il presentimento che farò una fatica tremenda a non smarrirmi tra i ricordi. So bene che rievocare i fasti del passato non aiuta a valutare un disco nuovo in maniera lucida e oggettiva, ma non ci posso fare niente: il contributo fornito dai <b>Prodigy</b> alla musica elettronica (anzi, alla cultura elettronica) è così rilevante da impedirmi di scindere la band dagli anni 90, il periodo storico a cui viene generalmente associata. Ogni volta che mi imbatto nella loro ragione sociale, le copertine di <i>Music for the Jilted Generation</i> e <i>The Fat of the Land</i> si materializzano automaticamente nella mia testa, e qualsiasi sforzo di scacciarle risulta vano.<br />
Sia benedetto il giorno in cui il trio composto da <b>Liam Howlett, Keith Flint e Maxim Reality</b> si è preso il carico di rappresentare la generazione abbandonata confezionando un vero e proprio manifesto che racchiudeva in 13 tracce l'essenza della scena rave. E che nessuno si azzardi a toccare l'album del 1997, uno dei crossover più potenti e riusciti della storia della musica, capace di sgomitare in classifica al fianco di boy band e icone pop con irruenza epica. Un'operazione che, purtroppo o per fortuna, non è più immaginabile nell'ecosistema musicale odierno, che normalizza qualsiasi tentativo di trasgressione attraverso una manciata di click.<br />
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È tutta colpa dell'ingombrante passato dei Prodigy se continuo ad esitare. Non nascondo che ho molta paura di rimanere deluso da questo album, perché in fondo continuo a sperare in qualcosa che al giorno d'oggi pare un'utopia: un suono nuovo. Un suono in grado di scioccarmi, di tirarmi un pugno in faccia e di lasciarmi al tappeto, esattamente come era capitato con <i>The Fat of the Land</i>. E invece, come previsto, la sessione di ascolto parte con il singolo <i>Need Some1</i>, che avevo già archiviato quest'estate nella cartella “Standard Prodigy”. Il che non significa che sia brutto, anzi: ben vengano synth maleducati, batterie grasse e stop & go tanto prevedibili quanto impeccabili nella costruzione. Esattamente come non disdegno il secondo singolo <i>Light Up the S</i><i>ky</i>, che contiene almeno due auto citazioni: il riff principale riprende alcune note di <i>Voodoo Peopl</i>e, mentre il minuscolo break di chitarra richiama l'inconfondibile suono di <i>Breathe</i>. Rimango più freddo su <i>We Live Forever</i>, che alza il ritmo e fa affidamento su un hook elementare ma non certo memorabile, mentre la progressione discendente della title-track che saccheggia la coda di <i>Closer</i> di Nine Inch Nails incontra la mia totale approvazione. Apprezzo pure la violenza di <i>Fight Fire With Fire</i>, insieme al duo rap Ho99o9, ma dal mio punto di vista il confronto con <i>Diesel Power</i> (con <b>Kool Keith</b>) o con l'immortale <i>Poison</i> non regge.<br />
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Il copione non cambia con l'avanzare delle tracce. Mi ritrovo dunque a scuotere il capo al ritmo di <i>Champions of London</i> e <i>Boom Boom Tap</i>, ammettendo implicitamente che l'adrenalina qui non manca di certo. Ma nel frattempo il mio cervello continua a farsi i fatti suoi, trovando sempre e comunque riferimenti ai gloriosi tempi che furono. A quando assistevo con un ghigno a una mielosa cover di <i>How Deep is Your Love</i> firmata <b>Take That</b> che veniva spodestata in classifica dalla facinorosa <i>Firestarter</i>. All'impagabile soddisfazione di potere inserire <i>Smack My Bitch Up</i> all'interno di un dj set assolutamente commerciale in qualche locale fighetto di Milano. A quella supposta rivoluzione che, com'era intuibile anche se mi rifiutavo di uccidere il sogno sul nascere, non si è mai realmente compiuta. Perché per quanto i Prodigy facessero la musica giusta al momento giusto, i suoni erano comunque troppo audaci per durare in eterno. D'altronde la musica, come tutte le arti, deve fare i conti con i proverbiali cicli.<br />
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Nonostante i legittimi accorgimenti sonori per stare al passo con i tempi, quando senti una traccia del trio britannico la riconosci fin dalla prima flebile frequenza che raggiunge le tue orecchie. E <i>No Tourist</i> è un album decisamente più ficcante del precedente <i>The Day is My Enemy</i>, che a mio parere aveva esagerato con l'allineamento sonoro, rinunciando a una buona fetta d'identità. Un fattore necessario nel melting pot musicale odierno, ma purtroppo non sempre sufficiente per farsi notare. Se però una nuova rivoluzione ad oggi pare una chimera, tanto vale metterci la passione di un tempo e plasmare un suono riconoscibile e personale. E su questo non sono ammesse obiezioni: i Prodigy nel 2018 continuano a fare la musica “giusta”, la loro musica, quella che sanno fare meglio di tutti. Il problema, ammesso che si possa definirlo tale, è il contesto storico. Qualcuno sostiene che siano finiti da un pezzo, qualcun altro è convinto che siano ritornati in forma. Loro se ne fregano e vanno dritti per la loro strada, sbraitando e seminando caos. Io, seppur rimpiangendo i pugni in faccia che negli anni 90 hanno sconvolto in positivo il mio approccio alla musica, sto comunque con loro.<br />
