11.30.2017

Noel Gallagher's High Flying Birds - Who built the moon? (2017, Sour Mash)

Talvolta le prime impressioni possono ingannare. Nonostante mi fossi rifiutato di considerare plausibile la somiglianza con una hit di Ricky Martin strombazzata in rete, quando qualche settimana fa ho ascoltato Holy mountain ho pensato che suonasse in modo strano e che non rappresentasse Noel Gallagher per come avevo imparato a conoscerlo in più di vent'anni di onoratissima carriera.
Ma ora – giunto al terzo ascolto integrale di Who built the moon? - quelli che mi sembravano campanelli d'allarme si sono trasformati in travi portanti di un'architettura pensata e voluta.

Il terzo disco di Noel e dei suoi Birds mette le cose in chiaro fin dall'inizio; Fort Knox appoggia cori e vocalizzi sparsi su un'intelaiatura ritmica che suona decisamente rock, ma che nello sviluppo lascia trapelare la visione “sequenziale” del produttore David Holmes. A conti fatti sarà proprio questo approccio bastardo tra scrittura tradizionale e stesure che appartengono di fatto al mondo elettronico una delle carte vincenti dell'album. In questo senso la prima conferma la offre It's a beautiful world, con un beat che strizza l'occhio ai Prodigy del '97 - periodo storico che coincide con la prima collaborazione tra Noel e i Chemical Brothers (l'immensa Setting sun). Caso vuole che la successiva (e illuminante) She taught me how to fly ricordi proprio la vena psichedelica del duo di Manchester - e già che stiamo parlando del celebre borgo inglese parrebbe scorretto non citare in questo contesto anche i New Order e i loro lunedì blu.

Il lato A del vinile termina così, e finora la voce di Noel (quasi sempre trattata) si è fatta largo sgomitando in mezzo a una moltitudine di strati sonori composti da chitarre, synth e pure qualche fiato. Girando il disco parte Be careful what you wish for, e nella mia testa si materializza il sorriso beffardo di chi da sempre viene accusato di / idolatrato per avere saccheggiato i Beatles e con strafottente tranquillità risolve la questione proponendo una sua personale rivisitazione di Come together (uscendone più che bene). Il lento che tutti ci aspettiamo fa capolino poco dopo, ma è soltanto un interludio; per una ballad a tutti gli effetti bisogna aspettare l'imponente title track, che pur viaggiando a un ritmo rilassato non rinuncia agli artifici sonori già descritti, in nome di una ricercata coerenza stilistica.

Parlare di sperimentazione a tutto tondo sarebbe inopportuno: Who built the moon? esplora territori già battuti da molti, senza inventare nulla. Ma il fatto che uno dei più validi compositori che la storia del rock recente ricordi decida di affidare la sua vena creativa a un produttore nel quale crede talmente tanto da acconsentire di lasciare fuori dalla scaletta alcuni brani solo perché troppo simili a ciò che aveva già scritto in passato è segno di coraggio. Quel coraggio che ogni svolta richiede, e che va moltiplicato per due quando tale svolta non è espressamente richiesta. Perché diciamocelo: per quello che ha combinato in questo quarto di secolo, Noel avrebbe potuto tenere buoni quei pezzi che sono finiti nel cestino senza farsi troppi crucci. E invece ha preferito scegliere una strada diversa, una strada che forse non gli appartiene del tutto - ma che ha portato all'incisione di un disco solido e ispirato. Forse non perfetto o imprescindibile, ma inattaccabile in quanto a lucidità e impegno.

7.5/10

Highlights: 
Holy mountain, It's a beautiful world, She taught me how to fly, If love is the law, The man who built the moon.


10.07.2017

Liam Gallagher - As you were (2017, Warner Bros.)

Caro Liam, so che non te ne fregherà niente, ma devo confessarti che sono uno di quelli che nei derby di famiglia ha sempre parteggiato per tuo fratello. Appartengo alla fazione che sostiene che se Noel non avesse deciso di entrare a far parte della tua band avresti fatto molta più fatica a ad affermarti. Sei nato con un dono enorme, ma senza il talento di Noel a supporto non mi hai mai convinto. Sai, quella storia del pane e dei denti.

Tuttavia, un paio di anni fa mi è capitato di sentire dal vivo Champagne supernova nel corso di un live di Noel, e devo ammettere che ho sentito la tua mancanza; ma non c'eri, perché mentre tuo fratello scriveva un paio di album dignitosi tu eri impegnato con i Beady Eye che – scusa la franchezza – non hanno lasciato alcun segno.

