Rock non convenzionale; intricato e ipnotico.7.5/10
Highlights: Drop & roll, The wisp, You set off my brain, One dimension, Mr. Crow, Round and around.
Terzo album per i fratelli svedesi Dreijer, drasticamente hypizzato dal successo di "What else is there" dei Royksopp che ha visto l'importante collaborazione di Karin alla voce; musica completamente sintetizzata ed elaborata al computer (a rispecchiare l'idea del freddo polare del nord europa), buia e inquietante per scelta (esattamente come la copertina del disco, in netto contrasto con le colorate cover dei tre album precedenti), spesso nervosa e dissonante (storpiature, vocoderizzi e lavori di pitch sulla voce, glide calanti), ma anche dolce e sognante nella sua cupezza ("Marble's house" scritta da Jay-Jay Johanson è davvero una perla, "From off to on" è un sussurro soffice e delicato). L'arrangiamento dichiaratamente dance di "Like a pen" ricorda moltissimo lo stile di quel Trentemoller al quale hanno commissionato un remix (ottimo come al solito) per il singolo "We share our mother's health", lo shuffle di "One hit" è divertente e ha un senso, la ballad moog-a-pella finale "Still light" è curiosa e particolare; come del resto l'intero disco.
Indubbio salto di qualità produttivo accompagnato da una maggiore sensibilità pop; certo che ci sono un paio di scivoloni e alcune tracce abbastanza inutili che rischiano seriamente di compromettere l'intero disco.
Un'ottima scusa per avvicinarsi alla band di San Francisco, che pur non avendo aggiunto niente alla storia del rock suona ed interpreta i propri pezzi con dignità e una certa personalità.
Scampagnata obbligatoria per i cultori del genere; 3 cd per celebrare i 10 anni di "I love techno" con dei classici in versione extended. Archivio importante.
Una limpida dimostrazione di ricercatezza unita ad un gusto impeccabile. "Toop toop", incanto disco-punk-funk (come se i Lipps Inc. si cimentassero in un utopistico featuring con i Rancid), apre le danze ed è un incipit sicuro e consapevole, allo stesso tempo radio-friendly e accattivante; "Rock number one" è irresistibilmente sexy, e quando Zdar intona con tanta esuberanza le prime note di "This song" si intuiscono le potenzialità di questo album. Le conferme si trovano nella disinvoltura di "All I want", nella collaborazione con l'onnipresente Pharrell Williams (Paul Oakenfold prenda nota, ecco come valorizzare il suo falsetto) in "Eye water", nel superfunk di "See me now" (scritta con il signor Guy Manuel De Homem-Christo e il suo compare Eric Chedeville anche noti come "Le Knight Club") e nel finale, quando il gioco si fa acido con la triade "Jackrock", "Cactus" e "La notte".
L'evoluzione sonora e compositiva nel secondo album di Zdar e Boom Bass è evidente; il singolo che anticipa "Au reve" è un disco di una bellezza rara, con la voce di Steve Edwards a disegnare traiettorie pop su una base sporco funk. Le reminiscenze hip-hop di "Thrilla" (con Ghostface Killah), la voce di Jocelyn Brown in "I'm a woman", la gospel-house di "Til we got you and me", le ritmiche sghembe di "20 years" e l'ambient-ballad "Nothing" sono gli altri picchi di un ottimo Lp.
Al grido di "Cassius' in the house" ecco poco prima del nuovo millennio un altro progetto che contribuirà all'espansione del cosiddetto "French touch"; "Cassius 1999", "Feeling for you" e "La mouche", le frecce bastarde electro-funk che spianano la strada al successo del duo, sono contornate da brani che prendono spunto dalla vecchia scuola electro sostenuti da beat house e hip-hop con qualche intrusione downbeat.
Garnier e la sua techno-jazzy-acid fattanza. Warning: contiene dei capolavori.
C'era una volta Mr. Paul Oakenfold, uno dei dj più influenti della club culture; oltre ad avere speso anni della sua carriera a remixare chiunque, Paul nel 2002 ha la bellissima idea di sfornare l'album giusto al momento giusto ("Bunkka"), una splendida sintesi di pop e musica elettronica. Quattro anni dopo, il nulla. Anzi, magari il nulla; "A lively mind" è semplicemente terribile. Lo si poteva già intuire dal singolo "Faster kill pussycat", una tamarrata che neanche i Body Rockers in stato di grazia avrebbero potuto concepire. Domande obbligatorie in ordine sparso: chi gliel'ha fatto fare a Grandmaster Flash di partecipare a un featuring orribile? Cosa diavolo può c'entrare Pharrell Williams in un disco come questo? Delle tracce rimanenti se ne salvano un paio pseudo-trance (anche se suonano belle stagionate) e - udite udite - un lento; una valanga di passi indietro.
