5.29.2013

Tricky - False idols (2013, Studio !K7)

Frasi tipo “Non m’importa se questo disco piacerà o meno, io sono fiero di ogni singola traccia perché ho fatto esattamente quello che volevo” sarebbero quasi da abolire per manifesta banalità. Ma quanti musicisti hanno il fegato di aggiungere “Credevo che i miei ultimi due album fossero buoni, ma adesso capisco che non lo erano.”? Tricky, per esempio. Adrian Nicholas Matthews Thaws (come lo chiama l’anagrafe) è forse un po’ troppo duro con se stesso, ma in fin dei conti non mente; gli ultimi due dischi da lui menzionati ("Knowle west boy" del 2008 e "Mixed race" del 2010) avevano preso nettamente le distanze dal suo splendido buio poetico di inizio carriera. A dire il vero già da "Blowback" (2001) si poteva percepire un cambio di stile, ma allora c’era un’attenuante: il passaggio agli anni zero aveva portato via la tensione pre-millennio esplicitata nel suo terzo lavoro in studio, accendendo in lui la voglia di tentare di ampliare gli orizzonti e di sperimentare qualcosa di nuovo. Queste avventurose spedizioni in territori inesplorati avevano finito per contaminare le sue produzioni anche a livello sonoro; la sua musica era diventata più vivace, talvolta più veloce, di sicuro più luminosa. Oggi il musicista e attore di Bristol fa un passo indietro, e anche bello deciso. Riavvolge il nastro ai primissimi anni 90. A quando preferì seguire il suo istinto e registrare "Maxinquaye" insieme a una giovanissima Martina Topley-Bird (allora quindicenne) piuttosto che fare strada con il collettivo Wild Bunch (che poi si trasformerà in Massive Attack). "False idols" è la dimostrazione che quando Adrian Thaws agisce in maniera impulsiva - senza farsi condizionare da trend musicali, ragionamenti eccessivi o voglia di dimostrare il suo eclettismo a tutti i costi - i risultati sono encomiabili. Il grido di battaglia è "Nothing’s changed", con il testo che (auto)cita le parole di un capolavoro come "Makes me wanna die", quasi a reclamare quelle radici che sembravano perdute. L’anima del (defunto?) Trip-Hop risplende di nuova luce in "Nothing matters" e "If only I knew", dove Tricky si mette da parte e lascia spazio a ugole aggraziate. Torna magicamente a funzionare anche la formula che prevede l’accostamento dei suoi proverbiali sussurri drogati a parti melodiche femminili a fil di voce: accade nell’introduttiva "Somebody’s sins" (che rispolvera una Patti Smith d’annata), nella straniante "Tribal drums", nella grave "We don’t die" e nella più dinamica "Bonnie & Clyde". "Does it" è un sinistro gioiello minimale, il campionamento di Chet Baker in "Valentine" ha un che di pittoresco, mentre "Parenthesis" (con il falsetto di Peter Silberman degli Antlers) è l’unico brano in cui risulta vitale la presenza della chitarra elettrica - strumento forse abusato negli ultimi capitoli della discografia del santone del movimento di Bristol. Intendiamoci, il suono di "False idols" non è rude e sudicio come nei primi lavori di Tricky. Ma questo album è un ispirato tuffo nel passato, sia stilisticamente che concettualmente; è l’espressione delle vibrazioni oscure che vent’anni fa nascevano dall’unione di ritmiche Hip-Hop al rallentatore e influenze soul e jazz, elettronica sporca e intenzioni dub, bassi profondi e riverberi cavernosi. E’ un ritorno più che mai gradito.

8.5/10

Highlights: Somebody's sins, Nothing matters, Parenthesis, Nothing's changed, If only I knew, Is that your life, Tribal drums, We don't die, Does it.

5.26.2013

Phoenix - Bankrupt! (2013, Loyauté)


L’intento dichiarato in varie interviste pre-release era quello di sperimentare; non che la cosa meravigli, visto che l’approccio dei Phoenix è sempre stato in qualche modo fuori dagli schemi tradizionali della musica pop - anche se in passato alcuni loro brani si sono ritrovati nel mainstream quasi senza farlo apposta. Ad ascolto concluso tale proclama pare infatti esagerato: la vena melodica della band francese rimane sostanzialmente immutata, mentre semmai cambia un poco il modo in cui viene manifestata. Tanto per essere chiari, le prime tre tracce fanno leva su ritornelli cantabili e d’impatto immersi in arrangiamenti che trovano il giusto equilibrio tra ricordi ottanta e indie rock moderno; le influenze pseudo-orientali palesate nel singolo "Entertainment" e nella successiva "The real thing" incuriosiscono mischiando nostalgia e energia, mentre "Sos in Bel Air" sembra quasi un’evoluzione del pensiero new-wave degli A-Ha. Ogni intervallo di frequenza sonora viene imbottito e compresso allo spasmo, ma la confusione è evitata dall’abile lavoro di produzione affidato ancora una volta a Philippe Zdar dei Cassius (le alleanze francesi in campo musicale sono ben note, e nella maggior parte dei casi portano a ottimi risultati). Passando per una "Trying to be cool" che appare forse un po’ troppo piena e leggermente forzata, si arriva all’unico vero esperimento presente in "Bankrupt!", ovvero la title-track: si tratta di un’odissea che lascia parlare i synth per più di quattro minuti, per poi accogliere voce e chitarra acustica con un’intenzione progressive e concettuale, con tanto di fade out obbligatorio. "Drakkar noir" ci mette un attimo a ri-alleggerire umore e stile; manca perfino un’intro tanto è diretta, ma con i secondi che passano si evolve in un paio di repentini cambi di direzione e qualche piccola follia nell’arrangiamento a respingere l’ordinario. Da applausi l’elegante funk al rallentatore di "Chloroform", mentre la marcia di "Don’t" introduce un altro momento da ricordare del disco: la leggiadra e fatata "Bourgeious". I quaranta minuti che compongono il quinto album dei Phoenix si concludono sulle note di "Oblique city", che punta su un ritmo incalzante e una melodia che pur non essendo proprio facile riesce comunque a trascinare. Ci saranno ben poche probabilità di imbattersi in un estratto di "Bankrupt!" su qualche stazione radio; d’altra parte ci sarebbe da discutere su quanto questo fosse l’obiettivo primario dei Phoenix. Ma perché perdere le speranze a priori? Nel caso capitasse, sarebbe senz’altro un bene.