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<span style="color: red; font-weight: bold;"><span style="color: red;">7.5/10</span><br /><br /><span style="color: purple;">Highlights: </span></span><span style="color: purple;">Need some1, Light up the sky, No tourists, Timebomb zone, Champions of London, Boom boom tap.</span><br />
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<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/G_U74eyB5o8" width="560"></iframe>Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-48692325379902514092018-10-19T14:25:00.000+02:002019-04-08T14:43:24.301+02:00Richard Ashcroft - Natural rebel (2018, BMG)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgbQY9mxO94w2L018DRUHx_BWrMUsqSY12dPZJI6uvafS7bK5jt2PzQsVO7-xn0uuXrcE1voVlvXwhrD2aP7Ed6qwzd_Ytqwlermh5d0VYwtltkamlJEkDiTEJ_F8VK-9f2AylH/s1600/R-12678645-1539955224-1597.jpeg.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="600" data-original-width="600" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgbQY9mxO94w2L018DRUHx_BWrMUsqSY12dPZJI6uvafS7bK5jt2PzQsVO7-xn0uuXrcE1voVlvXwhrD2aP7Ed6qwzd_Ytqwlermh5d0VYwtltkamlJEkDiTEJ_F8VK-9f2AylH/s200/R-12678645-1539955224-1597.jpeg.jpg" width="200" /></a></div>
Ogni volta che viene nominato <b>Richard Ashcroft</b>, la prima melodia che fischietto è quella di <i>Break the Night With Colour</i>. Non quella di <i>A Song for the Lovers</i>, il suo primo singolo da solista nonché la sua canzone di maggior successo. Il motivo è semplice: nel 2000 lo scioglimento dei <b>Verve</b> post <i>Urban Hymns</i> (il più significativo della band di Wigan, che di rotture ne sa qualcosa) è ancora troppo fresco, e io non ho nessuna voglia di accettarlo. Quindi a me la canzone per gli innamorati non fa né caldo né freddo, è soltanto una hit radiofonica che si confonde in mezzo a mille altre. Ma nel 2006, quando facendo zapping mi imbatto nel cantautore britannico seduto al clavicembalo dietro le sbarre di una prigione che suona <i>Break the Night With Colour</i>, penso immediatamente a <b>John Lennon</b>. Il paragone è chiaramente ingombrante, quindi decido di recuperare i dischi precedenti (che avevo ignorato) per farmi un'opinione a mente lucida.<br />
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Una decisione proficua, perché tasto con mano che “le canzoni sono più forti di tutto, anche delle band” - come lui stesso ha tenuto a ribadire agli scorsi I-Days.
La frase pronunciata sotto il sole di Milano davanti a una folla accorsa per sentire <b>Liam Gallagher</b> e i Killers (e che quindi deve ancora riempire a dovere il parterre dell'ex area expo) calza a pennello con il titolo del suo quinto disco, <i>Natural Rebel</i>. E' nella sua indole vivere di attimi e fare scelte istintive, senza curarsi delle conseguenze che possono implicare. Oggi intrattiene un pubblico che senza il richiamo di altre band probabilmente non sarebbe venuto a sentirlo, mentre 20 anni fa era il leader di una band che riempiva i palazzetti del pianeta. Ma il successo non è sufficiente per tenere a bada la sua impulsività. Nel Giugno del 1998, dopo un concerto a Dusseldorf, si ritrova con la mascella indolenzita, e il chitarrista Nick McCabe con una mano rotta (unite voi i puntini). E dire che l'anno precedente Richard aveva supplicato Nick di tornare nella band dopo avere bocciato Bernard Butler dei <b>Suede</b>. Ashcroft è fatto così. Marcia lungo l'agrodolce percorso della vita con una camminata arrogante, prendendo a spallate chiunque capiti sulla sua strada.
A nessuno dovrebbe essere concessa tanta presunzione, ma che cosa puoi dire a uno che scrive un pezzo come <i>A Man in Motion</i>, efficacissimo concentrato di purezza ed esperienza? “<i>Sono un uomo in movimento, ho bisogno di velocità. Ti conviene adeguarti se vuoi venire con me</i>”. Il concetto del moto è evidentemente caro ad Ashcroft, che lo ribadisce sotto forma di invito (“<i>Se cammini con me, io cammino con te</i>”) in <i>That's When I Feel It</i>. Il viaggio a cui fa riferimento è un percorso mentale, la cui ricetta prevede di rifugiarsi nel conforto della semplicità facendo buon uso della consapevolezza acquisita nel tempo. Una condotta che lo porta a tenersi stretto il passato, a coccolarlo. Ecco spiegata “quella sensazione country soul blues” sulla coda di <i>Born to Be Strangers</i>, un pezzo dal piglio Stonesiano che racconta di come alcune persone siano destinate a vivere da sole, alla costante ricerca del pericolo. Ma senza per questo sentirsi fuori posto, come sancito nel perentorio "<i>Goodbye to Loneliness</i>” del singolo <i>Surprised By the Joy</i>, ode alla genuinità dei piccoli piaceri quotidiani e della natura (“<i>Voglio camminare nel giardino con te</i>”) di fronte alle quali la tecnologia (“<i>Qualcuno che ti filma ovunque vai / Non c'è più privacy</i>”) perde di significato.<br />
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Un passo alla volta, affrontando le nostre e paure e imparando dagli errori, possiamo rifiorire. Sembra questo il suo messaggio positivo, ai limiti dell'illusione. E' inevitabile affrontare periodi no (<i>We All Bleed</i>), ma si possono superare facendo affidamento sul potere assoluto dell'amore (<i>All My Dreams, That's How Strong</i>). E della musica, naturalmente: “Ogni giorno succede qualcosa nel mondo che ci polarizza, ci divide. E' un meccanismo malsano che alimenta l'ansia e ci soffoca. La musica in questo senso rimane la forma d'arte più forte, perché non separa, ma unisce. E mi sento fortunato ed eccitato a farne parte”.
