11.15.2018

Smashing Pumpkins - Shiny and oh so bright vol.1 (2018, Napalm Records)

Nel giorno del suo quarantottesimo compleanno, James Iha sale a sorpresa sul palco di Los Angeles dove si stanno esibendo gli Smashing Pumpkins. È il 26 Marzo del 2016, e James non suona insieme a Billy Corgan e Jimmy Chamberlin dai tempi del famoso conflitto tra amici e nemici della musica moderna (Machina II), preambolo dello scioglimento della band e inconsapevole profezia dell'imminente catastrofe («Ai tempi credevo che regalare un disco fosse una provocazione, ma non mi aspettavo che sarebbe diventata la regola, causando così il collasso quasi totale della discografia», confessa Corgan nel 2010). Ma dicevamo di Iha, che quella sera si piazza con nonchalance di fianco ai suoi ex-compagni e come se niente fosse suona Mayonaise, Soma e Whir. Una decina di anni prima James aveva rifiutato l'invito di Billy, vedendoci lungo: la reunion per Zeitgeist aveva convinto solo Chamberlain, che poco dopo aveva di nuovo salutato il suo amico Billy. Da quel momento in poi, Corgan aveva gestito la band a suo isterico piacimento, reclutando e licenziando musicisti senza soluzione di continuità. Poi, quasi dal nulla, l'apertura di James lo stuzzica: che sia il caso di riprovare a radunare il nucleo originale? Tra tweet e speculazioni varie, l'operazione riesce. L'unico tassello mancante è D'arcy, dapprima confermata e poi respinta perché “poco partecipativa”. Ma cerchiamo di essere positivi, perché per la prima volta in 18 lunghi anni 3/4 dei membri fondatori di una delle band più influenti degli anni 90 si ritrovano in uno studio per registrare un nuovo insperato capitolo insieme.

La pubblicazione di Shiny and oh so bright è talmente sconnessa rispetto alla storia (della band, ma forse della musica intera) che il sottotitolo “Nessun passato. Nessun futuro. Nessun sole” non stona affatto con la circostanza. Niente di nuovo sotto quel sole che a detta di Billy non esiste: siamo abituati alla sua visione apocalittica, e anche ai suoi arcaismi linguistici da mezzo poeta ottocentesco. A destare stupore, semmai, è l'esiguo numero di tracce che compongono il disco. Nonostante si tratti di un primo volume, fa strano constatare che la proverbiale loquacità del leader della band di Chicago si sia fermata a 8 brani per un totale di mezz'ora di musica, soprattutto considerando che intorno a Febbraio 2018 aveva dichiarato di essere al lavoro su 26 pezzi. Ma al di là dei numeri, a fare sognare i fan della vecchia guardia è stata un'altra voce. Quella inerente allo stile del nuovo disco, che secondo Corgan avrebbe rinverdito i fasti di Gish e Siamese Dream, tornando a puntare convinti sulle chitarre. Un'asserzione puntualmente sconfessata da Knights of Malta, che apre le danze con pianoforte, archi e cori quasi gospel. Intendiamoci, è un pezzo magnifico, che oltretutto alle mie orecchie suona freschissimo. Ma se proprio dobbiamo finire sulla giostra dei paragoni, è sicuramente meno accostabile alla rabbia degli esordi e più vicino alla maturità di Mellon Collie and the Infinite Sadness e Adore.

La conferma che il riferimento principale siano il terzo e il quarto lavoro delle zucche la trovo nella successiva Silvery sometimes (Ghosts), singolo dall'andamento palesemente “1979” responsabile del mio redivivo entusiasmo nei confronti di una band che credevo destinata a spegnersi lentamente senza più sussulti. Non che non abbia apprezzato il primo estratto Solara, anzi. Mi ha fatto pensare a un ibrido tra Bullet with butterfly wings e Fuck you (An ode to no one), con le dovute proporzioni e considerando che sono state scritte e arrangiate da un Billy neanche trentenne, mentre ora è un uomo di 50 anni. Spezzando con decise distorsioni una tracklist finora delicata, Solara non è l'unica sfuriata del disco: le fanno compagnia l'eccellente Marchin' on e la conclusiva Seek and you shall destroy, che sfortunatamente morde più nel titolo che nei fatti. Ma gli Smashing Pumpkins non hanno mai fatto affidamento unicamente su chitarre fragorose. A incantare ci pensano le sognanti Travels e Alienation (che sono anche i pezzi più lunghi dell'album) e la dolce With sympathy, che conta su un'interpretazione sentita di Billy Corgan.

