9.10.2016

1991/09/10 - 2016/09/10: Venticinque anni di Smells Like Teen Spirit


Il 10 Settembre 1991 stavo per compiere 13 anni, e non sapevo chi fossero i Nirvana. Nel mio walkman si alternavano cassette dei Queen e dei Guns N' Roses, album degli AC/DC e dei Doors, qualcosa dei Kiss e degli Aerosmith. Poi - siccome in quel periodo storico faceva figo essere duri e arrabbiati - le copertine dei dischi degli iron Maiden e dei Megadeth mi convinsero a sottopormi a intense sessioni di ascolti Heavy Metal, che mi portarono alla convinzione di essere un vero metallaro. A quel punto, il passo da Metallica & affini a cose più estreme tipo Slayer e Sepultura fu praticamente obbligatorio. Ancora oggi non ho nessuna idea dei motivi per cui un ragazzino che prendeva lezioni di pianoforte classico e che aveva una spiccata predilezione per la melodia sentisse un bisogno impellente di “ribellarsi” ricercando un suono aggressivo e chiassoso. Non escludo – come già accennato – che i tempi e le mode abbiano giocato un ruolo chiave in questa scelta. Però andò così.

Eppure c'era qualcosa che non mi quadrava del tutto. Non solo lo sentivo dentro di me, ma era piuttosto palese. Ascoltavo "Ride the lightning" esaltandomi su "Fight fire with fire", ma in realtà aspettavo che il nastro arrivasse a "Fade to black". Andavo ai concerti Metal, ma mi limitavo a cantare e ascoltare, tenendomi a distanza di sicurezza dal pogo. E non mi passava nemmeno per la testa di indossare un chiodo e degli stivali. Insomma, c'era qualcosa di forzato nel volere ricercare a tutti i costi di aderire a una forma mentis che non mi apparteneva al 100%. Ma adolescenza fa spesso rima con testardaggine: piuttosto di mettere in dubbio le mie convinzioni, le scacciavo via e procedevo in direzione ostinata e contraria, finendo addirittura a comprare dischi di Death Metal puro – dove ci voleva parecchia immaginazione per scovare un abbozzo di melodia.

Poi un bel giorno un amico inserì nel mio stereo portatile il cd di Nevermind, e le note di "Smells like teen spirit" mi tramortirono. Era Metal? No, a quanto pare era Grunge, mi dissero. E che cos'era il Grunge? Non me ne importava nulla. Quel pezzo era perfetto stilisticamente, emotivamente e a livello sonoro. Perfetto. Era duro, ma la sua forza stava anche nella musicalità. Era incazzato nel modo giusto. Era così semplice da risultare assolutamente raggiungibile: neanche l'ombra di un tecnicismo, perfino un chitarrista alle prime armi avrebbe potuto imparare quell'assolo di chitarra tanto basilare quanto appropriato. Insomma, avevo trovato quello che stavo inconsapevolmente cercando. E oggi – a 25 anni di distanza – so per certo che non ho mai più provato un'emozione simile ascoltando una canzone per la prima volta. Chiudo gli occhi, metto "Smells like teen spirit" in repeat e provo a ricordare le ragioni per cui questo pezzo mi ha cambiato la vita.


01 – Io ascoltavo la pop music perché ero infelice. O ero infelice perché ascoltavo la pop music?

La citazione di Alta Fedeltà di Nick Hornby calza a pennello. Qualcuno potrebbe dissentire sul fatto che Smells Like Teen Spirit fosse effettivamente un pezzo pop, ma il tempo lo ha consacrato come tale (e lo stesso Kurt ha dichiarato che in fase di composizione stava cercando di scrivere la perfetta canzone pop). Ed era una canzone molto, molto infelice – al pari di Cobain. Ma l'infelicità in questo caso non veniva espressa attraverso i convenzionali accordi minori o tramite languidi arpeggi di chitarra acustica accompagnati da una voce sussurrata. Nossignore: in questo caso l'infelicità si trasformava in energia, e pure positiva. Era un modo di esprimere l'infelicità che ti faceva venire voglia di ballare, di pogare, di urlare. E alla fine ti ritrovavi ad esorcizzare lil tuo sconforto interiore gridando più forte che potevi, senza tuttavia riuscire a liberartene del tutto - nel più spiazzante degli equilibri.