La ribellione naturale descritta da Richard non si basa quindi su grandi rivoluzioni: tutto quello che bisogna fare per trovare la pace interiore è ricordarsi di vivere il momento, senza complicarci troppo la vita. Aprire gli occhi la mattina e constatare con meraviglia che davanti a noi c'è un giorno nuovo, che se vogliamo si può tramutare in opportunità per rinascere. La volontà di raggiungere l'armonia con sé stessi senza sconvolgimenti è del tutto coerente con la sua musica, visto che <i>Natural Rebel</i> non si preoccupa di apparire innovativo in termini di arrangiamenti o songwriting, rimanendo fedele al principio delle canzoni che sono più forti di tutto. E siccome Richard Ashcroft ha ben poco da invidiare a tanti cantautori ben più celebrati di lui, il risultato è esattamente quello che da lui ci si aspetta: una manciata di canzoni ottimamente scritte, che si potrebbero definire ribelli solo aggrappandosi alla scelta dichiarata di non adeguarsi ai suoni moderni. Canzoni talvolta prevedibili, e talmente personali da sembrare spesso quasi ingenue. Ma indiscutibilmente vere.<br />
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<span style="color: red; font-weight: bold;"><span style="color: red;">7.5/10</span><br /><br /><span style="color: purple;">Highlights: </span></span><span style="color: purple;">All my dreams, Surprised by the joy, That's how strong, Born to be strangers, We all bleed, A man in motion.</span><br />
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<iframe allow="autoplay; encrypted-media" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/xpL3yzZdUQs" width="560"></iframe>Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-52284630249559647952018-05-09T14:14:00.000+02:002018-10-27T14:33:44.327+02:00Arctic Monkeys - Tranquility Base Hotel + Casino (2018, Domino)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEid7E1a2wya8RJsW6lu-OqFh2MvwZfsJ9TuWeM3A5G7qaNOh3ntIS0NDGijKsl1HKchXWUUROpjFWyjJDCb6kpG-ypNzEvaaMj2lVDtKviJudpLQAdz3aTxD67sC5H4EQy-T5zM/s1600/R-11986336-1526058379-7212.jpeg.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="593" data-original-width="600" height="197" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEid7E1a2wya8RJsW6lu-OqFh2MvwZfsJ9TuWeM3A5G7qaNOh3ntIS0NDGijKsl1HKchXWUUROpjFWyjJDCb6kpG-ypNzEvaaMj2lVDtKviJudpLQAdz3aTxD67sC5H4EQy-T5zM/s200/R-11986336-1526058379-7212.jpeg.jpg" width="200" /></a></div>
Come si diceva un tempo, riavvolgo il nastro per l'ennesima volta. Credo che sia la nona o la decima, ma ho perso il conto. Per quanto mi capiti spesso di lasciare dischi a rosolare fino al raggiungimento della cottura ottimale, il fatto che l'episodio si stia verificando con un album di Alex Turner mi impone di non archiviare la vicenda con sufficienza; onestamente, mi sono sempre bastati un paio di ascolti per inquadrare i suoi lavori. Ma in questo caso no.
Cliccando sui file che compongono <i>Tranquility Base Hotel + Casino</i> (titolo incredibilmente farraginoso, soprattutto se messo in relazione con il precedente cristallino e ultra stringato "<a href="https://marcorigamonti.blogspot.com/2014/06/arctic-monkeys-am-2013-domino.html" target="_blank"><i>AM</i></a>") mi sono sentito come se l'amico del calcetto mi avesse dato appuntamento al campo alla solita ora, per poi scoprire che oggi si gioca a baseball. L'inevitabile domanda che compare a grandi lettere nella mia testa è: “Cosa diavolo succede qui?”<br />
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Perso in un mondo che non riconosco cerco di ritrovare l'orientamento, anche se la mia bussola non sembra funzionare; l'ago impazzisce, oscillando nervoso in mezzo a mille punti cardinali che per l'occasione hanno cambiato nome. Punta su John Lennon, poi si rivolge verso scenari fantascientifici. Segna qualche oscuro musical, poi la destinazione diventano i crooner d'altri tempi. Non avendo la più pallida idea di dove dirigermi, decido di guardarmi intorno e cercare qualche chiaro riferimento visivo – ma il senso di smarrimento aumenta. Laggiù, nell'ampio spazio solitamente riservato alle chitarre, ci sono dei crateri enormi. E non riesco nemmeno a individuare le energiche cascate a cui ero abituato; i pezzi sono diventati laghi piatti e placidi, tutti tra il lento e il moderato. L'incipit di <i>Star treatment</i> – dove il frontman degli Arctic Monkeys fa l'autostop in un posto dimenticato da dio e lontano da qualsiasi autostrada immaginaria – sembra descrivere a pennello la mia situazione.
