Qualsiasi opera partorita dalla mente di un artista deviante come David Lynch non può prescindere dall'aggettivo "visionario"; non fa quindi eccezione anche "Crazy clown time", il suo primo vero disco. Fin dalla suggestiva copertina veniamo catapultati nell'universo strambo di Lynch: un sogno continuo che alterna tormento e bizzarria, una fantasia corrotta che riesce a farsi desiderare, un viaggio senza una vera destinazione - o qualcuno direbbe con mille destinazioni diverse - che nonostante la sua apparente futilità attrae e incuriosisce. Dai testi criptici allo stile musicale angoscioso, tutto ciò che esce da "Crazy clown time" è perfettamente in linea con il credo del regista statunitense; questo implica che chi non ha mai apprezzato i suoi lavori cinematografici difficilmente darà una seconda chance a questo album, vero e proprio "prolungamento musicale" delle immagini del Lynch-pensiero.
7/10
Highlights: Pinky's dream, So glad, Noah's ark, I know, These are my friends.
Gary Lightbody ha una bellissima voce. Non è immediatamente riconoscibile come quella di alcuni suoi più illustri colleghi, ma ha il pregio di essere pulita e viene impiegata con mestiere. La musica degli Snow Patrol è sempre stata semplice e immediata, dagli inizi indie fino alla conquista del grande pubblico. Il loro rock melodico e quadrato trova una logica dimensione nelle colonne sonore delle serie tv americane, puntando su un’emozione in un certo senso prevedibile ma non per questo censurabile. Dopo la raccolta "Up to now" (2009) gli scozzesi avevano dichiarato che con "Fallen empires" ci sarebbe stata una svolta, che prevedibilmente non arriva. Proprio come la voce di Gary, qui è tutto pulito e costruito con competenza; purtroppo manca ancora quel quid necessario per rendere la loro musica davvero memorabile.
6.5/10
Highlights: I'll never let go, Called out in the dark, The garden rules, New York, Those distant bells.
Ora è tutto chiaro. "Pieces of the people we love"(2006) è servito come dichiarazione d'intenti: con quel disco i Rapture si sono liberati dalle catene indie-fashion con una certa sicurezza, ricevendo più critiche che applausi. Ma ora possono fare quello che vogliono e come vogliono: adesso la band ha un'identità ben precisa, svincolata dal colpo di fortuna del debutto e dal doppio taglio della splendidamente stonata "House of jealous lovers". Ora i Rapture possono ripescare l'acid house che da sempre amano senza preoccuparsi di fare ballare a tutti i costi ("Come back to me", "In the grace of your love", "How deep is your love?"). Possono lasciarsi andare a tentazioni rave ("Can you find a way?") senza rischiare di essere accostati a Klaxons e compagnia bella. Possono permettersi declinazioni funk di un certo spessore ("Never die again") senza che quella parola venga preceduta per forza da un aggettivo cool e fuorviante come "punk". Possono rockeggiare in stile surf ("Blue bird") senza tante menate. Possono scrivere una ballata matura e stilosa come "It takes time to be a man" ed essere credibili. "In the grace of your love" è il risultato di una serie di influenze armonizzate in maniera perfetta: una raffinata e coerente arte di assemblaggio con personalità e gusto.
I territori su cui si muove il primo disco di Noel Gallagher senza il fratellino sono tutt'altro che inesplorati: sarebbe un peccato del tutto perdonabile confondere uno qualsiasi dei brani qui inclusi con una canzone degli Oasis di fine anni novanta. Ma dopotutto ci si aspettava qualcosa di diverso? Chi si lascerà intrappolare dalla ragnatela emotiva abilmente tessuta da Noel ci sguazzerà, gli altri rimarranno piuttosto freddini nei confronti di un disco non fondamentale - soltanto gradevole.
7/10
Highlights: Dream on, If I had a gun, The death of you and me, Aka...broken arrow, Stop the clocks.