02 – Chiaroscuro

Il brano gira su quattro accordi per cinque minuti. Una stesura armonica banalissima, che senza una adeguata interpretazione porterebbe rapidamente alla noia. La differenza però la fanno l'intensità emotiva e lo sviluppo del pezzo, che prima ti culla e poi ti schiaffeggia – seguendo (come ammesso dallo stesso Cobain) la lezione dei Pixies, “...prima sommessi e tranquilli, poi fragorosi ed energici”. Ai tempi – in un'improvvisa quanto inspiegabile smania adolescenziale di condividere le mie passioni – mi ero ritrovato a pensare che avrei potuto fare ascoltare la strofa ai miei genitori, convinto che avrebbero apprezzato. Sapevo invece che non avrei avuto altrettanta fortuna con il ritornello, che aveva qualcosa di proibito. Era talmente sfacciato e arrabbiato da risultare in qualche modo offensivo. Era un'ode allo spaccare tutto. Quella chitarra – che fino a al bridge (intro a parte) si era limitata a suonare due misere note – ora sferragliava come un ossesso, la voce – dapprima morbida – pareva posseduta dal demonio, e la furiosa batteria di Dave Grohl faceva il resto. No, non era adatto agli Adulti. Decisi quindi che avrei tenuto il ritornello – e di conseguenza il pezzo intero - solo per me.


03 – “Profuma di spirito adolescenziale”

Con una conoscenza dell'inglese da terza media – e più in generale un livello nazionale di dimestichezza piuttosto basso con la lingua anglosassone, visto che si parla dell'inizio degli anni 90 – un titolo del genere per un tredicenne italiano si presentava accompagnato da un alone quasi leggendario. Si narra che Kurt abbia voluto intitolare così il pezzo per via di una scritta che la sua amica Kathleen Hanna (delle Bikini Kill) aveva apposto sul muro di casa sua con della vernice spray. “Kurt Smells Like Teen Spirit”: Kurt profuma di Teen Spirit, laddove Teen Spirit si riferiva a un deodorante per adolescenti molto usato all'epoca. Cobain invece interpretò la marca del deodorante in senso letterale, dandogli un'accezione personale e sociale: Teen Spirit come spirito adolescenziale, e quindi ribellione e tutto quello che ne segue. In ogni caso, l'opportunità di raccontare ai propri amici che “ieri sera ho ascoltato Smells Like Teen Spirit” (con tutte le difficoltà di pronuncia annesse) non ce la si poteva lasciare sfuggire: a declamare “Ieri sera ho ascoltato "Don't cry"” erano buoni tutti.


04 – “L'ho trovato difficile, è stato difficile trovarlo, non fa niente, lascia stare”

Oltretutto quel magnifico titolo non appariva nemmeno nel testo della canzone. Un testo a dir poco incomprensibile, criptico e fuori di testa. Considerando inoltre che ai tempi Google era fantascienza, la frittata era fatta: ognuno recitava le parole che capiva, e le parole chiare erano davvero poche. Tradurre le urla di Kurt nel ritornello era un'impresa, con tutto quel frastuono (forse filtrava un “I feel stupid”). E poi cosa diavolo c'entravano gli albini, i mulatti e i mosquitos? I continui cambi di soggetto nelle strofe rendevano la narrazione impossibile da decifrare, mentre non credo che qualcuno sia mai riuscito a captare quel How Low nascosto tra i mille Hello del bridge. Per fortuna che svettavano frasi come “I'm Worse At What I Do Best”, “It's Fun To Lose And To Pretend” o “I Found It Hard, It Was Hard To Find, Oh Well Whatever, Nevermind”, che erano più che sufficienti per entrare in completa sintonia con il pensiero dei Nirvana.