Qui non c'è la benché minima traccia degli Strokes, fonte d'ispirazione principale di un Turner che li cita e poi punta immediatamente il dito sul sistema accusandolo di essere il principale responsabile di questo “casino” - parola magica che sintetizza lo stato del mio cervello, costretto a risolvere un imprevisto labirinto armonico e lirico. Se un semplice cambio di direzione può spiazzare, immaginatevi cosa può accadere quando a mutare è lo strumento chiave della scrittura: stregato da uno Steinway regalatogli da un amico per i suoi trent'anni, Alex sposta il centro gravitazionale delle sue composizioni sul pianoforte. E per dare il colpo di grazia al povero e indifeso ascoltatore si esprime con flussi di coscienza degni di Joyce inventando storie assurde tra Blade Runner e Bukowski (non a caso espressamente menzionati).<br />
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Dopo X tentativi (dove X è un numero finito tra 10 e 100 che dipende dalla capacità di adattamento e dalla volontà di risolvere l'enigma dell'ascoltatore) certi pezzi diventano finalmente accessibili. Riesco a canticchiare il ritornello di <i>American sports</i> (innamorandomi del “Uh” in falsetto prima dell'ultimo ritornello), mi unisco baldanzoso ai cori di <i>Four out of five</i> e anche le brillanti <i>Batphone</i> e <i>The world's first ever monster truck front flip</i> (praticamente uno scioglilingua) diventano familiari. Il fatto che pezzi come la title track e <i>Science fiction</i> rimangano in qualche modo avvolti nella nebbia mi fa capire che dovrò ancora fare affidamento sulla funzione repeat per sviscerare l'album a dovere. Ma a dire il vero, sono anche tentato di lasciare tutto così com'è.
Perché in fondo l'impressione è che Turner voglia a tutti costi trasportarmi nello stato di allucinazione in cui si trova mentre canta, fregandosene di risultare interamente comprensibile. Il suono delle parole pare di gran lunga più importante del significato delle frasi che compone, esattamente come le singolari progressioni armoniche e i fragilissimi ritornelli rappresentano un invito a saltare a bordo senza pretendere nessuna garanzia. Alex mi sta chiedendo di gettare via la bussola; di lasciare perdere considerazioni su crateri, cascate e laghi e di godermi semplicemente il panorama di un mondo nuovo. Qualcuno preferirà declinare gentilmente, rifugiandosi al sicuro nel solido passato; io invece mi fido di lui, e accolgo la proposta con entusiasmo. Nel farlo, comprendo l'inutilità della domanda che è uscita dalle mie labbra poco fa: quello che sta succedendo ora lo posso sentire, e mi voglio prendere tutto il tempo che serve per gustarmi ogni singola nota. La domanda intrigante, quella che davvero stuzzica la mia fantasia e in un futuro spero non troppo lontano confermerà la bontà della mia decisione è: “Cosa succederà domani?”<br />
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<span style="color: red; font-weight: bold;"><span style="color: red;">7.5/10</span><br /><br /><span style="color: purple;">Highlights: </span></span><span style="color: purple;">Star treatment, American sports, Golden trunks, Four out of five, The world's first ever monster truck front flip, Batphone.</span><br />
<span style="color: purple;"><br /></span></div>
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<iframe allow="autoplay; encrypted-media" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/71Es-8FfATo" width="560"></iframe>
Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-53493094186527762972018-04-07T14:53:00.001+02:002018-10-27T14:33:12.068+02:00Baustelle - L'amore e la violenza Vol.2 (2018, Atlantic)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEibHef_Y0xQDcAorjlbwRH39XvmUFfaJEDkM3c5EP41CBmKgeCyNChtw6mbcc5Z066ghuGJCDXnEWUt3Aomaj2UeXjXyA2ttinv-AUVnp4lItJt6W8WhGFLkL7UeyhukcLKkJwR/s1600/R-11750322-1521741423-9761.jpeg.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="609" data-original-width="599" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEibHef_Y0xQDcAorjlbwRH39XvmUFfaJEDkM3c5EP41CBmKgeCyNChtw6mbcc5Z066ghuGJCDXnEWUt3Aomaj2UeXjXyA2ttinv-AUVnp4lItJt6W8WhGFLkL7UeyhukcLKkJwR/s200/R-11750322-1521741423-9761.jpeg.jpg" width="196" /></a></div>
Sto ancora canticchiando<i> L'era dell'acquario</i> come se fosse uscita ieri, quando improvvisamente in un freddo pomeriggio di fine Gennaio vengo stuzzicato da un sibillino video promozionale che allude a un possibile nuovo album dei Baustelle in uscita. Che stia sbagliando qualcosa? Prendo in considerazione l'opportunità che la memoria si sta prendendo gioco di me, e quello che mi sembra un disco tutto sommato nuovo sia in realtà datato – che so – 2016. Capita, a volte; il tempo passa e “<i>ci si abitua a tutto, al dolore, alle stagioni, alla storia, al calendario</i>”. Ma no, ho fatto bene i calcoli; "L'amore e la violenza" è uscito nel 2017, e per la prima volta in quasi vent'anni di carriera la band di Montepulciano pubblica due lp nel giro di quattordici mesi, collegandoli artisticamente attraverso l'espediente dei volumi.<br />
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Tra le mie tante convinzioni sbagliate ne annovero una che non riuscirò mai a sradicare: la diffidenza nei confronti di lavori che vedono la luce in tempi troppo ristretti. Un preconcetto che si trasforma in preoccupazione quando c'è di mezzo un gruppo che mi sta particolarmente a cuore, come in questo caso. Il turbamento è però stemperato da un paio di pensieri.
