3.26.2020

10 anni di I Mistici Dell'Occidente dei Baustelle


“Non angosciarti più / Che bisogno c'è?
Quando partono le rondini / Lasciale andare
Non domandare più / Che ragione c'è?
Quando passa il carro funebre / Fallo passare”

Comincia così L'Indaco, il primo pezzo del quinto album dei Baustelle. Le voci all'unisono di Francesco Bianconi e Rachele Bastreghi irrompono dopo quasi due minuti di introduzione strumentale, incitando un'agrodolce accettazione della realtà. Cosa potrebbe simboleggiare quel carro funebre che se ne va, spingendo il trio di Montepulciano a sconsigliare di porsi domande a riguardo? Forse il mercato discografico, che poi è il microcosmo in cui vivono, sempre più sull'orlo del baratro. Oppure un mercato ben più ampio: quello della società occidentale, che grazie alle sue regole impietose (e da un punto di vista strettamente umano poco sensate) è destinato prima o poi ad implodere.


“Sarebbe comodo / Andarsene per sempre / Andarsene da qui / Andarsene così”, recitavano le ultime parole del brano di congedo del disco precedente. Sarebbe senz'altro comodo, ma non servirebbe a risolvere il problema. Per questo un'affermazione come “Non è impossibile pensare un altro mondo”, timido barlume di speranza che affiora in Andarsene Così sul finale del disfattista Amen, diventa il mantra di I Mistici Dell'Occidente. O almeno, ci prova: “E non buttarti giù / Che in fin dei conti c'è / Un azzurro che fa piangere / Oltre le nubi”. Parole che suonano quantomai attuali nell'assurdo momento storico che stiamo vivendo, e che probabilmente in questi giorni ci ripetiamo l'un l'altro per farci coraggio. Ma parlare di profezia sarebbe sbagliato: dopotutto, Bianconi ha sempre dichiarato di volere soltanto osservare scrupolosamente la realtà che lo circonda, riversando i suoi pensieri nei testi delle sue canzoni. «Qui dentro ci sono le parole più ottimiste che abbia mai scritto – mi ha raccontato in un'intervista di dieci anni esatti fa, il giorno prima della pubblicazione di I Mistici Dell'Occidente – Sono convinto che in qualche modo ci salveremo. Magari “Disprezzando la realtà”, come dico nella traccia che dà il titolo al disco. Un'espressione che non vuole essere altezzosa: con “disprezzare” intendo suggerire che non è obbligatorio credere ai prezzi che vediamo in vetrina. Il valore non può essere misurato solo attraverso i soldi. Non è l'unico modo culturale possibile».


Una delle ragioni principali che mi hanno fatto innamorare dei Baustelle è il linguaggio che utilizzano, in perfetto equilibrio tra poesia e disincanto. Nei loro testi ho sempre trovato metafore azzeccate, osservazioni acute, disamine sincere e citazioni di alto livello; non ultima quella dell'omonima antologia curata dallo storico e filosofo Elémire Zolla (I Mistici Dell'Occidente, appunto). Nel libro del 1963 Zolla raccoglie gli scritti dei veri mistici e ne dà una sua interpretazione, ponendo l'accento in particolare sulla transitorietà della vita sancita da credi e religioni, che sottolineano quanto la la redenzione e la vera felicità si possano raggiungere solo alla fine del percorso terreno. Applicando a loro modo la lezione di Zolla, i Baustelle si cimentano in una sfida proibitiva: tentare di trovare rimedio al declino culturale della società moderna senza scivolare in composizioni didascaliche o asettiche. «Abbiamo preso in prestito solo il punto di partenza del ragionamento di Zolla – precisa Francesco – Anche se la nostra è un'ottica laica, crediamo che sia importantissimo provare ad immaginare altri metodi per organizzare questo mondo».


“Gentili ascoltatori, siamo nullità”; un modo carino e forbito per esprimere l'intolleranza alla macchina consumistica in cui siamo invischiati. Accuse che raggiungono l'apice della crudezza in La Bambolina, brano che descrive l'emancipazione illusoria della donna (“La bambolina (…) si espone in vetrina / si piega, si inchina / al tempo al potere / si guarda il sedere / È grassa, si sente così”), augurandosi che una divinità qualsiasi la salvi “Dai sogni e dai falsi bisogni” e la aiuti a ritrovare la libertà (“Non compri, non esca / Non cresca, sia vera”). Per eludere l'impatto negativo del materialismo forse basterebbe evitare di crescere. “Quel che impari dalla vita non è vero”, sentenzia Bianconi in San Francesco, chiarendo il concetto nella biografia della band: «A livello emotivo, la giovinezza è il periodo di maggiore felicità dell'uomo. Quando sei piccolo vedi nel tuo futuro mille mondi diversi tutti possibili, dal cowboy all'astronauta fino all'ingegnere o al musicista; poi gli interruttori delle opzioni cominciano man mano a spegnersi e si entra in un'altra dimensione».