05 – Palestre, cheerleader, poghi e bidelli

Ragazze pon-pon annoiate (“Eccoci qui. Intratteneteci.”) che incitano quasi controvoglia un pubblico inizialmente tranquillo, che con il passare dei minuti si scatena sempre di più, arrivando a pogare e a fare crowd-surfing. Il bidello che si lascia trasportare dal ritmo e balla con la sua scopa. Lo sguardo di mezza sfida di Kurt Cobain quando termina l'assolo e attacca con la terza strofa. L'inevitabile distruzione degli strumenti finale. Centinaia di volti, e NESSUN sorriso. Scene girate in una palestra della tipica High School Americana, filtrate attraverso una luce disorientante e qualche nuvola di fumo.
Così io – abituato a scene da film di Hollywood dove bellissime cheerleader si dannano l'anima per mettersi in mostra e coinvolgere i tifosi entusiasti in un'atmosfera di festa e allegria – la prima volta che mi imbattei nel video rimasi a bocca aperta. Non era esattamente un capovolgimento della realtà, ma piuttosto una visione alternativa e conturbante della stessa.
“Caricate le armi e portate i vostri amici”, perché qui si fa la rivoluzione. Come già sottolineato, era difficile capire le parole del testo, ma il videoclip riusciva comunque a comunicare il messaggio: quelle scene erano un invito a trasformare la debolezza della cosiddetta Generazione X in energia per risollevarsi.
Nonostante il primo a non crederci fino in fondo fosse proprio lo stesso Kurt.


3.30.2016

The Last Shadow Puppets - Everything you've come to expect (2016, Domino)

Passano gli anni, ma otto son lunghi – diceva un signore intorno alla metà dei favolosi anni '60. E sono passati proprio otto anni dal momento in cui Alex Turner e Miles Kane hanno inciso il primo disco insieme come The Last Shadow Puppets. Un'eternità per una band, un periodo del tutto accettabile se si considera che i Puppets sono un Side/Super Gruppo formato dai leader di Arctic Monkeys e Rascals, accompagnati dal produttore/batterista James Ford (metà dei Simian Mobile Disco) e dal bassista Zachary Dawes.
Nonostante si sia appena sottolineato che abbiamo a che fare con un side-project, l'affermazione del ragazzo della via Gluck esprime un concetto inoppugnabile: 8 anni sono effettivamente lunghi. Possono accadere molte cose, soprattutto se in ballo c'è il fatidico passaggio dagli “enti” ai “enta”. Ci si può trasferire a Los Angeles continuando a sfornare dischi di grande valore con gli Arctic Monkeys (è il caso di Alex Turner), oppure si può decidere di lasciare i Rascals e intraprendere una carriera solista, lavorando nel frattempo anche sulla propria immagine (qui si parla del playboy Miles Kane). Possono infine (legittimamente) cambiare alcuni riferimenti musicali.

The age of the understatement si presentava sbattendo in copertina una foto in bianco e nero tratta da uno shooting fotografico del 1962; molto appropriato, se consideriamo che il (bellissimo) disco pescava a piene mani dall'immaginario baroque pop di quel periodo lì. Sulla cover del nuovo Everything you've come to expect troneggia invece una giovane Tina Turner che balla in una fotografia scattata nel 1969. Potrebbe sembrare eccessivo ricercare metafore a tutti i costi, ma le dichiarazione di Kane (che ha espresso pubblicamente l'infatuazione per Isaac Hayes e The Style Council) rafforzano l'idea che la fissazione per il pop anni '60 non sia più così radicale. Il punto di partenza rimane lo stesso, ma c'è stata un'evoluzione: oggi la visione della band è più ampia, e tiene in considerazione prospettive stilistiche che sconfinano in altre epoche storiche (nella fattispecie gli anni 70).

