4.21.2019

60 anni di Robert Smith

60 anni di Robert Smith


Nel corso di un'intervista del 2004, alla classica domanda “C'è qualche canzone che avresti voluto scrivere tu?” Robert Smith risponde così: “Happy Birthday to You, perché sarei matematicamente certo del fatto che in ogni istante in giro per il mondo la gente starebbe cantando un mio pezzo. Oppure Life on Mars? di David Bowie». Un'affermazione perfetta per ricordare che oggi quella sagoma di Robert compie sessant'anni, una quarantina abbondante dei quali dedicati ai suoi Cure. A un primo impatto la risposta di Smith fa sorridere per l'accostamento di una semplice filastrocca tardo ottocentesca a un ben più elaborato inno entrato nella storia del rock. Ma a ben vedere dietro quelle parole si nasconde l'eterno duello tra frivolezza e profondità che da sempre contraddistingue il cantautore inglese e la sua musica.

Probabilmente Robert non voleva fare una battuta: è stato semplicemente onesto, come sempre. Come quando, per esempio, nel 1987 ammette che il debutto di nove anni prima l'aveva lasciato insoddisfatto. «Ai tempi Three Imaginary Boys è stato criticato per la sua leggerezza. Sono d'accordo: non piaceva neanche a me. Avrei voluto incidere un disco di sostanza, e invece è venuto fuori un lavoro superficiale». Le critiche riservate all'album del 1978 sono prettamente stilistiche, mentre quelle mosse al primo singolo Killing An Arab vertono sul titolo della canzone, frettolosamente bollato come razzista. Quando la questione viene sollevata nel corso di una delle prime interviste rilasciate da Smith, lui risponde con sfacciata ironia: «Questo pezzo è dedicato a tutti gli Arabi ricchi che frequentano le discoteche nei dintorni del college di Crawley per rimorchiare ragazzine». La realtà è diversa, naturalmente: il pezzo si ispira alle vicende narrate dallo scrittore e filosofo francese Albert Camus nel romanzo del 1942 L’Étranger (Lo straniero).


L'episodio non sarà certo l'unico fraintendimento che Smith dovrà affrontare in carriera, anzi. Di lì a breve, il suo iniziale rifiuto a sfoggiare un'immagine precisa viene interpretato come mancanza di identità. «Non piacciamo perché non abbiamo un look che ci distingue – dichiara Robert nel 1979 - Le persone non riescono a identificarsi in noi perché non possono imitarci. Non siamo i Ramones o i Clash. Ci ho provato a indossare abiti fighi, ma sono quasi sempre scomodi, e io voglio sentirmi a mio agio. Ecco perché sul palco mi vesto come se dovessi andare a fare la spesa». La volontà di non adeguarsi al gioco delle rockstar filtra dalle parole di Jumping Someone Else's Train (1979), un brano che «Prende in giro i ragazzi che improvvisamente ascoltano certa musica e cambiano abbigliamento soltanto per seguire una moda, come sta succedendo ora con il revival mod. Spero che non abbia successo, altrimenti ci accuseranno di saltare sul carro del vincitore. E comunque, se mai avrà successo, succederà perché verrà interpretato nella maniera sbagliata, come accade sempre con i nostri pezzi».


Il sarcastico pessimismo di Robert si evolve in depressione sfociando nella trilogia Seventeen Seconds (1980) / Faith (1981) / Pornography (1982), un'escalation tenebrosa che culmina nel nichilismo (“Non importa se moriamo tutti”, canta in One Hundred Years) e che posiziona i Cure al centro della mappa del nascente Gothic Rock. Ma è meglio evitare di utilizzare questo termine in presenza di Robert. «E' una disgrazia quando ci definiscono così. Il Goth è terribilmente monotono. Se proprio dovessi catalogare il nostro suono, credo che all'inizio fossimo post-punk. Ma poi siamo diventati i Cure, punto». Da band senza immagine a pionieri della scena Goth: per Robert accettare tutto questo è impossibile. Se proprio è necessario inventarsi un'estetica, spetta a lui scegliere quale.


Durante le date del tour di Pornography, i Cure inaugurano il caratteristico stile “Capelli sparati, trucco sbavato e vestiti neri”. «Le luci del palco scioglievano il make-up, così sembrava che ci fossimo presi a pugni». L'estetica simboleggia la violenza psicologica dei nuovi brani, ma anche quella che si instaura nei rapporti tra i membri di una band sull'orlo di una crisi di nervi e a un passo dallo scioglimento. Dopo avere toccato il fondo, l'unica soluzione è tornare in scena con qualcosa di assolutamente scioccante. Robert scrive la “stupida canzone pop” Let's Go to Bed, e dopo averla fatta sentire agli altri in sala cala un silenzio agghiacciante. «Hanno pensato che fossi impazzito. Anche io credevo che i fan l'avrebbero odiata: non ci si può trasformare da idolo goth a pop star in un battito di ciglia». E invece, succede. Da The Head on the Door (1985) in poi i numeri dei Cure decollano. Merito di una ritrovata confidenza e di un'organizzazione meticolosa: durante le sessioni, Robert arreda lo studio a seconda del mood delle singole canzoni, con tanto di linee guida scritte sui muri destinate ai musicisti. «Il giorno in cui dovevamo registrare Sinking, le istruzioni erano di piangere entro le 6 del pomeriggio».


Il successo dell'eclettico Kiss Me, Kiss Me, Kiss Me (1987) («Eravamo diventati tutto quello che odiavo: suonavamo negli stadi e le ragazze si strappavano i vestiti di dosso. Così ho ricominciato a drogarmi e a sentirmi depresso, e sapevo che la serenità avrebbe presto abbandonato il gruppo») è il preambolo al più cupo Disintegration (1989), che invece di cavalcare lo stile di una hit come Just Like Heaven punta dritto in senso opposto. Nonostante ad oggi Wish (1992) sia uno dei dischi preferiti di Robert (oltre ad essere l'album più famoso dei Cure), in quel momento l'entusiasmo è sotto le scarpe. «Non stavamo osando – confessa Smith – Mi sembrava di scimmiottare quello che già sapevo fare».

 

Con Wild Mood Swings (1996), l'interesse nei confronti dei Cure cala, ma la qualità della loro musica rimane altissima. Ne è testimonianza il disco immenso del 2000: «Registrando Bloodflowers, ho raggiunto il mio obiettivo: comporre divertendomi e raggiungendo vette emozionali davvero intense, senza uccidermi in corso d'opera». Dopo l'omonimo The Cure (2004) e 4:13 Dream (2008), il silenzio. Ma recentemente Robert è tornato a parlare con la consueta schiettezza: “Siamo stati nello studio dove i Queen hanno registrato Bohemian Rhapsody a incidere 19 canzoni che durano in media 10/12 minuti. Adesso non so che fare. Qualcuno mi ha consigliato di pubblicare un disco triplo, ma non sono d'accordo. Ne sceglierò 6 o 7, e farò un album che piacerà molto ai nostri fan e farà infuriare tutti gli altri. Nonostante l'età, mi sento ancora talmente buio e cupo che potrei addirittura decidere di farlo uscire il giorno di Halloween». Noi aspettiamo con ansia. Nel frattempo, tanti auguri per i tuoi 60 anni Robert.

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