Il primo proviene direttamente da Bianconi e soci che – in quello che interpreto subito come uno slancio di ironia – mettono le mani avanti precisando che si tratta di “dodici pezzi facili” e specificano al giorno del lancio che non sanno in quanto tempo si fanno i dischi (e se non lo sanno loro, cosa posso saperne io?).
Il secondo è opera del mio cervello, che – ancora traumatizzato in senso positivo dal monumentale Fantasma – si aspettava qualcosa di più da <i>L'amore e la violenza</i>, un album che ha raccolto consensi ma che al sottoscritto è sempre parso un po' troppo veloce e leggero; ricordo la precisa sensazione di avere metaforicamente tentato di girare il disco una volta giunto al pezzo finale, rimanendoci male nello scoprire che sull'altra facciata non ci fosse inciso nulla.<br />
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La mia occasione per girare il simbolico disco arriva dunque con questo Volume 2, scritto durante il tour con gli stessi strumenti utilizzati nel primo episodio, che si presenta con una copertina in tutto e per tutto affine (cromaticamente e a livello di caratteri utilizzati) a quella di un anno fa. Una cover in cui ancora una volta troneggiano due figure femminili: la donna (incarnata da nomi come Veronica e Giovanna, dal pronome personale “lei” disseminato ovunque e dal ricorrente anglicismo “Baby”) è la stella madre del sistema, e attorno a lei orbitano canzoni che cancellano il confine tra libertà e coercizione, che uniscono amore e violenza in un abbraccio tanto inspiegabile quanto reale. Perché – parola di Bianconi – l'amore è anche violenza. E non solo nei momenti più delicati (come quando una storia finisce), ma anche quando ti travolge e ti comanda a bacchetta senza che tu possa in opporti in alcun modo.
Certo, <i>L'amore è negativo </i>sembra una traduzione quasi letterale di un noto brano dei Joy Division che ha segnato più generazioni; ma qui, a dispetto del titolo e del tema affrontato, si scorge una sorta di speranza, una flebile luce in fondo al tunnel che incita a conservare un barlume di fiducia. Dove riporla questa fiducia? Nel passato, nel presente o nel futuro, chissà.
In un amore cosmico forse; in un concetto di amore che si eleva oltre i confini materiali della relazione stessa (quello <i>“Che non muore mai / Più lontano degli dei”</i>). L'amore atomico che prima brucia e poi si spegne, per poi riaccendersi magicamente quando non credevamo che fosse possibile (<i>Credi che il vuoto di colpo sia bellissimo / Neghi che tutto sia vano e tutto inutile</i>).
In un amore perduto, che però non ne vuole proprio sapere di lasciarci in pace e sopravvive nel dolore (<i>Tutto mi parla di te / Perfino la tua assenza mi fa compagnia</i>).
O anche in un amore immaginato, che deve ancora arrivare; chissà se perdere una donna in un giorno di sole uguale agli altri (come si perde un accendino o un portachiavi) possa rappresentare davvero un nuovo inizio.<br />
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La sensazione è che Bianconi abbia cercato di descrivere con una ciclicità quasi matematica l'irrazionale inseguimento tra principio e fine, che si rincorrono disperatamente a vicenda fino a confondersi: il paradosso di ritrovare la libertà aspettando una nuova sopraffazione – illusoria o reale – che dia un senso ai nostri giorni vuoti.
Ci vuole coraggio a scrivere canzoni d'amore: si cammina su un filo, rischiando di precipitare nella stucchevolezza o nella consuetudine. Con questo disco i Baustelle sono riusciti a percorrere quel filo senza cadere. Il segreto? Essere espliciti senza esagerare, avere cura di lasciare libertà di interpretazione senza scivolare nell'incomprensibile e ricercare un prezioso equilibrio tra materialismo e idealismo (qualità che a mio modo di vedere li contraddistingue da sempre).
In linea con i miei principi che spesso si rivelano errati ero pronto ad accogliere qualcosa di simile a una raccolta di b-side; un lavoro che potesse ambire ad un ruolo di appendice all'album di un anno fa, un prodotto indispensabile per i fan ma in un certo senso trascurabile per l'ascoltatore occasionale. Non sono mai stato così felice di vedere le mie aspettative disattese: <i>L'amore e la violenza Vol.2</i> parte dall'immaginario sonoro e lirico del primo volume e lo nobilita con grande classe e la giusta dose di spontaneità. Lascia un retrogusto amarognolo, che in fondo è quello che ci si aspetta da loro; ma lo fa attraverso un'ostentata “oscenità pop” che alleggerisce l'atmosfera e rende più semplice accettare il fatale scarto tra tra sogno e realtà.