Sfortunatamente, la strada dell'eterna giovinezza non è percorribile: non rimane dunque che rifugiarsi nell'amore. Quello puro de Gli Spietati, per esempio; “C'è un amore che non muore mai / Più lontano degli dei / A sapervelo spiegare / Che filosofo sarei”. O quello estremo e passionale - perfino sbagliato - che culmina nel crudo “Vamos a matar” di La Canzone Della Rivoluzione. «Nessuno vuole giustificare il ricorso alla violenza, ma in questi giorni di ristagno culturale c'è da rimpiangere le epoche in cui c'erano idee forti e la volontà di difenderle ad ogni costo». Non è un caso, dunque, che la contrapposizione tra amore e violenza faccia capolino ben 7 anni prima della pubblicazione del disco che porterà quel titolo. Fa tutto parte di un percorso che i Baustelle avevano iniziato nel 2000, esplicitando la propria immaturità senza vergogna nel titolo dell'esordio (Sussidiario Illustrato Della Giovinezza). Un percorso nel quale I Mistici Dell'Occidente viene però giudicato come qualcosa di molto simile al proverbiale passo falso.


Anche io, pur essendo un fan dichiarato, ho fatto una certa fatica a metabolizzarlo. Dopo il sorprendente La Malavita e il conclamato Amen, mi aspettavo la consacrazione definitiva; ma ho subito intuito che un disco simile non avrebbe mai sfondato, soprattutto per l'evidente carenza di singoli (gli unici due pezzi suonati dalle radio saranno Le Rane e la già citata Gli Spietati). È stata una delle prime domande che ho rivolto a Francesco quel 25 Marzo del 2010, ottenendo la risposta di chi sa di non potere fare altro che seguire onestamente il proprio istinto: «In un certo senso mi fa piacere che tu non abbia individuato dei singoli, ed è un punto di vista che condivido, trattandosi di canzoni piuttosto riflessive. Lo vedo come un atto di coraggio; se fai un mestiere creativo devi essere disposto a rischiare qualcosa, e noi lo siamo». Pur raggiungendo il traguardo di disco d'oro e sfiorando la Targa Tenco, I Mistici Dell'Occidente finisce così per essere catalogato come “il disco strano” dei Baustelle. Perfino i diretti interessati hanno ammesso che si trattasse di una sorta di piano B, registrato in attesa di dedicarsi ad un progetto orchestrale ben più ambizioso che in quel momento per varie ragioni non era possibile realizzare. Un album che però a posteriori si rivela prezioso, diventando l'ideale anello di congiunzione tra il rock di Amen e il folk sinfonico di Fantasma. Una ricerca lodevole, ma in parte incompiuta, della verità. Un lavoro che naviga senza vento, composto nella consapevolezza che il tempo ci sfugge, ma il segno del tempo rimane.

2.29.2020

20 anni di Machina degli Smashing Pumpkins


In occasione del ventesimo anniversario del debutto degli Smashing Pumpkins, Billy Corgan annuncia di volere ripubblicare tutti i dischi che hanno definito la prima era della band di Chicago. La promessa viene mantenuta: tra il 2011 e il 2012 spuntano le rimasterizzazioni di Gish, Siamese Dream, Mellon Collie & The Infinite Sadness e perfino di Pisces Iscariot, raccolta di b-side e outtake talmente ben riuscita da guadagnarsi la reputazione di un vero e proprio album. Ma nel 2014, quando arriva il turno di Adore e Machina, Corgan dichiara che la ristampa dell'ultimo tassello subirà un ritardo a causa di questioni legali. Purtroppo la risoluzione degli impicci burocratici non porta a nulla di concreto: la riedizione incontra un nuovo ostacolo nelle elucubrazioni mentali di un Billy intenzionato a presentare il disco nella sua versione definitiva, quella che non era riuscito a realizzare pienamente nel 2000.


