12.31.2015

David Bowie - Blackstar (2016, RCA / Columbia)

Come un vero signore, due anni fa David Robert Jones offrì da bere a tutti il giorno del suo compleanno. E lo fece a sorpresa: senza alcun preavviso, l'8 Gennaio 2013 mi svegliai sulle dolci note di Where are we now, singolo che preannunciava un nuovo album di Bowie dopo 10 interminabili anni di silenzio. Fu un risveglio talmente intenso da arrivare a sfiorare la vivida emozione che prova un bambino quando apre gli occhi la mattina di Natale. Tra meno di un mese si brinderà ai suoi 69 anni, e questa volta il Duca Bianco ha già pianificato tutto: la festa verrà celebrata con il venticinquesimo disco di una carriera monumentale, infinita.

Se in linea generale parrebbe legittimo domandarsi cosa abbia ancora da offrire un musicista in attività da quasi cinque decadi, la questione non si pone con David Bowie. Un personaggio del suo calibro, che ha fatto del trasformismo e dell'eclettismo uno stile di vita, non deve fornire alcuna giustificazione: quando il momento non gli sembra opportuno si nasconde dai riflettori (ed è un professionista anche in questo campo), quando l'ispirazione ha la meglio entra in studio e sforna capolavori. Qualcuno potrebbe obiettare che nella mastodontica discografia di Bowie ci siano anche album che non si possono definire capolavori: ma – tolto il fatto che probabilmente non esistono artisti in grado di plasmare venticinque opere inappuntabili - per chi ama sperimentare la perfezione è un concetto estremamente relativo. Instabile. Forse giustamente inarrivabile. 

Il nuovo tassello della suddetta discografia non fa eccezione. Non si tratta di un disco facile, soprattutto per chi ha una conoscenza solo superficiale di Bowie: a differenza del recente – tutto sommato facilmente digeribile - The next day, per cogliere l'essenza di Blackstar è necessario avere compiuto un percorso grandioso, che si snoda lungo una carriera camaleontica. Una carriera che di frequente ha esplorato meandri ostici, rincorrendo (e spesso anticipando) il futuro. Ogni tanto la parola art-rock viene utilizzata alla leggera: nel caso del nuovo lavoro dell'Uomo Che Cadde Sulla Terra l'espressione calza a pennello. 

Come potrebbe altrimenti definirsi il meraviglioso “singolo” di 10 minuti spaccati (nota bene: è stato tagliato, perché iTunes non può vendere brani singoli che superino tale timing) che si avventura con risolutezza in digressioni, cambi di ritmo e soluzioni armoniche eccentriche? E' davvero giusto definirla semplicemente una canzone? Non sarebbe più appropriato servirsi del termine “Opera d'arte”? Gli altri brani che compongono Blackstar si collocano sulle stesse frequenze emozionali, a cominciare dal nuovo singolo Lazarus: è disorientante l'equilibrio tra dolore e speranza che trapela dal singolare mix di chitarre distorte, morbido piano elettrico, fiati voluminosi e un elemento totalmente fuori controllo (il sassofono, uno dei primi strumenti in grado di fare breccia nel cuore di Bowie). Lo stesso sax che stride e osa nella nuova versione di 'Tis a pity she was a whore, pezzo che insieme agli isterismi ritmici tendenti al jazz di Sue (or in a season of crime) (anch'essa reinterpretata per l'occasione) spicca per grinta e vitalità. "Girl loves me" punta su uno swing vacillante, lasciando al basso il compito di quadrare il ritmo e ai maestosi archi quello di emozionare, mentre Dollar days è una ballad agrodolce e lancinante, forse il momento più pulito dell'intero disco. I can't keep everything away è quello che si definisce un finale da brividi: il crescendo (con tanto di batteria trattata, armonica e solo di chitarra elettrica sullo sfondo) è di un'imponenza inaudita.

