4.22.2019

The Chemical Brothers - No geography (2019, Virgin EMI)

A un passo dal nuovo millennio la Chemical Brothers mania raggiunge il suo apice. Surrender (1999) espande gli orizzonti sonori esplorati nei due album precedenti, e al grido di Hey Boy Hey Girl i trentenni Ed Simons e Tom Rowlands diventano i superstar djs per eccellenza. La credibilità del progetto, insieme a quella della musica elettronica tutta, cresce vertiginosamente. Noel Gallagher (già voce di Setting Sun) torna a collaborare con il duo in Let Forever Be, Bobby Gillespie dei Primal Scream accompagna ai cori Bernard Sumner dei New Order in Out of Control, Jonathan Donahue dei Mercury Rev compare in Dream On e Hope Sandoval dei Mazzy Star impreziosisce Asleep From Day. Il consenso è universale: i beat dei fratelli chimici vanno a genio proprio a tutti. Da allora sono passati vent’anni. Un lasso temporale che, considerando la velocità con cui le mode si avvicendano e gli stili si evolvono, è lecito definire un’eternità. Ma il ticchettio delle lancette e i mutamenti culturali ad esso associati contano relativamente per Ed e Tom: attraverso produzioni senza tempo, i cinque dischi successivi hanno confermato una personalità superiore a qualsiasi tendenza del momento, e i due si sono più volte reinventati rimanendo fedeli alla propria identità sonora. Il segreto, come rivelatomi da Tom Rowlands in un’intervista dell’estate scorsa, è una gestione matura e serena dell’entusiasmo. «Abbiamo la fortuna di conservare la lampadina che ci accompagna fin dall’inizio della nostra carriera, e ogni tanto si accende: è in quell’istante che sappiamo che dalle nostre macchine verrà fuori qualcosa di interessante».

Un’affermazione che nel contesto di No Geography, nono album in studio del duo di Manchester, assume anche un significato concreto. Perché in questo caso le macchine a cui Tom si riferisce non sono sintetizzatori all’ultimo grido, ma i cimeli responsabili della spina dorsale di Exit Planet Dust (1995) e Dig Your Own Hole (1997), i primi due tasselli della discografia dei Chemical Brothers. Il salto nel passato assume dunque le sembianze di una signora sfida: due alfieri della musica elettronica rispolverano letteralmente apparecchi di un quarto di secolo fa ricercando un possibile nuovo futuro, diverso da quello che proprio loro avevano contribuito a forgiare sul finire degli anni ’90. Quasi la tentazione di riscrivere una timeline della musica, giocando a ritrovarsi precisamente al punto di partenza. Ma c’è anche il rischio che l’esperimento si trasformi in una sorta di barzelletta dall’esito desolatamente nostalgico: “Ci sono due quasi cinquantenni che giocano a tornare ragazzi suonando strumenti appartenenti a un’altra epoca…”.

A cacciare lo spettro di un’eventuale disfatta ci pensa subito Eve of Destruction, che apre le danze con pulsazioni disco funk volutamente derivative, ma non per questo sorpassate: il giro di basso a la Block Rockin’ Beats si alterna a stoccate old school techno, e l’amalgama è tenuto insieme da una pasta sonora di batteria indiscutibilmente “Chemical”. Lo stato di grazia del duo trova immediata conferma nella trionfale title-track e nella plastica Got To Keep On, ma il bello è che il meglio deve ancora venire. Introdotto dal puro esercizio di stile Gravity Drops, ecco un viaggio psichedelico del calibro di The Universe Sent Me, con la voce di Aurora Aksnes (unica ospite del disco insieme al rapper giapponese Nene). Il muro di suono crolla su una ripetizione ossessiva della giovane cantautrice norvegese, poi il panorama cambia radicalmente con l’ispiratissimo singolo We’ve Got To Try, che parte da un oscuro brano gospel/soul del 1973 (I’ve Got To Find A Way dello Halleluiah Chorus) per poi esplodere in una deflagrazione acida da applausi. Probabilmente l’eclettismo e il talento sfoggiati in questa mezz’ora sarebbero già sufficienti per assegnare a No Geography un numero spropositato di stelline. Ma non è ancora il momento: l’ipnotica Free Yourself e l’arrogante MAH rinverdiscono i fasti dei rave, presentando tutti gli attributi necessari a soddisfare la definizione di “arma da dancefloor” (o, come a Ed e Tom piace battezzare questo tipo di tracce, “Electronic Battle Weapon”). Il sipario cala sulla meditativa Catch Me I’m Falling, e mentirei se dicessi che non mi sarei aspettato un finale introspettivo, dato che l’espediente è stato spesso utilizzato in passato.

Forse la grandezza dei Chemical Brothers sta proprio nel rispettare un copione già scritto (familiare soprattutto per chi li conosce bene), senza però apparire scontati. Forti di un passato che li ha visti in prima linea nella rivoluzione sonora, Ed Simons e Tom Rowlands non ci pensano proprio a sacrificare la propria personalità o a riposizionarsi: immuni da interferenze esterne, si tengono bene alla larga dal labirinto di generi e sotto-generi che contraddistingue la musica elettronica e implicherebbe fatali limitazioni. Che si tratti di una scelta precisa o di predisposizione naturale, poco importa. Quello che conta è l’ennesima lezione di identità e passione offerta in No Geography da due quasi cinquantenni che giocano a tornare ragazzi, e che ancora una volta rimandano a data da destinarsi la battaglia più ostica che prima o poi qualsiasi musicista deve affrontare: quella contro il tempo.

8/10

Highlights: 
Eve of Destruction, No geography, The universe sent me, We've got to try, Free yourself, Mah.

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