Meno immediato del precedente "Vantage point", ma comunque ennesima dimostrazione di un scelta lucida che sacrifica le sperimentazioni del passato in favore di una perfezione stilistica matura e cosciente.
7/10
Highlights: Keep you close, Dark sets in, Twice (we survive), The end of romance.
Sotto consiglio (ed etichetta) di Damon Albarn, Martina Topley Bird riprende alcuni suoi brani e li esegue in maniera molto più spontanea e scheletrica, lasciando da parte quasi completamente il discorso di post-produzione e creando il giusto spazio per la sua voce intrigante, imperfetta e misteriosa.
Rock languido alla Radiohead vecchio stampo? Fatto. Cori da stadio modello U2? Fatto. Aperture a sperimentazioni elettroniche e concettuali? Fatto. In 15 anni di carriera i Coldplay hanno emozionato nei modi più semplici e stupito esplorando sentieri meno battuti. Si sono emulati da soli e quando è affiorata la stanchezza hanno avuto la lucidità di reinventarsi. Sono stati idolatrati e sminuiti, odiati e amati. Ma percorrendo una strada tutta loro (dal rock al pop) non si sono mai pentiti, ostentando una personalità forte, indistruttibile. Non è quindi più tempo di aspettarsi rivoluzioni, perché un fatto è certo: qualsiasi creazione nasca dalla mente di Chris Martin e soci è sigillata da una magica aura di credibilità. Le discutibili accuse di plagio e il dito dei fan puntato su alcune derive dance non possono lontanamente scalfire le ambizioni e le convinzioni di una band che non deve più chiedere niente a nessuno, ma che al contrario si può permettere di indicare la via alla musica moderna - sia scalando le chart che rimanendo tra le ben più intime pareti dei propri dischi. Ecco quindi che il quinto album del quartetto inglese riassume adeguatamente tutte le caratteristiche che li contraddistinguono in tre quarti d’ora intensi e - una volta messi da parte i pregiudizi - inattaccabili.
Partiamo dalle certezze: i Coldplay sono bravissimi a scrivere canzoni coinvolgenti che incontrano con facilità il gusto e l’approvazione di un pubblico molto vasto. La formula è ben esemplificata da una ballad epocale come Paradise, che fa leva su un impeccabile arrangiamento orchestrale ed è abilmente insaporita da maliziosi accorgimenti presi in prestito dalle classifiche pop dei giorni nostri. L’abilità compositiva della band non viene a galla solo con pezzi strappa-lacrime: le dimostrazioni si trovano nella freschezza dell’opener Hurts Like Heaven, nel rock incalzante di Don’t Let It Break Your Heart, nella magia del variopinto finale Up With The Birds o in un pezzo solido come Major Minus - il cui ritornello farà certamente fischiare le orecchie a Bono e compagnia bella. Gli schizzi più confidenziali (Us Against The World e U.f.o.) sono brevi ma intensi, mentre gli interludi ci ricordano che Chris Martin ha definito Mylo Xyloto un album concettuale e rendono evidente lo zampino del fidato Brian Eno.
Poi volendo si fa presto a criticare il singolo Every Teardrop Is A Waterfall per il suo riff che strizza un occhio alla dance oppure Princess Of China per il chiacchierato cameo di Rihanna: ma quello che non torna è la facilità con cui si bollano certi pezzi come spudorati o fuori luogo senza pensare che il loro cuore è di ottima fattura. L’apparenza è forse più essenziale del valore della musica? I Coldplay non sono più rock, ma soltanto un’altra band pop che contamina le nostre frequenze con featuring spiazzanti e tributi sfacciati? Il dibattito potrebbe anche andare avanti all’infinito, ma il succo non cambia: comunque la si voglia vedere (e lo ammetto anche io, che vorrei un altro Parachutes da ascoltare alla nausea), questa è un’ennesima prova di forza, bella e buona.
7/10
Highlights: Hurts like heaven, Paradise, Charlie Brown, Us against the world, Princess of China, Up with the birds.