La performance iniziale di Machina/The Machines Of God, che esce il 29 Febbraio del 2000, è tutt'altro che negativa: nella prima settimana raggiunge il podio sia in America che in diversi stati d'Europa. A far suonare l'allarme, semmai, sono i singoli: The Everlasting Gaze e Stand Inside Your Love non replicano il successo di Ava Adore e Perfect, che peraltro avevano già rappresentato una brusca frenata rispetto a due assi pigliatutto come Bullet With Butterfly Wings e 1979. Machina scivola così troppo presto nell'oblio, sancendo la fine commerciale degli Smashing Pumpkins. Un declino in qualche modo prevedibile, visti i continui cambi di line-up; al nuovo reclutamento di Jimmy Chamberlin, precedentemente allontanato per problemi di droga, fa da contraltare l'addio di D'Arcy Wretzky. Il posto della bassista, nei video e nei concerti, lo prende l'ex-Hole Melissa Auf der Maur. Ma il 23 Maggio del 2000 Billy Corgan annuncia pubblicamente che dopo il tour gli Smashing Pumpkins si congederanno definitivamente dalle scene, lasciando un ultimo regalo in free download ai fan (Machina II/The Friends And Enemies Of Modern Music).


«In quel momento non potevo accettare che il pubblico non riuscisse a capire Machina – rivela Billy in un'intervista del 2014 – Ma ora sì. Nonostante i miei amici musicisti e molti critici musicali l'avessero apprezzato, per la maggior parte degli ascoltatori era un disco alieno e scuro, troppo difficile da digerire. Quando si parla di musica pop, ci deve sempre essere un elemento che stimola chi ascolta ad approfondire. E Machina, sia ai tempi che per come esiste ora, si comporta in modo diametralmente opposto: non ti invita all'ascolto, ma ti tira un pugno in faccia e si aspetta che tu stia zitto e buono a sorbirtelo per due ore. Non è stata una scelta saggia, e mi prendo tutte le responsabilità del caso».


Eppure, il progetto Machina era cominciato all'insegna di una visione ben precisa: l'approccio teatrale, con tanto di maschere volutamente esagerate, era stato pensato come reazione al modo in cui i componenti della band venivano descritti dalla stampa e percepiti dal pubblico. Una decisione che amplifica il discorso iniziato ai tempi di Mellon Collie, quando Billy aveva ucciso metaforicamente la sua identità rasandosi i capelli e indossando una maglietta con la scritta “Zero”. Così, come reso esplicito dallo straniante interludio nel bel mezzo di Glass & The Ghost Children, il protagonista principale sente la voce di un'entità suprema parlare attraverso di lui. In quel momento cambia il suo nome in Glass e quello della sua band in The Machines Of God, mentre i fan partecipano alla storia sotto le spoglie di Bambini Fantasma (The Ghost Children). Le premesse per scrivere un disco intrigante ci sono; ma tra la band che si sfalda e l'etichetta che si rifiuta di pubblicare e promuovere un album doppio in seguito al “fallimento” di Adore, il grande disegno viene per forza di cose ridimensionato.


In questo terremoto, vale la pena sottolineare un particolare interessante: anche se le contingenze scombinano i piani, l'idea di distacco che Corgan aveva originariamente in testa sopravvive eccome. Perché «C'è qualcosa di perfetto nel non curare ogni singolo dettaglio di un'opera, e permettere alla sincronicità di mostrare la via». Prendendo in prestito il concetto introdotto dallo psicanalista Carl Gustav Jung nel 1950, che descrive un legame tra eventi connessi che avvengono in contemporanea senza influenzarsi a vicenda, Billy trova il modo di giustificare Machina. «Quel disco è stato inciso poco prima del crollo disastroso dell'industria discografica. Pur rendendoci conto che stava accadendo qualcosa, non ci siamo tutelati consciamente; pensavamo di essere un semplice ingranaggio di un sistema che prima o poi avrebbe dovuto fare i conti con la rivoluzione digitale. Osservare il passato, a giochi fatti, è sempre facile; ma in quel momento storico ci sentivamo persi in una terra di mezzo, in balia di forze sconosciute che non riuscivamo a decifrare. E abbiamo deciso di rischiare il tutto per tutto». Una sensazione che Corgan aveva già avvertito nel 1998, rifiutandosi di replicare la formula di Mellon Collie per assecondare i propri stimoli, lasciando in secondo piano i discorsi legati al possibile gradimento del pubblico e delle major.