8/10

Highlights: Entertainment, The real thing, Sos in Bel Air, Bankrupt!, Chloroform, Bourgeious.

5.24.2013

Bibio - Silver Wilkinson (2013, Warp)


In bilico tra folk polveroso e avanguardia elettronica, il settimo lavoro in studio di Bibio lascia più respiro alla chitarra e alle timide melodie a fil di voce; meno funk e meno compressioni rispetto a "Mind bokeh" quindi, anche se una divagazione come "You" ribadisce la bravura di Mr. Wilkinson nel gioco del taglia e cuci.

8/10

Highlights: Dye the water green, Mirroring all, A tout a l'heure, You, Raincoat, Look at Orion!, You won't remember...

5.20.2013

Daft Punk - Random access memories (2013, Columbia)


Che nonostante le loro inseparabili maschere robotiche fossero umani (dopotutto) l’avevano già confessato con il terzo album del 2005; la conferma definitiva arriva oggi attraverso "Random access memories", che a giudicare dalla polvere sollevata più che un disco si può definire un vero e proprio evento. Non c’è tempo per esitazioni: il titolo del pezzo che apre l’album è "Give life back to music", e si tratta di disco-funk allo stato puro. Se non bastasse, le intenzioni serie di Thomas Bangalter e Guy de Homem-Christo si palesano in maniera ancora più evidente in "The game of love" (una ballad a tutti gli effetti, che si contrappone drasticamente al "Digital love" di "Discovery") e in "Within" (che inizia con un pianoforte, strumento a dir poco fuori dalla logica daftpunkiana). Del "Robot rock" alla "Human after all" rimane solo qualche detrito: nell’assolo del probabile secondo singolo "Instant crush" (con Julian Casablancas degli Strokes al microfono), nelle evoluzioni dell’ispirata "Giorgio by Moroder" e nei riff cosmici della conclusiva (ottima) "Contact". Ma è inutile girarci intorno: qui il ruolo primario spetta al funk, e con musicisti del calibro di Nile Rodgers, Nathan East e Omar Hakim sarebbe stato francamente difficile pensare a un risultato diverso. Pharrell Williams canta (bene) sul tormentone "Get lucky" e sull’affine "Lose yourself to dance", mentre Todd Edwars collabora in "Fragments of time", il brano che meglio sintetizza l’ambizione dell’album: ripescare le radici 70/80 filtrandole in chiave post-moderna, alla ricerca di un equilibrio perfetto tra passato, presente e futuro. In quest’ottica lascia senza parole l’interpretazione di una leggenda come Paul Williams in "Touch", pezzo dall’architettura sregolata che si snoda tra fiabeschi paesaggi ambient e momenti disco in una struggente altalena di emozioni. E il nostro Moroder? Non smanetta sui synth, ma racconta in prima persona la sua vita in musica nella già citata "Giorgio by Moroder". E nel climax recita una frase che fa più o meno così: “Nessuno mi insegnò le regole. Non c’erano preconcetti.” Che poi non è nient’altro che il segreto che si cela dietro alle maschere dei due robot più acclamati del music business.

7/10

Highlights: Give life back to music, Giorgio by Moroder, Within, Instant crush, Touch, Get lucky, Contact.

5.19.2013

Adapt - Atlántico (2013, Avantroots)


Come da intenzioni, "Atlántico" è profondo e liquido; un lavoro delicato, pulito ed evocativo.

8.5/10

Highlights: Tutto.

5.17.2013

The Killers - Battle born (2012, Island)


La band di Brandon Flowers si ritrova in studio dopo lo hiatus post "Day & age" con 5 produttori diversi e un album piatto e inoffensivo. La positiva "Flesh and bone" apre ingannando, perchè quello che viene dopo non è all'altezza delle vette raggiunte negli ultimi lavori; si salva il singolo "Runaways" e poco altro. Sebbene non si possa parlare di un disco brutto o fatto male, la sensazione che manchi qualcosa regna sovrana.

5/10

Highlights: Flesh and bone, Runaways, The way it was, Deadlines and commitments.

5.14.2013

Two Door Cinema Club - Beacon (2012, Kitsunè)


Pop-rock che trova un buon compromesso sonoro tra sintetizzatori e chitarre, si avvale di riff e melodie a presa rapida e sfoggia arrangiamenti efficaci; manca ancora un pizzico di personalità (e forse qualche singolo in più). 

6.5/10

Highlights: Next year, Sun, Sleep alone, The world is watching, Beacon.

5.07.2013

Slava - Raw solutions (2013, Software Records)


Beat nervosi, graffi e voci pitchate a loop; di melodia ce n'è, ma funge più da sfondo per le complesse (ma ordinatissime) architetture footwork del producer americano di origini russe.

7/10

Highlights: Werk, Heartbroken, Girls on dick, Girl like me, On it, How u get that.