Entrate, mettetevi comodi. Benvenuti nel mondo di Nero. Prima di cominciare vi consiglio di mettere da parte qualsiasi velleità artistica e di attivare la cosiddetta 'modalità ignoranza' - intesa come condizione di stato d'animo necessaria (ma a volte non sufficiente) per apprezzare la musica di David Guetta. Scommetto che l'avevate già capito dalla copertina, ma non si sa mai. Quello che sentite intorno al minuto 2 è un Hover di rave memoria, in tempi recenti rispolverato da Bloody Beetroots e compagnia bella. La cassa di "Doomsday" è dritta, ma dopo una pausa meditativa il tempo della batteria viene prevedibilmente diviso per due, mentre i synth sudici raddoppiano, triplicano, si contorcono impazziti. Non è facile stare fermi, vero? "My eyes" si lancia in un pop elettronico che sembra trance al rallentatore, e poi entra anche un piccolo assolo di chitarra che dribbla in un flash il cool e pende pericolosamente verso il kitsch. Ma Daniel Stephens e Joseph Ray non si sentono in colpa per questa caduta di stile, anzi: rincarano la dose con una "Guilt" a metà tra il nostalgico e il poco significante. Sono invece energici i cut-up saltellanti di "Fugue state": niente di sbalorditivo, ma perlomeno ritorna quella spinta a volersi alzare dalla sedia a tutti i costi. Quello che sentite in "Me and you" è un impasto ben riuscito di istinto rock, tamarria dubstep e violenza sonora applicata ad un contesto melodico: lodevole e molto Pendulum. Non ve ne accorgerete neanche e sarà già "Innocence", singolo giustamente esaltato e vincente per costruzione e tono. Le voci e i sospiri fradici di riverbero che troverete nell'episodio più introspettivo dell'intero disco ("In the way") vi faranno quasi credere che alla fine potrebbe esserci della sostanza nascosta dietro a tutta la cafonaggine che vi siete sorbiti: perfino le terzine di "Scorpions" sembrano avvalorare questa ipotesi. Purtroppo la rielaborazione di "Crush on you" dei Jets è abbastanza pacchiana, la stesura di "Reaching out" appare scontata come la citazione delle prime note di "You came" di Kim Wilde che contiene e il pop-rock (futuristico o semplicemente sbagliato?) di "Promises" è qualcosa di decisamente ridondante. E' un vero peccato, perchè così farete fatica a scorgere quello che c'è di buono nell'interessante breakbeat in salsa-funk ("Must be the feeling") che c'è in mezzo a tutta quella sbobba cheesy. Il viaggio si chiude con un'insapore "Departure", a testimoniare la pulizia (forse esagerata) della forma a scapito di poca e poco ispirata sostanza.
6/10
Highlights: Doomsday,Fugue state, Innocence, In the way, Scorpions, Must be the feeling.
Un paio di mesi fa i francesi Gaspard Augè e Xavier de Rosnay parlarono del loro imminente album in un’intervista: in quello che sembrò un impeto di modestia lo definirono come un disco prog-rock suonato da musicisti assolutamente non all’altezza di tale impresa. Ma quale modestia: è esattamente l’impressione che si ha fin dalle prime note di Audio, Video, Disco. Tra citazioni eccellenti e richiami volutamente anni 70, i Justice conservano la loro attitudine dance fatta di ritmiche spezzate, synth distorti e compressioni spinte, deviando però il loro metodo compositivo verso territori più complessi rispetto all’acclamato esordio. Chi si aspettava altri singoli-bomba rimarrà deluso, ma non per questo bisogna gettare fango su un lavoro ben eseguito e degno ambasciatore dell’era bastarda nella quale viviamo.