Ecco dunque spiegato il clavicembalo che spunta nella psichedelica title-track, l'intenzione funk che non ti aspetti di The element of surprise, la vena garage punk (all'acqua di rose) di Bad habits e la marcia trionfale (con un andamento ritmico che ricalca quello del Bolero di Ravel) di Sweet dreams, Tn. Al fianco di questi brani che esplorano – seppur parzialmente - nuove vie, ci sono anche tracce come Miracle aligner, Dracula teeth e Used to be my girl, che rassicurano l'ascoltatore restando in territori già setacciati in precedenza.
Quando va bene gli esperimenti risplendono (vedi Sweet dreams, Tn e Everything you've come to expect), quando va male si limitano a “funzionare” (a questo proposito niente mi schioda dal pensiero che il singolo Bad habits varrebbe la metà senza l'arrangiamento di archi ad opera del bravissimo Owen Pallet, tassello fondamentale per l'estetica sonora dei Puppets). D'altra parte il talento di Alex Turner non è mai stato in discussione. E' piuttosto l'affiatamento della coppia che desta qualche perplessità: si avverte un palpabile distacco tra le due teste pensanti, che oggi danno l'impressione di essere due (validi) poli opposti che interagiscono, mentre nel primo disco le loro personalità sembravano fondersi con più naturalezza.

L'inevitabile confronto con The age of the understatement lascia quindi pochi dubbi: l'esordio suonava più fresco e pareva più convinto del nuovo lavoro. C'era un'energia diversa, e forse (ma questa è una mia considerazione personale) più concentrazione. Si aveva anche a che fare con testi di altro spessore, e la volontà di offrire un tributo a una precisa epoca storica rafforzava i meriti di Turner e Kane. Questo non significa affatto che Everything you've come to expect sia un album da evitare, anzi (ad avercene, di finali come The dream synopsis): deve semplicemente inchinarsi alle (verosimilmente alte) aspettative di chi ha atteso 8 lunghi anni per ascoltare quella che – prendendo spunto dal titolo del disco che suona come un invito – può ritenersi una promessa non del tutto mantenuta oppure una ridondante conferma. Nulla di meno, nulla di più.


7/10

Highlights: 
Aviaton, Miracle aligner, Everything you've come to expect, Sweet dreams Tn, The dream synopsis.



1.15.2016

David Bowie (1947/01/08 - 2016/01/10): Sogno di una notte di pieno inverno.



Lunedì 11 è stato il giorno delle lacrime. La notizia della morte di David Bowie mi ha tramortito in un modo impossibile da comunicare a parole. E infatti le parole per scrivere un articolo cercando di scovare tutti i messaggi (per nulla) nascosti nel suo ultimo disco non le ho trovate.
Ho preferito annullare tutti gli impegni e passare il pomeriggio a riascoltare una buona parte della sua discografia, lasciandomi cullare da quelle successioni di note familiari, recitando sottovoce le parole che so a memoria, perdendomi in tutte le perfette imperfezioni che l'hanno reso artista unico, inimitabile.

Martedì, invece, è stato il giorno delle domande. Sapete, quelle che cominciano con "What if...?". Come spesso accade quando si perde improvvisamente una persona cara, il cervello si ribella. Per quanto chiaro possa essere il messaggio (e personalmente in questo caso si è trattato proprio di un sms inviatomi da un amico), la prima sillaba che ti esce dalla bocca è “No”. E' naturale: apprendi la notizia, ma occorre tempo per metabolizzarla e accettarla. Quei momenti sono pura confusione mentale. Cominci a (s)ragionare considerando anche piste altamente improbabili (è uno scherzo?), architettando film di fantascienza ("Can you hear me, Major Tom?") e scivolando senza vergogna nel ridicolo in un ultimo tentativo di aggrapparti a speranze vane. Se poi decidi di lasciare le briglie, è un attimo sconfinare nella fantasia.

E' quello che mi è successo ieri notte, rigirandomi tra le coperte. Nonostante cerchi di ripudiarla a tutti i costi, c'è una domanda che oggi - Mercoledì - non smette di martellami in testa. Si tratta di una domanda che comincia con " What if", ed è tanto semplice quanto assurda.
E se non fosse successo davvero?
Siete assolutamente autorizzati a pensare che sia pazzo, non mi offendo. Ma vi chiedo una cortesia: non pensate che stia scrivendo queste parole dietro compenso o per qualche subdolo tornaconto personale. David Bowie ha significato, significa e continuerà a significare troppo per me, e voglio chiudere gli occhi un istante e abbandonarmi a questa fantasia.