Confesso che al termine dell'ascolto non ne ho abbastanza. Ingolosito da un lavoro nel quale avevo riposto molte speranze e conscio del fatto che si tratti di un album ispirato e prodotto ad arte (d'altronde la regia è di Rick Rubin), vorrei potere girare il disco e godermi il lato B. Ma siccome non si può avere tutto dalla vita, mi accontento di riascoltare l'album dall'inizio, riflettendo sulle prime parole di Billy. “Lo faremo succedere / Volerò per sempre / Piloteremo l'arcobaleno”. Sta succedendo davvero. Non posso sapere se il primo volume di Shiny and oh so bright rappresenti un inatteso guizzo d'orgoglio oppure un nuovo inizio. Ma il solo fatto che non sfiguri per niente al fianco di tasselli fondamentali della discografia degli Smashing Pumpkins è una notizia che mi riempie il cuore di gioia.

8/10

Highlights: 
Tutto.

11.09.2018

Muse - Simulation theory (2018, Warner)

Non più di un anno fa, Matthew Bellamy aveva sentenziato che i Muse non avrebbero più pubblicato album, concentrandosi invece solo sui singoli da dare in pasto alla rete. Sapete, i soliti discorsi: la fruizione della musica che è cambiata, le playlist, gli adolescenti che in linea di massima non hanno voglia di sorbirsi un disco dall'inizio alla fine, il crollo della soglia di attenzione degli ultimi tempi, eccetera. Qualche mese fa trapela invece la notizia che tutti i brani messi in circolazione in questi mesi, che sfoggiano un sound smaccatamente anni 80 e sono accompagnati da video che pescano a piene mani dall'immaginario della suddetta decade, convoglieranno in un disco. Un mezzo passo indietro? Uno stratagemma per fare parlare di sé anche nel momento “morto” tra tour e nuovo disco? Del semplice fumo negli occhi per confondere lo spettatore e poi colpirlo a sorpresa, scatenando un entusiasmo che in assenza di dichiarazioni e smentite non ci sarebbe stato? Qualunque sia il motivo del ripensamento, cari Muse, con me cascate male. Perché sono più retrò dei vostri filmati che ho intravisto su YouTube. Faccio parte di quella razza in via di estinzione che utilizza raramente lo streaming, e che aspetta ancora il lavoro completo per possederlo e archiviarlo solo dopo un ascolto attento. Mi piace giudicare l'opera nell'insieme, perché è l'unico modo per cogliere certe sfumature e magari scoprire che i brani meno strombazzati sono addirittura migliori rispetto a quelli divulgati in fase di promozione. E anche se mi avevate quasi convinto con la storiella dei singoli, vi aspettavo al varco. Perché nonostante vi sforziate di essere moderni, siete come me.

La conferma di quanto non siete cambiati ce l'ho appena scopro che il vostro ottavo album si chiama Simulation Theory. Un titolo assolutamente in linea con quelli del passato, che si soffermavano su ipotesi, teoremi e concetti vari. Questa volta, dopo il convinto ritorno alle chitarre di Drones che abbandonava le sperimentazioni del precedente The 2nd Law, vi siete buttati su sonorità decisamente più elettroniche, che forse chi non ha ancora capito quanto vi piace svariare farà fatica a digerire. Sento già urlare gli ex-fan allo scandalo, rimpiangendo i bei tempi in cui i Muse erano una Rock Band con la R e la B maiuscole. Suppongo che non ci sia bisogno che vi dica di lasciare parlare chi vi critica, perché non si può certo piacere a tutti, specialmente quando si parla di un'estetica che appartiene all'amata/odiata epoca delle spalline imbottite. Perfino io ho storto il naso sull'incipit di Something Human, perché quel suono non è solo anni 80, ma è pure tornato prepotentemente in voga nel pop “moderno”. Non ho intenzione di dilungarmi sulla presunta non-modernità del pop, perché ci sono fior di sociologi e musicologi che hanno analizzato a fondo il tema. Ma mi limito a fare una considerazione: se questo atteggiamento è in generale accettato e spesso esaltato, perché quando lo fanno gli altri va bene e quando lo fate voi no?