Della formazione originaria degli Evanescence (1995) rimane solo lei: Amy Lee, voce e immagine della band dell’Arkansas, è l’unica costante nella storia di un gruppo che ha visto l’avvicendamento di 5 musicisti in 16 anni di attività. Al suo fianco ci sono i due chitarristi Terry Balsamo (che aveva preso il posto di Ben Moody nel secondo disco) e Troy McLawhorn (ex Seether), il bassista Tim McCord e il batterista Will Hunt. Ma nonostante i continui cambiamenti, il suono Evanescence resiste nella sua integrità e riconoscibilità, immune al tempo e alle mode che cambiano: riecco quindi i riff metal epici, il ruolo essenziale svolto dal pianoforte a contrappunto, le perfette orchestrazioni e naturalmente la potentissima voce di Amy, capace di essere grintosa e al contempo melodica come poche altre nella scena rock. Inutile tentare avventati paragoni con un disco miracoloso come "Fallen"; è d’obbligo invece sottolineare la coerenza e la personalità di una band che si regge sulle proprie gambe indipendentemente da pubblicità e passaggi radiofonici.
7/10
Highlights: Made of stone, The change, Erase this, Lost in paradise, Oceans.
Se volessimo azzardare una traduzione del termine "Biophilia" potremmo provare con “filosofia della biofisica”; le parole che accompagnano i pezzi del nuovo album di Bjork hanno a che fare con solstizi, corpi celesti, cellule e parassiti. Se invece volessimo tradurre in poche parole il valore di un lavoro come "Biophilia", allora per forza di cose la definizione sarebbe “il modo migliore per sfruttare da un punto di vista artistico la tecnologia che ci circonda”. La piccola islandese questa volta ha pensato di comporre parte dei brani utilizzando degli strumenti controllabili attraverso un iPad. Il disco stesso – a voler essere limitati si può definire così – è in realtà un’applicazione progettata per il famigerato tablet di casa Apple: ad ogni pezzo (acquistabile singolarmente) è associata un’esperienza multimediale che può consistere in un’improvvisazione visiva, in un gioco, in un karaoke interattivo, in un viaggio attraverso gli argomenti che hanno ispirato la composizione dei pezzi. Sarebbe stupendo se questa pensata riuscisse a rendere l’ascolto meno indigesto e facesse assaporare l’incanto anche a chi non è mai riuscito a metabolizzare le ostiche sperimentazioni della (bellissima) musica di Bjork.
Archiviati i contrasti che nel 2005 ne determinarono lo scioglimento, i Blink 2.0 ripartono dal loro sesto ambiguo album. Forti di quella credibilità underground che l’acerbezza spesso regala, ricevono consensi con i loro primi lavori; dalla fine del millennio (volontariamente o per caso?) entrano in tutte le classifiche, commettendo un peccato imperdonabile nell’ambiente punk. Il tramonto è a un passo, e si concretizza in un’improbabile ricerca di maturità con il disco omonimo del 2003. Otto anni dopo la solfa cambia poco: a spunti interessanti come l’opener "Ghost on the dancefloor" si alternano strizzate d’occhio ai Blink modello Green Day che facevano urlare le ragazzine anche e soprattutto quando prendevano in giro le boy-band con i loro video esilaranti. "Neighborhoods" si configura quindi come un lavoro piuttosto difficile da mettere a fuoco: solo il tempo ci rivelerà se si possa definire un momento di transizione oppure un tentativo miseramente fallito di rimettere insieme qualcosa che forse non esiste più.
6.5/10
Highlights: Ghost on the dance floor, Natives, Up all night, Heart's all gone, Even if she falls.
Il pop degli Hooverphonic che raggiunge un nuovo livello di freschezza e maturità anche grazie alla nuova voce (Noemi Wolfs) che sembra donare entusiasmo alla band.
7.5/10
Highlights: Anger never dies, The night before, Heartbroken, George's cafè, Sunday afternoon, Danger zone.