E adesso mi guardi ostentando la tua proverbiale sicumera attraverso la copertina del primo disco a tuo nome. C'è da dire che non hai mai avuto problemi a metterci la faccia: per te è sempre stato facile. E sarebbe fin troppo facile da parte mia soffermarmi su ciò che non funziona in As you were: testi leggerini o senza grande senso, melodie prevedibilmente autoreferenziali (i più maligni non mancheranno di osservare qualcosa tipo: “...e quindi copiate”), un'estetica sonora volontariamente datata e senza una vera direzione. Ma sei fortunato per almeno due ragioni. La prima è il famoso dono di cui sopra: ti trovo davvero in forma, Liam. Non ti sentivo cantare così da molto tempo. La seconda – molto personale, me ne rendo conto - è che alcuni di questi pezzi mi hanno scombussolato le viscere, andando a sfiorare le fragili corde della mia adolescenza.

Allora nonostante sia costretto a soffocare un “And so Sally can wait” mezzo secondo prima che parta il ritornello di For what it's worth, le emozioni hanno il sopravvento e alla fine la canto comunque a squarciagola. Anche se dovrebbe essere illegale riprendere la metrica di Supersonic, tu te ne freghi e la incolli sulla strofa di Greedy soul (che poi sfocia in un ritornello insipido, ma la frittata nostalgica è fatta e continuo a cantare insieme a te). In mezzo a questi due brani piazzi Paper crown, riuscendo nell'incredibile impresa di farmi pensare per un attimo a David Bowie. Wall of glass è un singolo azzeccato, Universal gleam e I get by sono tanto banali quanto efficaci, I've all I need chiude con orgoglio.

Sarò onesto Liam: non mi aspettavo nulla, e invece mi ritrovo con una manciata di pezzi gradevoli. Credevo di archiviare la questione con un paio di ascolti, ma mi accorgo di avere passato un intero pomeriggio tra skip e repeat. Continuo a sostenere che As you were “spolpato” da tutto quello che hanno rappresentato gli Oasis sia ben poco accattivante; ma d'altronde suppongo sia impossibile nascondere un passato così ingombrante. In più ci hai messo la faccia, e questo ti fa onore. Cheers, Liam.

6.5/10

Highlights: 
Wall of glass, Paper crown, For what it's worth, Universal gleam, I've all I need.


9.26.2017

The Killers - Wonderful wonderful (2017, Island)

Non è colpa mia se quando sento pronunciare Killers mi scatta automaticamente in testa un roboante “Coming out of my cage / And I've been doing just fine”. D'altra parte se ti presenti al mondo esibendo un pezzo immenso come Mr. Brightside il rischio di non riuscire nell'impresa di ripeterti al 100% è altissimo. Correva l'anno 2003. Hot fuss era il manifesto dell'energia di una band che voleva fare sentire la propria voce e che – sebbene recuperando dal passato con metodo alla stregua di altri gruppi di quel periodo lì – riusciva ad eccellere sprigionando una notevole freschezza. La popolarità dei ragazzi di Las Vegas è perfino salita via When we were young, per raggiungere l'apice con un trionfo pop del calibro di Human (per i critici l'inizio del declino, per le masse l'occasione più ghiotta per conoscerli). Ma dopo Day & age il giocattolo scricchiola: una pausa, Flowers che ci prova da solo ed ecco arrivare Battle born, universalmente riconosciuto come l'album più inoffensivo della carriera dei Killers.

Mi avvicino a Wonderful wonderful con un approccio a metà tra leggera sfiducia e rovinoso pessimismo, e al termine dell'ascolto vengo rapito dallo sconforto. Sarebbe davvero troppo facile ironizzare sulla vena creativa del quartetto facendo leva sull'aberrante titolo dell'album o sul comodo assist fornitomi dal brano finale (che si chiama Have all the songs been written?), quindi decido di mantenere la calma. Prendo un bel respiro e pure un metaforico cancellino con il quale elimino dalla mia personale lavagna mentale i Killers di inizio millennio, riponendo con premura le varie Somebody told me, Change your mind e For reasons unknown in un cassetto: lasciamo il passato al suo posto. Quando premo play per la seconda volta mi accorgo che in fin dei conti qualcosa da salvare c'è.