Per ciò che avete dimostrato nel tempo, mi sento in dovere di resistere alla tentazione di definire un brano pacchiano solo perché comincia come un riempipista di David Guetta. Non nego che il primo ascolto sia stato traumatico, ma dopo essermi ambientato ho capito che Something Human è un pezzo 100% Muse, solo che si presenta con un vestito al quale non ero abituato. Oltrepassato questo scoglio, che a mio avviso rimane il più difficile da superare, il resto è in discesa. Un po' perché vi siete presi la briga di aprire con un'opportuna dichiarazione d'intenti come Algorithm, capace di trovare un equilibrio perfetto tra la vostra nota epicità e il timbro dei macchinari analogici di cui vi siete invaghiti. Un po' perché pezzi come Propaganda e Dig Down non risulteranno così strampalati alle orecchie di chi ha apprezzato Madness. Per quanto riguarda numeri come Pressure e Thought Contagion, dove la componente elettronica è meno invasiva, il problema proprio non si pone. In questo senso il compromesso ideale è probabilmente The Dark Side, dove armonie e melodie familiari vanno a braccetto con strumenti che appartengono (in teoria) a territori lontani dal vostro stile. Ma visto che ho utilizzato questa parola, colgo l'occasione per riciclarla con un'accezione diversa: che stile, quell'assolo.

A costo di sembrare ingenuo, sono ancora convinto che al di là di suggestioni temporanee, mode del momento e pura apparenza, quello che a conti fatti rimanga sia la musica. E francamente me ne frego se lo sforzo richiestomi dai Muse derivi da un sincero desiderio di esplorare nuovi terreni oppure non sia altro che il frutto di una furba trovata commerciale che punta a qualche oscura strategia di riposizionamento. Simulation Theory è un disco solido, partorito da una band che raramente ha fatto passi falsi in carriera. Un trio che in quanto a scrittura non tradisce mai e che nel tempo ha dimostrato di avere talento da vendere, confermando il proprio valore sui palchi del mondo intero. A proposito: chi è talmente allergico a queste sonorità da non riuscire a sopportare l'album ha per caso pensato di mettere a confronto un'esibizione dal vivo di uno dei tanti progetti tutto fumo e poco arrosto degli anni 80 con un live dei Muse? Questo è solo uno dei modi per sottolineare quanto lo strumento conti fino a un certo punto. E' il modo in cui lo utilizzi che fa la differenza.

7.5/10

Highlights: 
Algorhithm, Th dark side, Something human, Thought contagion, Get up and fight, Dig down.

11.08.2018

Coldplay - A head full of dreams (2018, Doc.)


Alle 9 in punto maledico prima la sveglia e poi me stesso per avere fatto troppo tardi ieri sera. Apro gli occhi realizzando che il malvagio strumento ha interrotto un sogno di cui ricordo solo frammenti sparsi, ma che mi stava lasciando una sensazione tutto sommato positiva. Colgo dunque l'occasione per ri-maledire la sveglia mentre il mio cervello comincia a mettere a fuoco il motivo che mi ha spinto a riposare 5 ore scarse: oggi è il giorno dell'anteprima di A head full of dreams, il lungometraggio che celebra la carriera dei Coldplay. Provo ad essere poetico, considerando che passerò da un sogno a una testa che in teoria di sogni è piena. Tento di auto-motivarmi considerando che ha smesso di piovere, e che quindi risparmierò le imprecazioni che provoca il traffico di Milano in una giornata uggiosa. Ma non c'è proprio nulla da fare: non ho molta voglia di assistere alla proiezione della storia di una delle mie ex-band preferite. 

 Non penso che i Coldplay abbiano tradito le attese, perché solo un pazzo potrebbe sostenere una tesi simile. Passare una camera da letto adibita a sala prove a un tour negli stadi con più di 5 milioni di biglietti venduti nel giro di vent'anni scarsi non è roba da niente. Il loro valore è francamente incontestabile. Semplicemente, quando le loro scelte stilistiche non combaciavano più con i miei gusti personali, ho dato una pacca sulla spalla a Chris Martin e soci con grande rispetto e ho smesso di aspettarmi qualcosa in grado di farmi provare le emozioni di Parachutes e A rush of blood to the head. Un po' come quando ti accorgi che non hai più moltissimo da condividere con il tuo amico d'infanzia, quello che ti ha accompagnato in un altro periodo della tua vita, e ti allontani in modo naturale senza serbare rancore. Questo è il motivo per cui non sono andato a San Siro l'estate scorsa, snobbando un concerto che molti miei amici avevano definito clamoroso.