Se vi definite dei puristi in quanto a musica il disco dei Cani non fa per voi. Nel loro sorprendente album d’esordio, infatti, non troverete le classiche strutture strofa-ponte-ritornello, la rima è un optional e la metrica non viene quasi mai rispettata. Se poi per voi il rock fa rima con chitarra, voltate pagina: gli undici pezzi qui inclusi – composti e suonati da un solo misterioso personaggio – fanno leva sull’elettronica, per quanto distorta e fracassona. Ad essere sinceri, questa musica sarebbe ben poca cosa se non fosse il miglior modo per accompagnare i testi, che dipingono con grande (auto)ironia un quadretto neorealista sconfortante. Intendiamoci, sciorinare verità senza censura non rappresenta certo un’impresa; ma se vuoi che ti ascoltino devi renderti interessante, e i Cani lo sanno bene a quanto pare.
7/10
Highlights: Hipsteria, Door selection, Le coppie, Post punk, I pariolini di diciott'anni.
La pratica del featuring nel mondo dell’hip-hop è diventata ormai una regola: tu sputi due rime nel mio ultimo singolo e io rappo su una traccia del tuo prossimo disco. Ma quello di "Watch the throne" è un esperimento che va ben oltre le regole: stiamo infatti parlando di un intero album che unisce il rapper più ricco e famoso in attività (il Newyorkese Shawn Corey Carter, in arte Jay-Z) e quello più influente degli ultimi 10 anni (Kanye Omari West, da Chicago). E allora largo ai proverbiali cut & paste di Kanye (che nel 2004 è venuto alla ribalta tagliando, incollando e cambiando di tonalità un pezzo di Chaka Khan), che si diverte a saccheggiare sia mostri sacri come Otis Redding, Nina Simone e James Brown che i più moderni Cassius (niente di stupefacente, visto che molti ricorderanno che aveva già preso in prestito una hit dei Daft Punk per la sua "Stronger"). Il risultato di questa super-collaborazione non è rivoluzionario, ma sottolinea bravura e dedizione di due personaggi che – come da copertina – possono contare sul prezioso dono di trasformare in oro tutto quello che toccano.
8/10
Highlights: No church in the wild, Lift off, Nigga in Paris, Otis, Who gon stop me, Made in America, Why I love you.
"Dedication" mescola l'oscurità nebulosa di Burial, le batterie artificiose dell'electro e le ritmiche sghembe degli Autechre meno involuti con una coerenza opinabile. Sedici schizzi digitali densi di rifiniture calibrate, ma che in definitiva si ricordano un po' pochino; un passo indietro rispetto a quella gemma post-rave che fu "Where were u in '92?".
6.5/10
Highlights: Natalia's song, Things fall apart, Digital rain, A devil lay here, Haunted, Mozaik.
Il talento cantautorale di Fink che si evolve, diventando sempre più caldo e profondo; "Perfect darkness" è animato da un dolore blu lacerante tuttavia positivo, con picchi di perentorio valore emotivo tipo "Honesty" e "Yesterday was hard on all of us".
La ragazzina della porta accanto, carina e un po’ ribelle, è cresciuta. Avril non è più solo una pop-star: ultimamente si è data anche al cinema e all’imprenditoria, e non è un caso che "Black Star" (il jingle che accompagna il suo profumo) e "Alice" (il pezzo che appare nei titoli di coda del film di Tim Burton) assumano rispettivamente il ruolo di apertura e chiusura del suo quarto disco. In mezzo c’è un singolo bello carico ("What the hell", che ricalca la hit "Grilfriend") e una quantità considerevole di brani partoriti al pianoforte, lenti, morbidi e spesso arrangiati in maniera essenziale. In alcuni casi i risultati sono un po’ troppo scontati (può bastare come esempio un titolo come "I love you?"), ma pezzi come "Wish you were here" e "Remember when" sembrano sinceri e confermano il talento della ventiseienne canadese.
7/10
Highlights: What the hell, Push, Wish you were here, Remember when, Goodbye.
Solo un pazzo potrebbe affermare che tutti i brani dei Basement Jaxx si prestano ad un arrangiamento orchestrale; ma la scaletta stesa per questo live insieme alla Metropole Orkest è davvero indovinata.
8/10
Highlights: Raindrops, Bingo bongo, Hey u, Lights go down, Do your thing, Where's your head at, Good luck.