Sia nel caso di Adore che in quello di Machina, ha prevalso l'istinto; ma pur ammettendo che in entrambi i casi i numeri non gli hanno dato ragione, Billy non ha rimorsi. «Adore è il nostro album più significativo: rappresenta lo sganciamento dalla volontà di finire su MTV a tutti i costi, e il desiderio di gettarsi a capofitto nel vuoto, seguendo un'ispirazione personale. Machina è molto più confuso, ma suona incredibilmente moderno oggi. Per questo non voglio sprecare l'occasione di terminarlo fuori tempo massimo, di sviscerare tutto quello che mi passava per la testa in quel periodo e riproporlo in una versione più limpida. E soprattutto, completa». L'interminabile silenzio che avvolge il mistero della ripubblicazione di Machina è stato recentemente rotto dai risoluti “yes” di Billy Corgan in risposta alle domande dei fan durante un Q&A su Instagram. Ma ad oggi, non è stata ancora rivelata una data precisa. «Si tratta di un album avulso dalla nostra carriera, che sembra non essere mai uscito veramente. Per cucire attorno a Machina un contesto adeguato, e fare sì che venga finalmente considerato parte della discografia degli Smashing Pumpkins, serviranno tempo e pazienza». Domani si festeggia il ventesimo compleanno di Machina: che possa essere il giorno giusto per riscoprirlo a dovere? Chi lo sa. Quando c'è di mezzo l'istinto di Billy Corgan, ogni sorpresa è lecita.

2.18.2020

Viva gli artisti che fanno come gli pare: Damon Albarn


Dopo il beat preoptente di Born Slippy degli Underworld, scelto come sfondo per le promesse finali di un Mark Renton intenzionato a rigare dritto e scegliere la vita, sui titoli di coda di Trainspotting spunta un valzer bizzarro. Si intitola Closet Romantic, ed è a tutti gli effetti l'esordio discografico da solista di Damon Albarn. Un ragazzo ventisettenne che già all'epoca, mentre con i suoi Blur cercava di contendere agli Oasis lo scettro della miglior band britpop, mostrava chiari segnali di quanto il suo istinto esploratore non ne volesse sapere di rimanere rinchiuso nel recinto del rock.


Oggi, a quasi un quarto di secolo dall'uscita dello storico film di Danny Boyle, i progetti concepiti dalla mente di Albarn non si contano. In primis, i Gorillaz: sei album all'attivo e il recente annuncio della serie audiovisiva Song Machine, distribuita in episodi sparsi, come a riflettere la schizofrenica rapidità di un mondo in continua evoluzione. E i The Good, The Bad & The Queen, insieme a Paul Simonon dei Clash, Simon Tong dei Verve e al pioniere dell'afrobeat Tony Allen. Ma queste sono soltanto le due realtà più note, perché la discografia di Damon pullula di progetti estemporanei e creazioni occasionali. Basta pensare ai Rocket Juice & The Moon, ennesimo supergruppo costituito insieme al fedele Allen e a Flea dei Red Hot Chili Peppers, O ai continui flirt con collettivi africani che hanno prodotto almeno tre dischi (Mali Music nel 2002, Kinshasa One Two nel 2011 e Maison Des Jeunes nel 2013). Giusto per non farsi mancare nulla, Albarn ha lavorato su varie colonne sonore e ha perfino realizzato un paio di opere teatrali.


Cercare di mettere ordine in una simile quantità di produzioni è un'impresa quasi impossibile. Ma forse l'ordine non è un criterio da prendere in considerazione quando si parla di un artista vulcanico, che ha un'innata predisposizione a collaborare, a rischiare e a mischiare continuamente le carte. «La prerogativa della musica rock è di non avere radici. Il rock è sperimentale per natura, e quando vuole trovare a tutti i costi la sua identità smette di avere un significato», sentenzia Damon nel 2003. Una considerazione che nel caso specifico serve a giustificare lo spiazzante Think Thank, ma che in generale descrive il suo pensiero artistico; dopotutto, non si può certo dire che i primi sei album dei Blur avessero seguito una formula sonora e compositiva ben definita. Se un alieno ascoltasse singoli come Girls & Boys, Song 2 e Tender, provenienti da tre dischi consecutivi pubblicati nel giro di 5 anni, farebbe fatica a trovare un inequivocabile filo conduttore. «A volte è difficile spiegare alla gente che stai facendo un percorso, e forse non sei ancora arrivato; ma non mi sono mai fatto problemi a presentare anche quella parte del viaggio. Senza la piena consapevolezza dei propri errori non si va da nessuna parte».


Sebbene sperimentare e sfidare continuamente i propri limiti e quelli della musica sia un principio sano e necessario per evolversi, qualcuno potrebbe obiettare che a farne le spese, di fronte a svolte continue e ad un numero così elevato di progetti ed intuizioni, possa essere la qualità. Un'argomentazione che a Damon interessa poco. «Io scrivo con le emozioni, è l'unica via che conosco. Faccio il cantautore perché voglio esprimere gioie e paure attraverso la musica. Nelle note c'è la mia vita». Un'urgenza che nel 1998 trasforma un'innocua conversazione con il fumettista Jamie Hewlett in una visione concreta. «I Gorillaz sono nati in un contesto meravigliosamente spontaneo. Stavamo cazzeggiando sul divano, e all'improvviso ci siamo chiesti se non fosse il caso di creare una band immaginaria. A quel punto Jamie mi ha detto che sarebbe andato nel suo studio a disegnare dei personaggi. Io gli ho risposto che sarei andato nel mio a scrivere musica, e che poi avremmo messo insieme i nostri lavori».


