Blues-rock folgorante, estroso e di una potenza rara.
9/10
Highlights: Tutto.

E' davvero un peccato che i Bran Van 3000 non siano più riusciti a trovare gli applausi che meritano dopo "Drinkin' in L.A.". Si parla di ben quattordici anni fa, e quel brano sembra essersi cristallizzato nel tempo: anche se lo ascolti oggi in mezzo a pezzi che dovrebbero appartenere ad un'altra epoca suona fresco e illuminante. E dire che dopo il disco di debutto ("Glee") avevano partorito un brillante "Discosis" (2001), che oltretutto conteneva un inno come "Astounded", troppo presto dimenticato e buttato in soffitta senza la giusta considerazione. "Rosè" del 2007 aveva confermato il loro eclettismo, ma mancava la scintilla: dopo 6 anni di silenzio si poteva forse pensare ad un inevitabile declino. Invece no. Perchè ora il collettivo canadese ritorna più in forma che mai con un album che va a toccare tutte le corde giuste: ci sono le dosi opportune di funk ed euro-pop che si mescolano alla perfezione nel singolo "Grace", c'è l'intimità acustica di "Garden waltz" e "Oui got now", la schizofrenia di "You too" e "This day", il sound cheesy solo splendidamente sfiorato da "Jahrusalem", "La dolce vita" e "Saltwater cats". Vario ed elegantemente pop.
Riecco Vasco Brondi con le sue metriche dissestate e le sue rime ardite, i suoi flussi di coscienza e le sue metafore crude, la sua poesia metropolitana postmoderna e il suo pessimismo ostentato. Le connessioni con "Canzoni da spiaggia deturpata" e "Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero" sono tanto evidenti da risultare a tratti scontate: c'è la stessa donna per cui vale la pena fare rifare l'asfalto affinchè torni (dall'estero?), c'è il deserto che avanza ("le piazze sono vuote, le piazze sono mute"), ci sono le fabbriche lunghe come l'orizzonte e troppo malinconiche. Ci sono organi che imbrattano le pareti, occhi in vendita e capelli lunghissimi, decolorati e sporchi ("che sono fili scoperti, che sono nastro isolante"). C'è sempre lo stesso schifo d'amore che porta a dichiarazioni tipo "Ti avrei portato a nuotare dove affondano le petroliere". Ci sono guerre, raid aerei, fucilazioni e bombe al fosforo. Ci sono sogni che sfioravano e sfondavano i soffitti, distrutti dai licenziamenti delle grande aziende e dalle fregature delle compagnie telefoniche (che si arricchiscono con le nostre conversazioni serie?). Anche se gli argomenti trattati sono decisamente prevedibili, la dialettica e l'intonazione di Brondi è sempre efficace e a suo modo disturbante (nel senso buono del termine). Purtroppo musicalmente quando va bene vengono ricalcati pedissequamente gli schemi dell'album di debutto (vedi accordi e ritmica di "Cara catastrofe"), mentre quando va male si fa più di un passo indietro, con orchestrazioni invadenti e melodie inesistenti. Certo, quello che più conta in un disco come "Per ora noi la chiameremo felicità" non è certo la musica, che presa da sola ha un valore di puro sottofondo; ma è inutile negare che considerando il potenziale di fantasia di Vasco ci si aspettava qualche variazione in più sugli ormai stratriti temi.
Se l'airplay e gli spot pubblicitari hanno reso inascoltabile "If we ever meet again" non c'è da stupirsi: il featuring con Katy Perry rappresenta l'unica caduta di stile del secondo disco di Timothy Mosley, aka Timbaland. E la colpa - è bene sottolinearlo - non è della divetta, bensì del nostro Timothy, responsabile di essersi lasciato ingolosire da una tentazione pop che in questo caso puzza un po' troppo di denaro facile. Perchè lo sanno tutti che lui il pop ce l'ha nel sangue, e che è uno dei pochissimi produttori che quando ci mette la firma fa la differenza sempre e comunque; perchè dunque sprecare tempo con un brano scontato come "If we ever meet again" quando vengono fuori delle cose stupende come "Carry out", "Say something" e "Morning after dark" in modo naturale? Secondo le leggi del mercato (e anche quelle del buon senso) un singolo dovrebbe rappresentare l'album; fortunatamente non è questo il caso di "Shock value II".
Più le ricette sono complicate e più è arduo creare qualcosa di omogeneo e concreto. Se poi il risultato appare anche in un certo senso "accessibile" probabilmente c'è di mezzo una formula magica. "Contra", il secondo disco dei Vampire Weekend, mischia generi, approcci e sensazioni senza ombra di indugio, e fila dritto e veloce lasciandoti impietosamente indietro. Ascolti "White sky", ma stai ancora pensando a "Horchata". Batti il piedino al tempo di "Holiday", ma ti interroghi sulla precedente "White sky". Ti immergi nelle atmosfere sognanti di "Taxi cab", ma il tuo cervello rimane impegnato nella difficile opera di decodificazione dei deliri di "California english". E dire che a tratti tutto sembra così semplice, così naturale; in realtà ogni pezzo è un puzzle che ti fa venire il mal di testa, e per i primi ascolti la digestione è resa difficile dalla mancanza di punti di riferimento, da ritornelli che vanno e vengono senza una struttura prevedibile, da rime ostiche e parole che non sei abituato a sentire. Quando però familiarizzi con i singoli brani e riesci a vedere il quadro completo ti accorgi di quanto "Contra" sia un album a dir poco unico.