L'immaginazione di David Byrne e Norman Cook si traduce in un bizzarro musical dall'anima tropicale in bilico tra disco e soul; spiccano le prestazioni vocali di Florence Welch, Roisin Murphy, Sharon Jones, Nicole Atkins e Sia.
7.5/10
Highlights: Here lies love, A perfect hand, Don't you agree, Ladies in blue, Dancing together, Never so big, Solano Avenue, Order 1081, Seven years, Why don't you love me?.
Richard Melville Hall si sveglia ogni mattina - sobrio, pacifista e vegetariano come sempre - e dopo il caffè entra in studio e compone. Prende spunto da qualche lick vocale blues o folk, da una melodia semplice semplice suonata al piano, dagli aeroporti musicati da Eno o da un film di David Lynch. Intorno costruisce strati di archi e pad malinconici - fin dai tempi dei rave la sua passione principale e irrinunciabile - accompagnandoli con beat scarni e il più delle volte lenti. Ogni tanto invece di fare cantare un'amica ci mette la sua voce (non disdegnando il caro vecchio vocoder), in altri momenti si fa risucchiare dall'amore per il punk e la new-wave e inserisce una chitarra (meglio quando timida). La formula - all'alba del 2011 e dopo album come "18", "Hotel" e "Wait for me" - è qualcosa di assolutamente prevedibile, scontato e per molti piuttosto noioso. Ma non si può certo accusare Moby di non azzeccare le melodie: quelle ci sono sempre state e ci saranno sempre. Lo stile è datato, ok. Ma in tempi in cui l'atto di acquistare un cd ha assunto le proporzioni di un evento biblico, chi comprerà "Destroyed" troverà esattamente quello che stava cercando - niente di più, niente di meno.
7/10
Highlights: The broken places, The low hum, Rockets, The day, Lie down in darkness, The right thing, Stella maris.
Non che questa improvvisa voglia di pop recentemente palesata da Keren Ann sfoci in pezzi completamente sgradevoli, ma nemmeno un matto baratterebbe una "You were on fire" con cento "Blood on my hands".
7/10
Highlights: Run with you, All the beautiful girls, You were on fire, Song from a tour bus, Strange weather.
Cosa si prova a camminare sospesi su un filo come da copertina? Chiedetelo agli Incubus. Perchè, con tutta la buona volontà, Brandon Boyd e soci non possono fare gli gnorri: sapevano perfettamente che incidere un album come questo avrebbe innescato una miriade di polemiche. Saranno pochissimi i fan della vecchia guardia che riusciranno a trovare una scusa per giustificare un disco composto quasi esclusivamente da ballad; dall'altra parte la schiera di ascoltatori che si erano avvicinati alla band californiana per merito di pezzi come "Love hurts" o "Dig" saranno ben contenti di sapere che il distorsore della chitarra di Mike Einziger si è preso una pausa. "If not now, when?" rappresenta un rischio di quelli enormi: non solo trascura chi ha sempre apprezzato il loro lato più eclettico e trasgressivo, ma deve fare anche i conti con la "bellezza" dei brani, talmente ben scritti che faranno fatica a rientrare negli standard pop di questi tempi. La sensazione ascoltando un lento dopo l'altro è straniante; tanto che quando finalmente il ritmo si alza (all'alba della traccia 9, "Switch blade") si prova un senso di liberazione, si rimettono per un momento i piedi saldamente sul terreno - ma non basterà un pezzo per perdonare gli Incubus, almeno per chi si sente tradito da un album così soft. Il materiale per fare la guerra è servito; ma messi da parte gli estremismi - opportuni o meno - non si può oggettivamente dire che il settimo lavoro della band sia brutto. La storia della musica è piena zeppa di artisti che hanno dirottato pesantemente il loro stile anche solo per un episodio della loro discografia; in alcuni casi è andata bene, in altri meno bene. Ma ora è troppo presto per dare un giudizio definitivo: il tempo dirà se "If not now, when?" è stata una mossa azzardata ma plausibile oppure una semplice e dimenticabile caduta di stile.