L'ascolto di Blackstar confonde e conforta. Ti lascia stordito, ti smuove qualcosa dentro e non sai di che cosa si tratta. “Dire di più e volere dire meno / Dire di no ma intendere si / Questo è tutto quello che ho voluto comunicare / Questo è il messaggio che ho voluto mandare”. Sono parole tratte dall'ultimo pezzo, che vanno accettate così, nella loro ferma incompiutezza. Parole che riecheggiano all'infinito nella testa di chi decide di sfidare l'ignoto e lasciarsi trasportare nel meraviglioso mondo di David Robert Jones. In alto i calici: buon compleanno, Duca Bianco.

8.5/10

Highlights: 
Tutto.


12.14.2015

Grimes - Art Angels (2015, 4AD)

La canadese Claire Elise Boucher è un tipetto singolare. Da bimba ha preso lezioni di balletto per 11 anni, poi ha optato per l'università puntando alla laurea in neuroscienze. Quando però ha deciso di dedicarsi alla musica (chiudendosi in studio per lassi di tempo interminabili come il più nerd dei produttori) l'ateneo ha cominciato a punirla per le sue assenze, fino ad espellerla dai corsi. Il suo primo album esce nel 2010 su cassetta (!!!), poi nel 2012 l'influente label britannica 4AD si accorge di lei e il terzo disco (Visions) assume i contorni della svolta: diverse testate specializzate osannano la sua musica, e Jay-Z decide di arruolarla nella sua Roc Nation. Claire – oggi ventisettenne - ha una faccia da bambina: pare assurdo pensare che abbia avuto un passato molto difficile a causa di assuefazioni varie, ma fortunatamente si tratta di un problema che ora sembra essersi lasciata alle spalle.

"Art angels" esce nell'ennesimo momento delicato della vita di Claire. In tempi recenti aveva accusato l'industria musicale di focalizzarsi troppo sulla sua vocina, evitando accuratamente di menzionare le sue doti tecniche; la convinzione che una ragazza non potesse mai raggiungere lo status di produttore (a suo avviso riservato a figure maschili) l'ha frustrata al punto di considerare l'opzione di rinunciare al suo progetto artistico. Ma come spesso capita, una volta toccato il fondo si è resa conto che avrebbe dovuto continuare a lottare: doveva difendere una causa importante, che andava oltre la musica. 

E meno male che ha trovato la forza di rialzarsi: perché oltre ad avere il dono di scrivere bene, Claire Boucher è anche una “produttrice” coi fiocchi. Mettendo da parte gli eccessi di sperimentazione che avevano caratterizzato i lavori precedenti, "Art angels" colpisce per come riesce ad essere diretto e al contempo illuminante. Alcune scelte spiazzano e divertono fin dal primo ascolto, come il grottesco (e geniale) cheerleading di "Kill V. Maim". l'uso fuori contesto del ritmo Diwali in "California" e quel gran casino di lingue, ritmi e stili che è "Scream". Altre soluzioni di arrangiamento paiono superficialmente revival, ma ci si mette poco ad accorgersi che nascondono un sorprendente modernismo ("Flesh without blood", "Realiti", "Artangels"). Non ci sono brani deboli (e questa è già una notizia da prima pagina), ma merita una menzione particolare il duetto con Janelle Monàe, un'altra delle "signorine alternative” più valide della nostra epoca: "Venus fly" provoca assuefazione.

"Art angels" è disseminato di colpi di genio, e non perde mai un'occasione per stupire l'ascoltatore; allo stesso tempo – grazie a qualche strana formula magica - rapisce con una facilità fuori dal normale. E' musica “diversa” per tutti. E' arte che scivola spontaneamente nel pop.

8/10

Highlights: 
California, Scream, Flesh without blood, Kill V. Maim, Easily, Realiti, Venus fly.