Se la title-track non possiede proprio nulla di Wonderful, la sostenuta Run for cover si fa ballare di gusto con annessi assentimenti convinti di capo. Laddove The man lascia quasi indifferenti nel suo scimmiottare inefficacemente il funk sintetico anni 80, Tyson Vs. Douglas rende un onesto tributo a certi stilemi di epoca New Wave. Per una ballad finale soporifera c'è una Life to come che va a ripescare l'istinto armonico primordiale dei Killers, strappando un degno consenso. Il resto rasenta la noia: Rut se la cava pur essendo un tantino ridondante in quanto a capricci nostalgici, Some kind of love e Out of my mind provocano sonori sbadigli e The calling finisce presto nel dimenticatoio senza incontrare resistenze.

Wonderful wonderful porta con sé due notizie, una buona e l'altra cattiva. Quella buona è che Battle born per ora rimane senza dubbio il momento più basso della carriera della band, perché in questo disco ci sono tre o quattro brani azzeccati. La brutta notizia è che tre o quattro brani sono ancora troppo poco per affermare che i Killers si stiano definitivamente riscuotendo dalla nebbia di torpore che li avvolge da quasi dieci anni. Rimandati a un altro Settembre.

5.5/10

Highlights: 
Rut, Life to come, Run for cover, Tyson Vs. Douglas.


9.04.2017

Lcd Soundsystem - American dream (2017, DFA / Columbia)

E' inutile che tenti di trovare dei giri di parole: io adoro le band che si prendono il proprio tempo. In un'epoca di algoritmi che favoriscono l'”adesso e ora” e dove notizie, eventi, opere ed emozioni vengono macinate a una velocità insostenibile trasformando istantaneamente l'eccitante presente in un banale passato, trovo confortante che esista ancora qualcuno che se ne freghi dei ritmi imposti dalla società e preferisca prendersi il tempo che serve per rifinire, curare e coccolare le proprie fatiche.
In questo senso la notizia che James Murphy a un certo punto abbia deciso di interrompere il percorso degli LCD Soundsystem per dedicarsi (tra le altre cose) alla creazione di una sua personale miscela di espresso è a dir poco meravigliosa. Da una parte c'è chi venderebbe la famiglia per azzeccare un singolo e cavalcarne l'onda; dall'altra c'è lui, che marchia a fuoco il suono di New York del ventunesimo secolo con tre dischi epici e poi decide che ha bisogno di una pausa caffè.

Passano quindi sette anni, e American dream – quarto album della formazione Newyorkese – si materializza nel mio hard disk al crepuscolo dell'estate sfoggiando una copertina talmente impresentabile che non potrebbe nemmeno ambire al ruolo di artwork provvisorio. Ma io – colto da un brusco quanto inaspettato slancio punk – la prendo bene, sperando in una corroborante vittoria della sostanza sulla forma.
E bastano le prime note della languida Oh baby per capire che mai speranza fu meglio riposta: il tempo si cristallizza, i secoli si confondono e questo immenso ritornello che si srotola in un cupo crescendo mi lascia inerme a fissare il vuoto, mentre nell'aria riecheggiano le lancinanti parole finali di Murphy (There's always a side door into the dark).
A tirarmi fuori da questo incantevole buco nero ci pensano il freddo funk psichedelico di Other voices, l'incedere risoluto di I used to e i virtuosismi dissonanti di Change yr mind, prima che i quasi 10 minuti dell'arrabbiato brano centrale del disco (How do you sleep?) mi catapultino in un sogno drogato senza uscita. Mentre intorpidito mi sto ancora godendo le ultime sbavature di synth zeppo di riverbero, i bassi di Tonite mi assestano uno schiaffo tremendo scaraventandomi in uno scantinato buio e sporco della Grande Mela, e intorno a me ci sono solo fumo e luci stroboscopiche. L'eclettismo è cosa buona e giusta quando sei un fuoriclasse.
Proprio quando credo che ora – soprattutto dopo una doppietta di questo calibro - sia giunto il momento di testimoniare un'inevitabile leggera flessione ispirazione, ecco materializzarsi il dritto rock sapientemente (auto)citazionista di Call the police, la perfetta ballad in sei ottavi che da il titolo all'album, il Post-Punk (con doppia P maiuscola) di Emotional haircut e il mastodontico, sconvolgente e definitivo finale.
Scorrono i titoli di coda, in sala cala il buio e faccio fatica a realizzare che le mie orecchie hanno appena ascoltato quello che senza dubbio si può definire un capolavoro moderno. Un'opera rifinita, curata e coccolata. Senza tempo.

8.5/10

Highlights: 
Tutto.