7/10
Highlights: If not now when?, Promises promises, Thieves, Isadore, In the company of wolves, Switch blade.
La strada intrapresa dagli Arctic Monkeys nel 2009 con il loro terzo disco viene confermata senza rimorsi in questo "Suck it and see". La band capitanata da Alex Turner si crogiola nel passato del rock (o sarebbe più opportuno rispolverare il termine "rock'n roll", come da loro specificato in "Brick by brick"). Pur essendoci alcuni episodi (come per esempio il singolo "Don't sit down 'cause I moved your chair") leggermente involuti, la qualità media dell'album si attesta su livelli decisamente alti.
7.5/10
Highlights: She's thunderstorm, Black treacle, Brick by brick, Library pictures, Piledriver waltz, Love is a laserquest.
Karl Hyde e Rick Smith affidano il pezzo che apre il loro nuovo disco alle sapienti mani del "Deep Dish" Dubfire: viene fuori una techno melodica, avvolta in una nebbia misteriosa, che si sviluppa in una lunga progressione di accordi prima di focalizzarsi su un ritornello che profuma di synth-pop d'annata. Sulla medesima strada si muove "Always loved a film", che però conta su una struttura molto più semplice e diretta; il lavoro in fase di produzione di D. Ramirez e Mark Knight punta deciso al club, ed ecco che scatta l'effetto-inno. "Scribble" si sposta su territori drum & bass senza tralasciare la melodia, mentre "Hamburg Hotel" ha tutte le caratteristiche di un interludio (che ad essere un po' più cattivi si potrebbe chiamare "riempitivo"); "Grace" - la seconda apparizione di Dubfire nei crediti - rimane un po' troppo lì, e nemmeno la successiva "Between stars" (plasmata ancora dal duo Ramirez-Knight, questa volta accompagnati dall'immancabile Darren Price) convince pienamente, perdendosi in un arrangiamento un po' troppo confusionario. C'è un po' di rock nella buona "Diamond jigsaw" (produzione a cura di Paul Van Dyk), per sua sfortuna oscurata da Lincoln Barrett (High Contrast), che vince a mani basse con la splendida poesia tecnologica di "Moon in water". Quando il timer segna quasi cinquanta minuti è tempo di spegnere le strobo e andare a casa coccolati dall'intimità della dolce "Louisiana", il pezzo che ti fa capire che il duo sta invecchiando (bicchiere mezzo vuoto) o maturando (bicchiere mezzo pieno).
7.5/10
Highlights: Bird 1, Always loved a film, Diamond jigsaw, Moon in water, Lousiana.
Quando tiri fuori un disco come "Dear science" è quasi buona educazione non pretendere il bis: sarebbe un po' come chiedere un miracolo. "Nine types of light" - il quarto disco dei Tv On The Radio - non colpisce in maniera assoluta e insindacabile come il suo illustrissimo predecessore, ma la notizia è che ci va molto, molto vicino. Ad accoglierci all'ingresso troviamo il funk elettronico di "Second song", dapprima riservato e poi ultra-spumeggiante quando decide di aprirsi in un ritornello che dal nulla resuscita i Bee Gees. Subito dopo c'è la poesia toccante di "Keep your heart", seguita da "You", una dichiarazione d'amore sincera e positiva. "No future shock" movimenta la situazione senza impressionare particolarmente, mentre la riflessiva "Killer crane" ha un che di Pinkfloydiano (e scusate se è poco). Il singolo "Will do" non delude, mentre il fare glorioso di "New cannonball run" e la frenesia di "Repetition" fanno da contrasto ai toni grigi della splendida "Forgotten". A chiudere il mezzo crossover di "Caffeinated consciousness", che finge rabbia per poi distendersi (come da copione) in un chorus melodico e morbido. Libertà stilistica, musica di spessore e testi di un certo rilievo: sono poche le band che riescono a coniugare questi tre elementi con naturalezza.