Uno dei motivi per cui Damon si ritrova a condividere un appartamento con Hewlett è la fine della sua storia con Justine Frischmann degli Elastica. Una relazione lunga e significativa, che tra l'altro l'aveva anche introdotto all'eroina. «Di ritorno da un tour, me la sono trovata pronta in salotto. E ho pensato: “Perché no?”». Damon ha raccontato più volte il suo rapporto con la droga, e l'argomento è tornato di moda ai tempi di Everyday Robots, il suo primo (e finora unico) album solista del 2014. “La stagnola e un accendino / (…) / Cinque giorni attivi e due giorni di pausa”, canta esplicitamente in You And Me, quasi a dedicare un tributo al periodo dell'assuefazione. Sebbene la parola tributo possa sembrare fuori contesto, Damon si è espresso in maniera sincera a riguardo della sua dipendenza: pur mettendo tutti in guardia rispetto all'abitudine malsana, sostiene di avere beneficiato degli effetti dell'eroina. «Non posso negare che mi abbia in qualche modo illuminato creativamente. Io l'ho vissuto come un esperimento; ma purtroppo questo esperimento se diventa routine ti può rubare la vita. Sono stato fortunato, perché non ho subito effetti collaterali negativi e mi alzavo ogni mattina con l'entusiasmo di fare musica. Inoltre, non ho nemmeno avuto bisogno della riabilitazione, perché l'ho trovata in maniera naturale andando a visitare l'Africa. In quel momento sono riuscito a percepire la vera libertà a mente lucida».


Come il Renton di Danny Boyle, a un certo punto Damon ha messo la testa a posto. L'importanza dei viaggi nella vita (artistica e non) di Damon Albarn è centrale. Tra le sue mete preferite c'è la Jamaica, oltre all'onnipresente Africa. Ma anche una terra diametralmente opposta per clima e posizione: l'Islanda. «Da piccolo sognavo spesso delle spiagge nere. Poi un pomeriggio, guardando una trasmissione sull'Islanda, ho notato che lì esistevano davvero. Così ho preso un aereo da solo e sono andato a vederle con i miei occhi». L'episodio risale al 1996, anno in cui i Blur incidono il quinto disco in parte a Londra, e in parte proprio nell'isola dell'Europa Settentrionale. Un'isola alla quale rimane legato, come dimostra la colonna sonora composta per 101 Reykjavik nel 2000 e il recente annuncio di un nuovo progetto orchestrale ispirato ai paesaggi islandesi (The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows).


Conviene rassegnarsi: stare dietro a tutto quello che combina quest'uomo è una vera sfida. Qualcuno potrebbe rimanere stupito dal fatto che in queste poche righe non abbia menzionato nomi enormi, come quelli di Bobby Womack (che si è rivolto a lui per produrre il disco del congedo definitivo), Massive Attack (con i quali ha collaborato a diverse riprese) e la parata di artisti che hanno contribuito alla causa dei Gorillaz (da Lou Reed ai De La Soul, da Neneh Cherry a Ike Turner, da George Benson a Snoop Dogg, da Jean-Michel Jarre a Mick Jones). Ci sarebbe un elenco a parte di illustri collaborazioni sfumate, nel quale svetterebbe il nome di David Bowie. Ma come già detto, fare ordine non è possibile quando si ha a che fare con un artista poliedrico e dinamico, che vive la musica giorno per giorno. «Quando apro la baracca, sono tutti i benvenuti. Le uniche condizioni che pongo sono un buon orecchio e l'apertura mentale. Sono cambiato rispetto a quando ero più giovane, ed ora vivo questo viaggio con più stabilità e maturità. Forse oggi mi muovo in maniera meno frenetica, ma non perderò mai la voglia di avventurarmi in territori che non conosco». A questo punto, i casi sono due: o sono io che non conosco il significato della parola “frenetico”, oppure qualcuno dovrebbe spiegarlo a Damon Albarn. «Ho imparato una cosa dalla vita: quando credi di essere arrivato, la meta cambia. L'unica cosa che posso fare è accettare questa regola e andare avanti».