Dicevo (anzi, vaneggiavo): e se non fosse successo davvero? Sarà forse difficile da credere, ma oltre a considerare questa ipotesi ho anche provato a cercare degli argomenti che mi aiutassero a crederci veramente. E a questo punto starete pensando: questo non solo è pazzo, ma ci vuole dimostrare anche perché lo è. Più o meno.
Sono partito da cose scontate, come il fatto che sia la malattia che la morte di Bowie sono tutt'ora parzialmente avvolte nel mistero. Nessuno sapeva che fosse malato, non si hanno certezze assolute sul suo male (il fegato, dice Ivo Van Hove, regista dell'opera teatrale Lazarus) e a quanto pare inizialmente non si sapeva neanche dove fosse avvenuto il decesso (ora si dice New York). Sono tutti particolari che competono la sfera privata, quindi - per quanto strano possa sembrare nella nostra società della Condivisione Totale - è comunque plausibile che non si sapesse nulla di tutto ciò. Come è legittimo che si sappia ancora poco o niente dei funerali. A tal proposito Jedidiah Bracy (esperto di data security e information privacy) sostiene che David Bowie abbia compiuto un mezzo miracolo: mantenendo il segreto, ha provato che la privacy a questo mondo può ancora esistere.

Queste non-informazioni (o informazioni parziali) rientrano dunque nella realtà. La mia stupida fantasia subentra ora.
Immagino che il Duca Bianco abbia pianificato tutto per mettere in scena la prima resurrezione della storia che verrà raccontata ai telegiornali. Mi immagino che risorga dal suo sepolcro (l'armadio in cui si chiude alla fine del suo ultimo video) esattamente come Lazzaro, che non a caso è il titolo del suo ultimo singolo e del già citato musical che ha scritto insieme al commediografo e sceneggiatore Enda Walsh. A rafforzare la connotazione religiosa c'è anche il particolare diffuso da NME: il settimanale britannico ha svelato che l'ultimo account che Bowie ha deciso di seguire su Twitter è nientemeno che Dio.
Molti potrebbero pensare che una “trovata” del genere sia un'idea di cattivissimo gusto (e come biasimarli?), ma personalmente la prenderei come il Troll Definitivo nei confronti dell'informazione moderna. Dopotutto oggi diffondere una notizia sui social network e farla sembrare vera non è così difficile; i cosiddetti Hoax non si contano già da qualche anno a questa parte. “Guardatemi, sono in paradiso. Ora tutti mi conoscono”. Suona tanto come la proverbiale “Tutti ti amano quando sei due metri sottoterra” di John Lennon. Mettere in pratica un asserto così importante (e vero) è una questione delicatissima. Ma chi meglio di lui potrebbe scherzare con la morte? Chi più di lui potrebbe compiere quella che mi sento di definire la Trasgressione Finale? Oltretutto, se è riuscito a nascondersi dai riflettori per periodi lunghissimi (anni), che cosa saranno mai 4 miseri giorni (che poi è il tempo che ha passato Lazzaro nel sepolcro)?

Quando riapro gli occhi vedo il puzzle che si sgretola di fronte alla cinica realtà. Osservo gli stessi elementi che hanno alimentato la mia stupida fantasia (le poche e frammentarie testimonianze, i gesti che compie nel video, i testi dei pezzi, perfino la questione twitter) e torno a considerarli come indizi inequivocabili di quella che è stata definita la sua Ultima Opera d'Arte. L'Addio. E allora mi immagino David Bowie su un altare che ha le sembianze di una consolle. Bende sugli occhi e cuffie in testa, recita la parte del dj che è quello che suona, e che ha un pubblico che crede in lui. Lo vedo che prende il microfono, e annuncia che la serata finirà con il prossimo pezzo. Parte Lazarus, e dopo qualche minuto – come tutte le cose belle – finisce. Ma io rimango lì, sulla pista da ballo. A gridare “Ultimo, ultimo, ultimo”.