Chi sei? Rihanna ("Nobody's perfect")? Christina Aguilera ("Mamma knows best")? Lady gaga ("Rainbow")? Lauryn Hill ("Love")? O molto più semplicemente una ragazza con una gran bella voce che sta cercando il suo stile personale mischiando varie influenze moderne con un'attitudine pop fine anni novanta?
7/10
Highlights: Price tag, Nobody's perfect, Big white room, Do it like a dude, Love.
La semplicità (talvolta conviviale, più spesso malinconica) dei Noah & The Whale rimane intatta sotto un velo di elettronica che dapprima spiazza, poi convince.
7.5/10
Highlights: Life is life, L.i.f.e.g.o.e.s.o.n., Give it all back, Just before we met, Old joy.
L'album di debutto degli ex-Automato (Nick Millhiser e Alex Frankel) non è il miracolo che la stampa specialistica vuole fare credere, ma più semplicemente un rispettabile viaggio tra electro-pop e italo-disco molto ben prodotto.
7.5/10
Highlights: Hold my breath, Jam for Jerry, Hold on, It's not over, Slow motion.
Con il passare degli anni la Sia che un tempo prestava la voce ai tramonti di Ibiza è cambiata. Ma se fino al precedente "Some people have real problems" (2008) il mutamento era parso sottile e graduale, con questo disco la brava cantante australiana sembra volere evitare vie di mezzo, spostando l'equilibrio in maniera decisa verso un pop veloce, positivo e scanzonato. I risultati alternano (pochi) pezzi riusciti a (un bel po' di) momenti meno significativi; il valore di Sia non è in discussione, la messa a fuoco forse sì.
6.5/10
Highlights: Clap your hands, Stop trying, Hurting me now, I'm in here, Oh father.
La palese confusione manifestata con il terzo "First impressions of earth" ha reso necessario un lungo periodo di pausa, concretizzatosi in un trienno (2006-2008) di nulla. Il ritorno alla scrittura non si è rivelato facile: i disaccordi tra i membri del gruppo e il tempo buttato via insieme al produttore Joe Chicarelli (abbandonato dopo una sessione di registrazioni dalla quale si è salvato solo un pezzo) hanno rimandato ulteriormente l'uscita di questo poco convincente "Angles". Lo smarrimento della band di New York è evidente: nella decente "Two kinds of happiness" la voce di Julian Casablanca sembra quella di Billie Joe Armstrong, l'incedere danzereccio di "Games" non sembra appartenere al loro stile, così come le pur lodevoli e in un certo senso mature sperimentazioni di "Call me back". Il marchio Strokes esce rafforzato da brani come "Machu Picchu" e "Under cover of darkness", mentre scade nell'auto-referenzialità (comunque gradevole) di "Taken for a fool"; il resto è qualcosa di insipido ("You're so right", "Life is simple in the moonlight"), quando non si sfiora la tragedia ("Metabolism").
6/10
Highlights: Machu Picchu, Under cover of darkness, Taken for a fool, Gratisfaction.
La notizia è che Eddie Argos ha preso qualche lezione di canto. Il punto è che gran parte della strabordante english-ironia degli Art Brut di "Bang bang rock & roll" fosse proprio nel suo ostentato rifiuto del concetto di intonazione. Questa improvvisa voglia di melodia a tutti i costi porta la band intera a scrivere canzoni nel senso rock del termine, abbandonando la più che riuscita strada pseudo-punk che avevano percorso con i primi tre album. La conseguenza? "Brilliant! Tragic!" è un lavoro accademico senza un barlume di personalità, che per lunghi tratti risulta a dir poco stucchevole. Disco di transizione o fallimento dettato dalla voglia di strafare?
5/10
Highlights: Clever clever jazz, Axel Rose, I am the psychic.
Highlights: Pickled!, Nose art, Zodiac shit, ...and the world laughs with you, Mmmhmm, Do the astral plane, Dance of the pseudo nymph, Table tennis, Galaxy in Janaki.