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<span style="color: red; font-weight: bold;"><span style="color: red;">8/10</span><br /><br /><span style="color: purple;">Highlights: </span></span><span style="color: purple;">Veronica N.2, Lei malgrado te, A proposito di lei, Baby, L'amore è negativo, Perdere Giovanna.</span><br />
<span style="color: purple;"><br /></span>
<span style="color: purple;"><br /></span></div>
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<iframe allow="autoplay; encrypted-media" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/ZgcA7eEGvPI" width="560"></iframe>Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-5721374763445147342017-11-30T16:48:00.002+01:002018-10-27T14:35:25.096+02:00Noel Gallagher's High Flying Birds - Who built the moon? (2017, Sour Mash)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
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<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjC9mlMyom7sM2phWLvcORjTawr_3Ud4iXbdD5Aoid729ttwHU4rQ6A4MV9Wp167UwGKtbvc2wR0Oba018_74gd6xCMmIKnIlRTteZAcqL6HmwjUD1xx_aMCXH5KiSgFsM8TfPB/s1600/NGHFB_packshot_layers2.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1200" data-original-width="1200" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjC9mlMyom7sM2phWLvcORjTawr_3Ud4iXbdD5Aoid729ttwHU4rQ6A4MV9Wp167UwGKtbvc2wR0Oba018_74gd6xCMmIKnIlRTteZAcqL6HmwjUD1xx_aMCXH5KiSgFsM8TfPB/s200/NGHFB_packshot_layers2.jpg" width="200" /></a></div>
Talvolta
le prime impressioni possono ingannare. Nonostante mi fossi rifiutato
di considerare plausibile la somiglianza con una hit di Ricky Martin
strombazzata in rete, quando qualche settimana fa ho ascoltato <i>Holy mountain</i> ho pensato che suonasse in modo strano e che non
rappresentasse Noel Gallagher per come avevo imparato a conoscerlo in
più di vent'anni di onoratissima carriera.<br />
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Ma
ora – giunto al terzo ascolto integrale di <i>Who built the moon?</i> -
quelli che mi sembravano campanelli d'allarme si sono trasformati in
travi portanti di un'architettura pensata e voluta.</div>
<br />
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Il
terzo disco di Noel e dei suoi Birds mette le cose in chiaro fin
dall'inizio; <i>Fort Knox</i> appoggia cori e vocalizzi sparsi su
un'intelaiatura ritmica che suona decisamente rock, ma che nello
sviluppo lascia trapelare la visione “sequenziale” del produttore
David Holmes. A conti fatti sarà proprio questo approccio bastardo
tra scrittura tradizionale e stesure che appartengono di fatto al
mondo elettronico una delle carte vincenti dell'album.
In
questo senso la prima conferma la offre <i>It's a beautiful world</i>, con
un beat che strizza l'occhio ai Prodigy del '97 - periodo storico che
coincide con la prima collaborazione tra Noel e i Chemical Brothers
(l'immensa <i>Setting sun</i>). Caso vuole che la successiva (e illuminante) <i>She taught me how to fly</i> ricordi proprio la vena psichedelica del duo
di Manchester - e già che stiamo parlando del celebre borgo inglese
parrebbe scorretto non citare in questo contesto anche i New Order e
i loro lunedì blu.</div>
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Il
lato A del vinile termina così, e finora la voce di Noel (quasi
sempre trattata) si è fatta largo sgomitando in mezzo a una
moltitudine di strati sonori composti da chitarre, synth e pure
qualche fiato. Girando il disco parte <i>Be careful what you wish for</i>, e
nella mia testa si materializza il sorriso beffardo di chi da sempre
viene accusato di / idolatrato per avere saccheggiato i Beatles e
con strafottente tranquillità risolve la questione proponendo una
sua personale rivisitazione di <i>Come together</i> (uscendone più che
bene). Il lento che tutti ci aspettiamo fa capolino poco dopo, ma è
soltanto un interludio; per una ballad a tutti gli effetti bisogna
aspettare l'imponente title track, che pur viaggiando a un ritmo
rilassato non rinuncia agli artifici sonori già descritti, in nome
di una ricercata coerenza stilistica.</div>
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Parlare
di sperimentazione a tutto tondo sarebbe inopportuno: <i>Who built the moon?</i> esplora territori già battuti da molti, senza inventare nulla.
Ma il fatto che uno dei più validi compositori che la storia del
rock recente ricordi decida di affidare la sua vena creativa a un
produttore nel quale crede talmente tanto da acconsentire di lasciare
fuori dalla scaletta alcuni brani solo perché troppo simili a ciò
che aveva già scritto in passato è segno di coraggio. Quel coraggio
che ogni svolta richiede, e che va moltiplicato per due quando tale
svolta non è espressamente richiesta.
Perché
diciamocelo: per quello che ha combinato in questo quarto di secolo,
Noel avrebbe potuto tenere buoni quei pezzi che sono finiti nel
cestino senza farsi troppi crucci. E invece ha preferito scegliere
una strada diversa, una strada che forse non gli appartiene del tutto
- ma che ha portato all'incisione di un disco solido e ispirato.