12.04.2015

Coldplay - A head full of dreams (2015, Parlophone)

Come preannunciato dalla poetica mossa dei poster affissi sui muri delle metropolitane di Londra un mese fa, ecco arrivare la fatidica data di release del settimo lavoro in studio dei Coldplay. «Di già?», chiede con eccitazione qualcuno (perché in fondo è passato poco più di un anno dall’uscita di Ghost Stories). «Ancora?», sbuffa distratto qualcun altro (e qui il pensiero va soprattutto ai fan della vecchia guardia che non hanno mai davvero digerito il percorso pop intrapreso da Chris Martin e soci). Io invece non so che domanda porre, perché mi colloco in una posizione intermedia: conosco a memoria i primi tre dischi (e li canticchio tuttora con convinzione sotto la doccia), ma allo stesso tempo non ho mai smesso di sostenere la band britannica in tutto quello che ha fatto. Accolgo dunque la notizia con moderato entusiasmo, e osservo pensieroso per qualche minuto il Fiore Della Vita che troneggia in multicolor sulla copertina di A Head Full of Dreams. Il primo ascolto mi disorienta. Decido di passare immediatamente al secondo, e visto che a livello cromatico la cover riavvolge il nastro a Mylo Xyloto (2011), vado a rileggermi quello che scrissi ai tempi, soffermandomi su queste parole: «Percorrendo una strada tutta loro (dal rock al pop) non si sono mai pentiti, ostentando una personalità forte, indistruttibile. Un fatto è certo: qualsiasi creazione nasca dalla mente di Chris è sigillata da una magica aura di credibilità». Mi piange il cuore, caro Chris. Sono già al quinto play, e sto provando in tutti i modi a cercare appigli. Ma non li trovo. A Head Full of Dreams rischia seriamente di sgretolare le mie certezze.

A dire il vero ho cominciato a sentire puzza di bruciato fin dalla mattina del 6 Novembre, giorno nel quale la Rete mi ha avvisato dell’uscita del singolo Adventure Of A Lifetime. E non perché fosse brutto, anzi. Ho subito colto il potenziale pop dell’arrangiamento disco e l’inattaccabile forza della melodia, però non mi siete sembrati sinceri: mi suonava come un inno alla felicità poco spontaneo. Nonostante i comprensibilissimi “up and down” di una carriera ormai quasi ventennale, è stata forse la prima volta che la mia anima non è stata nemmeno lontanamente sfiorata da un vostro pezzo. E il fatto che adesso lo reputi uno degli highlight di questo nuovo album rende il tutto molto preoccupante. Passi la leggerezza della title-track che apre le danze: può benissimo essere interpretata come mera introduzione, niente di male. Ma anche la successiva Birds – con quell’incedere veloce ma non ficcante della batteria di plastica e quella linea melodica dimenticabile – non ha lasciato alcuna traccia nel mio cuore. La decente Hymn For The Weekend mi riporta per ovvie ragioni di featuring a Princess Of China (sempre da Mylo Xyloto), ma mi è sembrata un’ottusa dichiarazione del tipo «Abbiamo fatto il pezzo pop con la numero due (Rihanna) e adesso lo facciamo con la numero 1 (Beyoncé)». Amazing Day è un pezzo che definirei “natalizio” (e no, non è un complimento), Army Of One e Up & Up sono dei trionfi di banalità. Faccio inoltre molta fatica a dare valore artistico ai campionamenti di Obama e del poeta persiano Rumi negli interludi Kaleidoscope e Colour Spectrum. Per concludere, a mio parere il punto più basso viene raggiunto con il pezzo “nascosto” X Marks The Spot (che parte dopo Army Of One). Ebbene, questa è senza dubbio la canzone che vorrei che non avessi mai pubblicato, Chris. Senza offesa: hai fatto bene a cercare di nasconderla.

Cosa rimane dunque? Un paio di ballad ben scritte come Everglow, con echi di Ghost Stories e dei Coldplay prima maniera, e Fun, con una Tove Lo che (in)canta. Rimane anche l’idea che quando ti affidi a chi è esperto del settore (in questo caso il duo norvegese Stargate, al lavoro su Adventure Of A Lifetime e Everglow) qualche risultato lo ottieni. Quando invece provi da solo a confezionare un prodotto da scaffale senza metterci la dovuta passione rischi parecchio, e devi mettere in conto anche un possibile fallimento. E se la tua band risponde al nome di Coldplay sai che le aspettative sono alte, giusto? E allora la domanda che mi sorge spontanea non è «Di già?» e neppure «Ancora?». La mia domanda è «Perché, Chris? Perché?».

5/10

Highlights: 
Hymn for the weekend, Everglow, Adventure of a lifetime, Fun.