5.10.2019

25 anni di Weezer dei Weezer


“In box mi sento al sicuro, perché nessuno mi considera. Il box è casa mia, e nessuno mi sente cantare questa canzone”. In The Garage, ode al box convertito in sala prove al numero 2226 di Amherst Avenue a Los Angeles, è l'ultimo brano scritto da Rivers Cuomo prima di registrare quello che passerà alla storia come il Blue Album (1994). A giudicare dal testo della canzone, l'eccentrico frontman non sembra desiderare fama e grandi palchi; in fondo lui sta bene lì, in quel rifugio pieno di fumetti della Marvel, poster dei Kiss e guide di Dungeons & Dragons. È conscio di essere un nerd fuori moda: perché dunque non mettere in chiaro quello che prova?


Esprimere i propri sentimenti senza filtri è senz'altro una dote. Ma forse, Cuomo si lascia un po' prendere la mano dal connubio sincerità/insicurezza che descrive fin troppo bene il suo carattere. Ispirato da un incidente automobilistico del fratello, scrive un pezzo incentrato sulla riscossione di un premio assicurativo (My Name is Jonas). Quando invece una bottiglia di birra trovata in frigo gli fa tornare in mente la causa del divorzio dei suoi genitori (l'alcolismo del padre), interpreta l'episodio come indizio inconfutabile dell'imminente separazione tra il patrigno e la madre, riversando la sua ansia in Say it Ain't So. Le metafore che inventa sono troppo criptiche, e vengono puntualmente fraintese. Undone (The Sweater Song) e Only in Dreams sembrano canzoni d'amore, ma non lo sono affatto: il maglione sfilacciato della prima dovrebbe rappresentare il suo isolamento mentale, mentre il timido teenager e la sua bella irraggiungibile della seconda simboleggiano rispettivamente Rivers e la musica sofisticata che sogna un giorno di riuscire a comporre. I tentennamenti legati ai rapporti sono da ricercare semmai nell'imbarazzante gelosia di No One Else (“Voglio una ragazza che non rida per nessun altro / che quando sono via non si trucchi e non esca di casa”) o nelle mortificanti confessioni di The World Has Turned and Left Me Here (“Ho parlato per ore con la tua foto nel mio portafoglio / E tu hai ascoltato e riso di gusto della mia arguzia / O forse no”). 


Il debutto dei Weezer approda sugli scaffali il 10 Maggio 1994, e in quel momento la parola d'ordine è grunge. Rivers lo sa bene: «Le prime volte che abbiamo suonato dal vivo la gente ci insultava. Ci dicevano: “Andate via, vogliamo una band grunge”». Davanti a contestazioni di questo tipo, la vera rockstar avrebbe probabilmente risposto al fuoco con qualche “fuck you” ben assestato, cavalcando la provocazione e uscendone vincitore. Ma il nostro anti-eroe non porta camicie di flanella e non è esattamente spigliato, quindi la sua reazione si concretizza in un piccolo shock. E chissà, forse questi episodi contribuiscono ad alimentare il complesso inferiorità che lo porta a iscriversi a Harvard per studiare musica classica dopo il successo clamoroso del Blue Album. Un successo che assume proporzioni enormi in relazione al periodo storico di riferimento: in mezzo ad affascinanti poeti maledetti che raccontano storie di droga, morte e depressione, ecco quattro ragazzi goffi e impacciati che giocano a fare i Beach Boys distorti cantando di inadeguatezza e turbamenti da emarginati sociali. Forse il mondo, un mese dopo la tragica scomparsa di Kurt Cobain, aveva bisogno di voltare pagina e di intonare Buddy Holly con leggerezza gustandosi l'esilarante video che cita Happy Days.

Fraintesi o meno, i Weezer spopolano. I problemi arrivano dopo. Perché a distanza di 25 anni da quel 10 Maggio, ogni singolo lavoro della band Losangelina ha pagato dazio al mirabolante esordio. Un botto troppo grande da replicare? Un colpo di fortuna al quale hanno fatto seguito pallide copie (nei casi migliori) e fiaschi colossali (nei casi peggiori)? C'è chi sostiene che i Weezer siano nati e finiti con il Blue Album. Dopo la rivalutazione di Pinkerton, massacrato dalla critica e ignorato dal pubblico nel 1996, si è creato il partito di chi ritiene che i Weezer si siano persi dopo il secondo album (che oltretutto è anche l'ultimo insieme al bassista Matt Sharp, figura chiave in fase di arrangiamento dei brani). Gli hardcore fan, come da definizione, sono invece pronti a difendere l'intera discografia con i denti. Ma qual'è la verità? Difficile a dirsi.

Nonostante mi ritenga un sostenitore accanito, non ho potuto fare a meno di rimanere deluso in alcune occasioni. Il valore inestimabile del primo disco non sarà mai in discussione, e proprio per questo motivo l'insipida trilogia Red Album (2008) / Raditude (2009) / Hurley (2010) mi ha fatto pensare che forse sarebbe stato meglio accantonare le speranze di un ritorno della band ai fasti di un tempo. Ma l'ammirevole sincerità di Rivers è venuta in mio soccorso nel 2014. Il testo di Back to the Shack, singolo tratto dal nono Everything Will Be Alright in the End, è un vero e proprio mea culpa recitato da un Cuomo che ammette di avere perso il controllo della situazione. “Ho dovuto fare degli errori per scoprire chi fossi veramente”, confessa, arrivando a menzionare esplicitamente l'anno di grazia 1994 e a dichiarare la sua volontà di ritornare in quella baracca di Amherst Avenue da dove tutto è iniziato. Un'ammissione chiara: dopo avere compiuto il proverbiale giro, cinque anni fa i Weezer erano intenzionati a ripartire da zero. Un'operazione che ha dato i suoi frutti, mostrando un songwriting rinvigorito e convincente, anche se è inutile mentire: certe cose non ritornano.


Può forse uno sfigato divenuto improvvisamente superstar tornare nell'anonimato? Sebbene non si possa affermare che Rivers ci abbia in un certo senso provato, frequentando l'università dopo avere calcato i palchi di mezzo mondo e mettendosi in discussione a prescindere dal successo ottenuto, una volta portata a termine una missione pazzesca come quella di passare da una confortevole tana al riparo da qualsiasi contatto sociale agli MTV Music Awards nel giro di qualche mese le prospettive cambiano. Diventa necessario metabolizzare la metamorfosi e reagire di conseguenza, intraprendendo un nuovo percorso che solo i sognatori potrebbero immaginare privo di errori. Personalmente, la mia disponibilità ad accettare i passi falsi aumenta in corrispondenza del rifiuto dell'ipocrisia e del coraggio di fare della sana autocritica. Poi, una volta rispettato il principio della sincerità (in primis con sé stessi, meglio ancora se condivisa con i fan), vada come vada. Per citare nuovamente Back in the Shack: “C'è ancora molto da fare / E se moriremo nell'oscurità non importa / Almeno abbiamo alzato un polverone”.


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