2.20.2017

10 band che piacerebbero oggi al cinquantenne Kurt Cobain


Corre voce che quel maledetto giorno di Aprile del 1994 Courtney Love abbia ritrovato sul piatto dell'impianto stereo di casa "Automatic for the people" dei R.E.M.. Fu l'ultimo album ascoltato da Kurt Cobain prima del fatidico colpo di fucile. Kurt adorava i R.E.M., al punto che pare fosse in programma l'incisione di un album acustico insieme a Michael Stipe. Conosciamo anche altri dettagli sulle sue passioni musicali, ed è opportuno aprire la lunga (e piuttosto eclettica) lista con i Beatles, magari sottolineando l'intuibile preferenza per Lennon (associata a un altrettanto logico disinteresse per la scrittura di McCartney). L'elenco prosegue con Queen, Led Zeppelin e Black Sabbath. E poi il punk, naturalmente: dai Clash ai Sex Pistols, dai Black Flag ai Bad Brains. Non dimentichiamoci inoltre dei Pixies, che Cobain aveva confessato di scopiazzare senza vergogna, o delle sue note infatuazioni per Melvins e Sonic Youth. Fin qui tutto scorre. A complicare le cose subentrano nomi come Kiss, Aerosmith e AC/DC – che a ben vedere non stonerebbero nella categoria di band tutte festa-sesso-amore tanto odiate dalla cricca grunge. E che dire di Fleetwood Mac e Electric Light Orchestra, gruppi con una spiccata inclinazione pop? Considerando tutti gli aneddoti a nostra disposizione la tabella potrebbe diventare ancora più intricata e gli indizi sempre meno chiari: il leader dei Nirvana aveva una testa tutta sua, e di conseguenza era attratto da artisti e stili musicali molto distanti tra di loro. Ma siccome mi piace farmi del male, oggi provo a rispondere a una domanda folle: che cosa ascolterebbe oggi, a 50 anni, Kurt Cobain? 


Foo Fighters


Sono decollato senza la minima idea di quale landa desolata possano toccare i miei piedi una volta a terra, quindi concedetemi un atterraggio morbido. Il link è evidente, scontato. Percepisco i vostri “Vabbè, grazie tante” in coro. E credo anche che sia sbagliato considerare i Foo Fighters come il “naturale proseguimento” dei Nirvana. Ma aggirando la spinosa questione “Quanto sarebbero girate le palle a Kurt Cobain se fosse ancora tra di noi e avesse dovuto testimoniare lo strepitoso successo del suo batterista?”, penso che le affinità genetiche tra le due band siano semplicemente troppo forti per essere ignorate. Ascoltate brani come "All my life", oppure "I'll stick around"; confesso di avere più volte messo in pratica il malsano esercizio di immaginarmeli cantati da Kurt. E adoro immaginare che pezzi come questi (ma sono solo due esempi, ce ne sono quanti ne volete) finiscano di quando in quando nel suo stereo lassù, accompagnati da espressioni di stima.


The White Stripes


Qualcosa mi dice che il metodo punk applicato al blues di Meg e Jack White sarebbe andato particolarmente a genio a Kurt. D'altra parte la sua interpretazione di "Where did you sleep last night" di Leadbelly nello storico Unplugged di New York (ma anche in molti altri live precedenti) rivela la sua passione per il blues e in qualche modo si avvicina al suddetto metodo, specialmente quando Kurt mette a dura prova le sue corde vocali urlando a squarciagola l'ultima strofa della canzone.


Weezer


Sono convinto che oltre a riferimenti musicali molto simili (Pixies, Beatles, Sonic Youth e Kiss), le personalità di Rivers Cuomo e Kurt Cobain condividano un tratto importante: l'emotività. La differenza sostanziale sta nel modo in cui la esprimono. Cobain incarna la quintessenza dell'eroe maledetto privo del benché minimo equilibrio, che alterna rabbia a ironia, alti a bassi, momenti di delirio festante a lunghi esili solitari. Cuomo è invece il nerd passionale cresciuto a fumetti e Dungeons & Dragons; segue una dieta vegetariana da una vita, ha dichiarato di essersi astenuto dal sesso per due anni fino al giorno in cui ha sposato l'attuale moglie e insegna meditazione (oltre a scrivere delle bellissime serenate power-pop). Il mio unico dubbio riguarda il peso che avrebbe avuto la marcata influenza dei Beach Boys nel giudizio di Kurt sulla musica dei Weezer, ma mi piace pensare che non sarebbe stato un ostacolo insormontabile.