Forse non perfetto o imprescindibile, ma inattaccabile in quanto a
lucidità e impegno.</div>
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<span style="color: red; font-weight: bold;"><span style="color: red;">7.5/10</span><br /><br /><span style="color: purple;">Highlights: </span></span><span style="color: purple;">Holy mountain, It's a beautiful world, She taught me how to fly, If love is the law, The man who built the moon.</span><br />
<span style="color: purple;"><br /></span>
<span style="color: purple;"><br /></span></div>
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<iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/ZNqADIBkovA" width="560"></iframe>Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-92145838492439103972017-10-07T17:00:00.000+02:002018-10-27T14:37:11.173+02:00Liam Gallagher - As you were (2017, Warner Bros.)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhxrrCNO9gB8tF_aorhERBDAHRr3ZbLIp54wCgjRkTFVH4Z3_ZnNAXJUkVP4W-BCFxDhEcQiuV4gFGEzNs18i8eZCnml4VbxmB5R5IsGjDG2cWcuPoUgV84P9pI9IdH6RitFW0F/s1600/R-10963021-1511460512-2586.jpeg.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="598" data-original-width="599" height="199" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhxrrCNO9gB8tF_aorhERBDAHRr3ZbLIp54wCgjRkTFVH4Z3_ZnNAXJUkVP4W-BCFxDhEcQiuV4gFGEzNs18i8eZCnml4VbxmB5R5IsGjDG2cWcuPoUgV84P9pI9IdH6RitFW0F/s200/R-10963021-1511460512-2586.jpeg.jpg" width="200" /></a></div>
Caro Liam, so che non te ne fregherà niente, ma devo confessarti che sono uno di quelli che nei derby di famiglia ha sempre parteggiato per tuo fratello. Appartengo alla fazione che sostiene che se Noel non avesse deciso di entrare a far parte della tua band avresti fatto molta più fatica a ad affermarti. Sei nato con un dono enorme, ma senza il talento di Noel a supporto non mi hai mai convinto. Sai, quella storia del pane e dei denti.<br />
<br />
Tuttavia, un paio di anni fa mi è capitato di sentire dal vivo <i>Champagne supernova</i> nel corso di un live di Noel, e devo ammettere che ho sentito la tua mancanza; ma non c'eri, perché mentre tuo fratello scriveva un paio di album dignitosi tu eri impegnato con i Beady Eye che – scusa la franchezza – non hanno lasciato alcun segno.<br />
<br />
E adesso mi guardi ostentando la tua proverbiale sicumera attraverso la copertina del primo disco a tuo nome. C'è da dire che non hai mai avuto problemi a metterci la faccia: per te è sempre stato facile. E sarebbe fin troppo facile da parte mia soffermarmi su ciò che non funziona in <i>As you were</i>: testi leggerini o senza grande senso, melodie prevedibilmente autoreferenziali (i più maligni non mancheranno di osservare qualcosa tipo: “...e quindi copiate”), un'estetica sonora volontariamente datata e senza una vera direzione.
Ma sei fortunato per almeno due ragioni. La prima è il famoso dono di cui sopra: ti trovo davvero in forma, Liam. Non ti sentivo cantare così da molto tempo. La seconda – molto personale, me ne rendo conto - è che alcuni di questi pezzi mi hanno scombussolato le viscere, andando a sfiorare le fragili corde della mia adolescenza.<br />
<br />
Allora nonostante sia costretto a soffocare un “<i>And so Sally can wait</i>” mezzo secondo prima che parta il ritornello di <i>For what it's worth</i>, le emozioni hanno il sopravvento e alla fine la canto comunque a squarciagola. Anche se dovrebbe essere illegale riprendere la metrica di <i>Supersonic</i>, tu te ne freghi e la incolli sulla strofa di <i>Greedy soul</i> (che poi sfocia in un ritornello insipido, ma la frittata nostalgica è fatta e continuo a cantare insieme a te). In mezzo a questi due brani piazzi <i>Paper crown</i>, riuscendo nell'incredibile impresa di farmi pensare per un attimo a David Bowie. <i>Wall of glass</i> è un singolo azzeccato, <i>Universal gleam</i> e<i> I get by</i> sono tanto banali quanto efficaci, <i>I've all I need</i> chiude con orgoglio.<br />
<br />
Sarò onesto Liam: non mi aspettavo nulla, e invece mi ritrovo con una manciata di pezzi gradevoli. Credevo di archiviare la questione con un paio di ascolti, ma mi accorgo di avere passato un intero pomeriggio tra skip e repeat. Continuo a sostenere che <i>As you were</i> “spolpato” da tutto quello che hanno rappresentato gli Oasis sia ben poco accattivante; ma d'altronde suppongo sia impossibile nascondere un passato così ingombrante. In più ci hai messo la faccia, e questo ti fa onore. Cheers, Liam.<br />
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<br /></div>
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<span style="color: red; font-weight: bold;"><span style="color: red;">6.5/10</span><br /><br /><span style="color: purple;">Highlights: </span></span><span style="color: purple;">Wall of glass, Paper crown, For what it's worth, Universal gleam, I've all I need.</span><br />
<span style="color: purple;"><br /></span>
<span style="color: purple;"><br /></span></div>
<iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/SDrPghDvYA4" width="560"></iframe>Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-22009598.post-74310259485640650782017-09-26T12:27:00.002+02:002018-10-27T14:41:33.522+02:00The Killers - Wonderful wonderful (2017, Island)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi5gD9L8n0VH3m57woKjJ2wNr-6RraKOtxc3NVTvKh_R4JJPqNBdBjwJLKF085CAhzmB7NQRRZMFXN3xPg6gTUiwjL2UCi5iEW79J_uoodBDxtAzVrrVJgY7wFuVtxj1ehMYRCA/s1600/R-10880244-1506141647-4018.jpeg.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="600" data-original-width="600" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi5gD9L8n0VH3m57woKjJ2wNr-6RraKOtxc3NVTvKh_R4JJPqNBdBjwJLKF085CAhzmB7NQRRZMFXN3xPg6gTUiwjL2UCi5iEW79J_uoodBDxtAzVrrVJgY7wFuVtxj1ehMYRCA/s200/R-10880244-1506141647-4018.jpeg.jpg" width="200" /></a></div>
Non è colpa mia se quando sento pronunciare Killers mi scatta automaticamente in testa un roboante <i>“Coming out of my cage / And I've been doing just fine”</i>. D'altra parte se ti presenti al mondo esibendo un pezzo immenso come <i>Mr. Brightside</i> il rischio di non riuscire nell'impresa di ripeterti al 100% è altissimo. Correva l'anno 2003. <i>Hot fuss</i> era il manifesto dell'energia di una band che voleva fare sentire la propria voce e che – sebbene recuperando dal passato con metodo alla stregua di altri gruppi di quel periodo lì – riusciva ad eccellere sprigionando una notevole freschezza. La popolarità dei ragazzi di Las Vegas è perfino salita via <i>When we were young</i>, per raggiungere l'apice con un trionfo pop del calibro di <i>Human</i> (per i critici l'inizio del declino, per le masse l'occasione più ghiotta per conoscerli). Ma dopo <i><a href="https://marcorigamonti.blogspot.com/2009/03/killers-day-age-2008-island-records.html" target="_blank">Day & age</a></i> il giocattolo scricchiola: una pausa, Flowers che ci prova da solo ed ecco arrivare <i><a href="https://marcorigamonti.blogspot.com/2013/05/the-killers-battle-born-2012-island.html" target="_blank">Battle born</a></i>, universalmente riconosciuto come l'album più inoffensivo della carriera dei Killers.<br />
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Mi avvicino a <i>Wonderful wonderful</i> con un approccio a metà tra leggera sfiducia e rovinoso pessimismo, e al termine dell'ascolto vengo rapito dallo sconforto. Sarebbe davvero troppo facile ironizzare sulla vena creativa del quartetto facendo leva sull'aberrante titolo dell'album o sul comodo assist fornitomi dal brano finale (che si chiama <i>Have all the songs been written?</i>), quindi decido di mantenere la calma. Prendo un bel respiro e pure un metaforico cancellino con il quale elimino dalla mia personale lavagna mentale i Killers di inizio millennio, riponendo con premura le varie <i>Somebody told me</i>, <i>Change your mind</i> e <i>For reasons unknown</i> in un cassetto: lasciamo il passato al suo posto. Quando premo play per la seconda volta mi accorgo che in fin dei conti qualcosa da salvare c'è.</div>
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Se la title-track non possiede proprio nulla di Wonderful, la sostenuta<i> Run for cover</i> si fa ballare di gusto con annessi assentimenti convinti di capo. Laddove <i>The man</i> lascia quasi indifferenti nel suo scimmiottare inefficacemente il funk sintetico anni 80, <i>Tyson Vs. Douglas</i> rende un onesto tributo a certi stilemi di epoca New Wave. Per una ballad finale soporifera c'è una <i>Life to come</i> che va a ripescare l'istinto armonico primordiale dei Killers, strappando un degno consenso. Il resto rasenta la noia: <i>Rut</i> se la cava pur essendo un tantino ridondante in quanto a capricci nostalgici, <i>Some kind of love </i>e <i>Out of my mind </i>provocano sonori sbadigli e <i>The calling</i> finisce presto nel dimenticatoio senza incontrare resistenze.</div>
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<i>Wonderful wonderful</i> porta con sé due notizie, una buona e l'altra cattiva. Quella buona è che <i><a href="https://marcorigamonti.blogspot.com/2013/05/the-killers-battle-born-2012-island.html" target="_blank">Battle born</a></i> per ora rimane senza dubbio il momento più basso della carriera della band, perché in questo disco ci sono tre o quattro brani azzeccati. La brutta notizia è che tre o quattro brani sono ancora troppo poco per affermare che i Killers si stiano definitivamente riscuotendo dalla nebbia di torpore che li avvolge da quasi dieci anni. Rimandati a un altro Settembre. <br />
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<span style="color: red; font-weight: bold;"><span style="color: red;">5.5/10</span><br /><br /><span style="color: purple;">Highlights: </span></span><span style="color: purple;">Rut, Life to come, Run for cover, Tyson Vs. Douglas.</span><br />
<span style="color: purple;"><br /></span>
<span style="color: purple;"><br /></span></div>
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<iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/XO7JGfqPB0s" width="560"></iframe>Marco Rigamontihttp://www.blogger.com/profile/01695516973848402226noreply@blogger.com0