 La pellicola si apre proprio con i colori dell'ultimo tour, con quei quattro puntini che si dimenano sul palco dello stadio di Sao Paulo circondati da 100.000 anime urlanti munite di braccialetti fluorescenti. Uno spettacolo che avevo già intravisto in rete, ma che al cinema ha l'effetto immediato di fare vacillare qualcosa nelle mie convinzioni: che mi sia perso qualcosa? Ma no, i “miei” Coldplay sono quelli degli inizi. I ragazzi che al college ci vanno solo per trovare altri appassionati di musica con cui suonare e che si divertono a farsi riprendere da Mat Whitecross, un aspirante regista che incontrano prima di formare la band. Un amico vero, che un bel giorno si rende conto di avere in archivio più di 1000 ore di girato e si offre di fare una selezione e ricavare un film capace di raccontare l'intero percorso dei ragazzi di Londra. Inizialmente Chris non sembra entusiasta dell'idea. Ma dopo avere visionato alcuni clip, si rende conto che è il momento giusto per un'operazione simile. Perché se è sacrosanto pensare sempre al prossimo passo, certe volte è anche opportuno fermarsi a osservare tutto quello che è successo finora.

 Memore dell'ottimo Oasis:Supersonic, confido molto nella bravura di Whitecross. E faccio bene, perché la scelta di seguire un ordine cronologico avendo cura di saltellare tra presente e passato è vincente. Fa un certo effetto passare da Chris che si rivolge alla telecamera promettendo agli inesistenti spettatori del 1998 che nel giro di quattro anni sarebbero diventati una grande band alle immagini di un live del 2002. Così come è inevitabile sorridere paragonando il primo concerto in assoluto dei Coldplay agli stadi che brulicano di fan festanti. Sono testimonianze preziose, perché sottolineano quanto l'ironia di Chris (“Buon per voi che siete venuti a sentirci oggi, che non siamo ancora famosi come i Bon Jovi”) in realtà nascondesse un desiderio reale, un obiettivo da raggiungere, una voglia non comune di arrivare in cima. La netta sensazione è che il leader dei Coldplay sapesse già che in futuro quei filmati sarebbero stati utilizzati per celebrare il successo del suo gruppo. E il fatto stesso che ogni singola tappa sia stata ripresa meticolosamente rende la pellicola unica: si tratta della prima volta in assoluto che una band di fama mondiale può essere raccontata in questo modo, e non attraverso reperti raffazzonati qua e là, come fotografie sbiadite o ricordi di amici, parenti e collaboratori.

Tra momenti di euforia e i rari periodi no (l'allontanamento temporaneo di Will Champion, l'ispirazione che non arriva in X&Y e il divorzio tra Chris e Gwyneth Parltrow), quello che emerge del film è piuttosto chiaro: i Coldplay sono una famiglia. Da quando si sono incontrati hanno fatto tutto insieme. Il valore dei singoli componenti della band è senza dubbio inferiore rispetto a quello della squadra. Mat non ha mai smesso di seguirli, e perfino il loro primo manager Phil Harvey (da loro spesso definito il quinto membro della band) è un amico del college. E anche se ora sono diventati enormi, sembra che le cose non siano cambiate: la passione genuina di Chris che viene immortalato quando fa sentire per la prima volta The scientist ai suoi amici è la stessa che manifesta quando si ritrova a dare istruzioni a Beyoncé suonando quattro accordi su una tastiera in una camera da letto. Sono scene come questa che mi fanno ritrovare i “miei” Coldplay, che mi fanno pensare di essermi effettivamente perso qualcosa. Proprio perché sono stato un fan della prima ora, avrei dovuto essere tra i 117.000 di San Siro. A raccogliere frammenti sparsi di un sogno divenuto realtà, celebrando l’apice di una splendida carriera.


11.02.2018

The Prodigy - No tourists (2018, Take Me To The Hospital)

Ancora prima di premere play per iniziare l'ascolto di No Tourist, ho il presentimento che farò una fatica tremenda a non smarrirmi tra i ricordi. So bene che rievocare i fasti del passato non aiuta a valutare un disco nuovo in maniera lucida e oggettiva, ma non ci posso fare niente: il contributo fornito dai Prodigy alla musica elettronica (anzi, alla cultura elettronica) è così rilevante da impedirmi di scindere la band dagli anni 90, il periodo storico a cui viene generalmente associata. Ogni volta che mi imbatto nella loro ragione sociale, le copertine di Music for the Jilted Generation e The Fat of the Land si materializzano automaticamente nella mia testa, e qualsiasi sforzo di scacciarle risulta vano.
Sia benedetto il giorno in cui il trio composto da Liam Howlett, Keith Flint e Maxim Reality si è preso il carico di rappresentare la generazione abbandonata confezionando un vero e proprio manifesto che racchiudeva in 13 tracce l'essenza della scena rave. E che nessuno si azzardi a toccare l'album del 1997, uno dei crossover più potenti e riusciti della storia della musica, capace di sgomitare in classifica al fianco di boy band e icone pop con irruenza epica. Un'operazione che, purtroppo o per fortuna, non è più immaginabile nell'ecosistema musicale odierno, che normalizza qualsiasi tentativo di trasgressione attraverso una manciata di click.

