11.09.2018

Muse - Simulation theory (2018, Warner)

Non più di un anno fa, Matthew Bellamy aveva sentenziato che i Muse non avrebbero più pubblicato album, concentrandosi invece solo sui singoli da dare in pasto alla rete. Sapete, i soliti discorsi: la fruizione della musica che è cambiata, le playlist, gli adolescenti che in linea di massima non hanno voglia di sorbirsi un disco dall'inizio alla fine, il crollo della soglia di attenzione degli ultimi tempi, eccetera. Qualche mese fa trapela invece la notizia che tutti i brani messi in circolazione in questi mesi, che sfoggiano un sound smaccatamente anni 80 e sono accompagnati da video che pescano a piene mani dall'immaginario della suddetta decade, convoglieranno in un disco. Un mezzo passo indietro? Uno stratagemma per fare parlare di sé anche nel momento “morto” tra tour e nuovo disco? Del semplice fumo negli occhi per confondere lo spettatore e poi colpirlo a sorpresa, scatenando un entusiasmo che in assenza di dichiarazioni e smentite non ci sarebbe stato? Qualunque sia il motivo del ripensamento, cari Muse, con me cascate male. Perché sono più retrò dei vostri filmati che ho intravisto su YouTube. Faccio parte di quella razza in via di estinzione che utilizza raramente lo streaming, e che aspetta ancora il lavoro completo per possederlo e archiviarlo solo dopo un ascolto attento. Mi piace giudicare l'opera nell'insieme, perché è l'unico modo per cogliere certe sfumature e magari scoprire che i brani meno strombazzati sono addirittura migliori rispetto a quelli divulgati in fase di promozione. E anche se mi avevate quasi convinto con la storiella dei singoli, vi aspettavo al varco. Perché nonostante vi sforziate di essere moderni, siete come me.

La conferma di quanto non siete cambiati ce l'ho appena scopro che il vostro ottavo album si chiama Simulation Theory. Un titolo assolutamente in linea con quelli del passato, che si soffermavano su ipotesi, teoremi e concetti vari. Questa volta, dopo il convinto ritorno alle chitarre di Drones che abbandonava le sperimentazioni del precedente The 2nd Law, vi siete buttati su sonorità decisamente più elettroniche, che forse chi non ha ancora capito quanto vi piace svariare farà fatica a digerire. Sento già urlare gli ex-fan allo scandalo, rimpiangendo i bei tempi in cui i Muse erano una Rock Band con la R e la B maiuscole. Suppongo che non ci sia bisogno che vi dica di lasciare parlare chi vi critica, perché non si può certo piacere a tutti, specialmente quando si parla di un'estetica che appartiene all'amata/odiata epoca delle spalline imbottite. Perfino io ho storto il naso sull'incipit di Something Human, perché quel suono non è solo anni 80, ma è pure tornato prepotentemente in voga nel pop “moderno”. Non ho intenzione di dilungarmi sulla presunta non-modernità del pop, perché ci sono fior di sociologi e musicologi che hanno analizzato a fondo il tema. Ma mi limito a fare una considerazione: se questo atteggiamento è in generale accettato e spesso esaltato, perché quando lo fanno gli altri va bene e quando lo fate voi no?

Per ciò che avete dimostrato nel tempo, mi sento in dovere di resistere alla tentazione di definire un brano pacchiano solo perché comincia come un riempipista di David Guetta. Non nego che il primo ascolto sia stato traumatico, ma dopo essermi ambientato ho capito che Something Human è un pezzo 100% Muse, solo che si presenta con un vestito al quale non ero abituato. Oltrepassato questo scoglio, che a mio avviso rimane il più difficile da superare, il resto è in discesa. Un po' perché vi siete presi la briga di aprire con un'opportuna dichiarazione d'intenti come Algorithm, capace di trovare un equilibrio perfetto tra la vostra nota epicità e il timbro dei macchinari analogici di cui vi siete invaghiti. Un po' perché pezzi come Propaganda e Dig Down non risulteranno così strampalati alle orecchie di chi ha apprezzato Madness. Per quanto riguarda numeri come Pressure e Thought Contagion, dove la componente elettronica è meno invasiva, il problema proprio non si pone. In questo senso il compromesso ideale è probabilmente The Dark Side, dove armonie e melodie familiari vanno a braccetto con strumenti che appartengono (in teoria) a territori lontani dal vostro stile. Ma visto che ho utilizzato questa parola, colgo l'occasione per riciclarla con un'accezione diversa: che stile, quell'assolo.

A costo di sembrare ingenuo, sono ancora convinto che al di là di suggestioni temporanee, mode del momento e pura apparenza, quello che a conti fatti rimanga sia la musica. E francamente me ne frego se lo sforzo richiestomi dai Muse derivi da un sincero desiderio di esplorare nuovi terreni oppure non sia altro che il frutto di una furba trovata commerciale che punta a qualche oscura strategia di riposizionamento. Simulation Theory è un disco solido, partorito da una band che raramente ha fatto passi falsi in carriera. Un trio che in quanto a scrittura non tradisce mai e che nel tempo ha dimostrato di avere talento da vendere, confermando il proprio valore sui palchi del mondo intero. A proposito: chi è talmente allergico a queste sonorità da non riuscire a sopportare l'album ha per caso pensato di mettere a confronto un'esibizione dal vivo di uno dei tanti progetti tutto fumo e poco arrosto degli anni 80 con un live dei Muse? Questo è solo uno dei modi per sottolineare quanto lo strumento conti fino a un certo punto. E' il modo in cui lo utilizzi che fa la differenza.

7.5/10

Highlights: 
Algorhithm, Th dark side, Something human, Thought contagion, Get up and fight, Dig down.

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