Standard rock'n'roll di ispirazione 60-70; dopo l'album di esordio era lecito aspettarsi qualcosina di più a livello di idee, tantopiù se si considera che i pezzi meglio riusciti di "Shine on" sono anche quelli che sfiorano quasi palesemente il plagio (e nel caso della pur buona title-track prendere in prestito dagli Oasis è come rubare in casa del ladro).
Senza sminuire gli evidenti pregi di una band che sa comporre e suonare ottima musica, questo "The open door" risulta un po' troppo lungo e tedioso, soprattutto se confrontato con il precedente (forse) inarrivabile "Fallen".
Il ritorno del successore più credibile di Michael Jackson è un disco a sei mani, costruito e lavorato insieme a Nate Hills e all'infallibile Timbaland; sexy-pop avanguardista con un'occhio alla radio e uno alla qualità (ottima).
Un mix di pezzi tratti dai precedenti "Be a girl" e "Bagsy me"; tralasciando le irritanti questioni commerciali (non è un vero album, ma una sorta di sampler studiato per il mercato americano) il contenuto di questo disco è un eccellente teenage rock ultra-melodico e a tratti irresistibile.
Le aspettative di fronte al primo disco da solista di Jean-Benoit Dunckel non potevano che essere alte. Purtroppo anche dopo diversi ascolti si ha la netta sensazione che queste dieci tracce di pop elettronico non riescano neanche lontanamente ad avvicinarsi alla profondità di un album degli Air; pochi gli spunti degni di nota, per il resto sono sbadigli.
La faccia soul del rock secondo un polistrumentalista australiano con una voce non indifferente; peccato che suoni a tratti fin troppo leggerino e prevedibile.
Undici nevrastenici e roboanti remix ad opera di gente come Black Strobe, Derrick May, The Hacker, Phil Kieran e Terence Fixmer: sapete a cosa andate incontro.
Non sarebbe umano resistere alle vibrazioni positive emanate da questo disco fondamentale (di gran lunga l'uscita più indovinata della Ninja Tune da qualche anno). E anche se la ricetta potrebbe sembrare semplice o addirittura abusata (ritmi jazzy latini su grassi beat lavorati e frequenze basse amplificate ai limiti della distorsione) gli Zero Db ci mettono una freschezza e un'energia tutta loro. Assolutamente imprescindibile.
Raccolta di b-side, pezzi perduti e rarità del sempre penetrante Conor Oberst; nonostante la sua natura è un disco significativo anche per i meno patiti.
Il salto qualitativo a livello di produzione rispetto all'acerbo "Living with other people" è evidente, tanto quanto il piacevole aumento dei rigurgiti new wave; in soldoni si placa un po' di rabbia senza per questo andare a sottrarre ciò che di buono aveva il primo disco, ovvero l'energia. Anche l'ironia è sempre li, al suo posto; il risultato è un album estremamente divertente e tutto da ballare, con dei singoloni come "You don't have to shout" e "All the good men".
C'è da entusiasmarsi a sentire l'introduttiva "Fake boys"; rock deciso e incalzante con inserti elettronici e un'intrusione a dir poco inaspettata di un sax distorto che si lamenta energicamente facendo il verso alla voce. Anche "Danny is passing" colpisce, e questa volta l'elemento che attira l'attenzione è una linea di basso synth che svetta nel mix. L'entusiasmo però si paca altrettanto facilmente con brani più banali, che consistono in una serie di ritornelli sbarazzini che a livello di arrangiamento abbracciano la scena punk-funk (più punk che funk a dire il vero, e la conferma si può trovare nella durata media dei pezzi). Quando ci si mettono ci sanno fare, ma si ha l'impressione che questi tedeschi possano andare oltre quello che hanno mostrato in questo disco.
Quel sentimentalismo bucolico e folkloristico che solo i Gotan Project possono. Sarebbe bastata una distrazione, sarebbe stato facilissimo sputtanarsi dopo il successo ottenuto con "La revancha del tango"; ma loro neanche a parlarne, e due anni dopo sono ancora lassù, a guardarci dall'alto protetti da uno scudo di impenetrabile eleganza.