Queens Of The Stone Age


Qui potrei ricevere la seconda ammonizione per “collegamenti scontati”, dal momento che Josh Homme conosceva i Nirvana e ha perfino dedicato una canzone a Dave e Krist dopo la scomparsa di Kurt (è una delle ghost-track incluse nell'ultimo disco dei Kyuss, la sua band pre-QOTSA). Ma suppongo che il carisma di Homme avrebbe fatto breccia nella sensibilità di Cobain, e l'ostentata ripetizione dei riff che scimmiotta la musica elettronica traslandola in ambito rock – uno dei tanti pregi stilistici dei Queens Of The Stone Age – avrebbe incontrato l'approvazione di Kurt.


The Shins


Con l'album capolavoro “Oh, inverted world” del 2001 hanno rinverdito l'immagine della Sub Pop Records, la storica etichetta di Seattle che stampò "Bleach" e divenne il megafono principale della scena grunge per poi eclissarsi (fino appunto all'avvento dei The Shins). Aldilà di ciò, alla compagine di James Mercer è attribuito il merito di avere colto l'essenza del pop/rock anni 60 riproponendola con un linguaggio moderno, così da renderla più digeribile anche per le nuove generazioni. Kurt avrebbe senza dubbio lodato entrambe le imprese.


Radiohead


“Non voglio fare la fine di Eric Clapton. Lo rispetto, ma non voglio modificare le canzoni per adattarle alla mia età”. E' una frase tratta da un'intervista a Kurt Cobain a pochi mesi dalla fine di tutto, un pensiero che covava un desiderio di freschezza e rinnovamento che per ovvie ragioni non trovò il tempo di concretizzarsi. Che poi coincide con il modus operandi di Thom Yorke e soci: evoluzione continua e sguardo rivolto sempre e comunque al futuro, infischiandosene dei fasti del passato e mettendo sempre in primo piano la voglia di sperimentare nuove strade in musica. Probabilmente Kurt non avrebbe mai svoltato in stile "Kid A", ma le sue parole certificano che è un'attitudine che avrebbe gradito eccome.


Savages


Sarebbe un peccato capitale non includere in questa lista almeno una band formata da ragazze (meglio se incazzate). Ricordiamoci di Miss Cobain (all'anagrafe Courtney Love), ma anche di Kathleen Anna, leader delle Bikini Kill nonché autrice della scritta “Kurt smells like teen spirit” apposta sul muro di casa Cobain con della vernice spray – frase che ispirò il titolo del pezzo che cambiò le regole del rock nei primi anni novanta. Nonostante le Savages prendano le distanze dalla definizione “riot grrrl”, il loro piglio punk sembra proprio in linea con il Kurt-pensiero.


Mogwai


Nel numero di Maggio del 1994 dell'autorevole rivista The Wire, il critico britannico Simon Reynolds coniò la definizione “Post-Rock”. Kurt se n'era andato un mese prima, e non si sarebbe mai confrontato con questa espressione e con tutti i dilemmi ad essa associati (quali band includere in tale genere). Sta di fatto che l'amore di Cobain per la sperimentazione con la chitarra (ascoltare le deliranti "Endless nameless" e "Gallons of alcohol flow through the strip" nascoste in fondo a Nevermind e In Utero) e la sua proverbiale predilezione per i chiaroscuro mi fanno credere che avrebbe senz'altro abbracciato con entusiasmo la scena. Avrei potuto optare per altre band (magari più estreme, anche considerando la registrazione del nostro insieme a William S. Burroughs), ma ho scelto i Mogwai perché a mio parere riescono a toccare le corde e le emozioni giuste, quelle che avrebbero fatto vibrare anche l'anima di Kurt.


Courtney Barnett


Che il nome di battesimo della Barnett coincida con quello della Love è pura fatalità; i motivi per cui includo la cantautrice Australiana in questa lista sono prettamente stilistici. Courtney scrive canzoni in equilibrio perfetto tra punk, pop e rock più classico (con marcate influenze blues). Inoltre sono convinto che Kurt si sarebbe ritrovato nella sua “impassibilità espressiva” (in inglese “deadpan”) e nel suo sarcasmo (vedi il titolo dell'album di debutto: “Sometimes I sit and think, and sometimes I just sit”).


Wilco


Folk in bilico tra classicismi rock e vena alternativa, scivolando talvolta in sperimentalismi vari: la ricetta di Jeff Tweedy e dei suoi Wilco mi sembra la perfetta concessione ai “momenti Fleetwood Mac” di Kurt Cobain.