È tutta colpa dell'ingombrante passato dei Prodigy se continuo ad esitare. Non nascondo che ho molta paura di rimanere deluso da questo album, perché in fondo continuo a sperare in qualcosa che al giorno d'oggi pare un'utopia: un suono nuovo. Un suono in grado di scioccarmi, di tirarmi un pugno in faccia e di lasciarmi al tappeto, esattamente come era capitato con The Fat of the Land. E invece, come previsto, la sessione di ascolto parte con il singolo Need Some1, che avevo già archiviato quest'estate nella cartella “Standard Prodigy”. Il che non significa che sia brutto, anzi: ben vengano synth maleducati, batterie grasse e stop & go tanto prevedibili quanto impeccabili nella costruzione. Esattamente come non disdegno il secondo singolo Light Up the Sky, che contiene almeno due auto citazioni: il riff principale riprende alcune note di Voodoo People, mentre il minuscolo break di chitarra richiama l'inconfondibile suono di Breathe. Rimango più freddo su We Live Forever, che alza il ritmo e fa affidamento su un hook elementare ma non certo memorabile, mentre la progressione discendente della title-track che saccheggia la coda di Closer di Nine Inch Nails incontra la mia totale approvazione. Apprezzo pure la violenza di Fight Fire With Fire, insieme al duo rap Ho99o9, ma dal mio punto di vista il confronto con Diesel Power (con Kool Keith) o con l'immortale Poison non regge.

Il copione non cambia con l'avanzare delle tracce. Mi ritrovo dunque a scuotere il capo al ritmo di Champions of London e Boom Boom Tap, ammettendo implicitamente che l'adrenalina qui non manca di certo. Ma nel frattempo il mio cervello continua a farsi i fatti suoi, trovando sempre e comunque riferimenti ai gloriosi tempi che furono. A quando assistevo con un ghigno a una mielosa cover di How Deep is Your Love firmata Take That che veniva spodestata in classifica dalla facinorosa Firestarter. All'impagabile soddisfazione di potere inserire Smack My Bitch Up all'interno di un dj set assolutamente commerciale in qualche locale fighetto di Milano. A quella supposta rivoluzione che, com'era intuibile anche se mi rifiutavo di uccidere il sogno sul nascere, non si è mai realmente compiuta. Perché per quanto i Prodigy facessero la musica giusta al momento giusto, i suoni erano comunque troppo audaci per durare in eterno. D'altronde la musica, come tutte le arti, deve fare i conti con i proverbiali cicli.

Nonostante i legittimi accorgimenti sonori per stare al passo con i tempi, quando senti una traccia del trio britannico la riconosci fin dalla prima flebile frequenza che raggiunge le tue orecchie. E No Tourist è un album decisamente più ficcante del precedente The Day is My Enemy, che a mio parere aveva esagerato con l'allineamento sonoro, rinunciando a una buona fetta d'identità. Un fattore necessario nel melting pot musicale odierno, ma purtroppo non sempre sufficiente per farsi notare. Se però una nuova rivoluzione ad oggi pare una chimera, tanto vale metterci la passione di un tempo e plasmare un suono riconoscibile e personale. E su questo non sono ammesse obiezioni: i Prodigy nel 2018 continuano a fare la musica “giusta”, la loro musica, quella che sanno fare meglio di tutti. Il problema, ammesso che si possa definirlo tale, è il contesto storico. Qualcuno sostiene che siano finiti da un pezzo, qualcun altro è convinto che siano ritornati in forma. Loro se ne fregano e vanno dritti per la loro strada, sbraitando e seminando caos. Io, seppur rimpiangendo i pugni in faccia che negli anni 90 hanno sconvolto in positivo il mio approccio alla musica, sto comunque con loro.

7.5/10

Highlights: 
Need some1, Light up the sky, No tourists, Timebomb zone, Champions of London, Boom boom tap.