Alle 9 in punto maledico prima la sveglia e poi me stesso per avere fatto troppo tardi ieri sera. Apro gli occhi realizzando che il malvagio strumento ha interrotto un sogno di cui ricordo solo frammenti sparsi, ma che mi stava lasciando una sensazione tutto sommato positiva. Colgo dunque l'occasione per ri-maledire la sveglia mentre il mio cervello comincia a mettere a fuoco il motivo che mi ha spinto a riposare 5 ore scarse: oggi è il giorno dell'anteprima di A head full of dreams, il lungometraggio che celebra la carriera dei Coldplay. Provo ad essere poetico, considerando che passerò da un sogno a una testa che in teoria di sogni è piena. Tento di auto-motivarmi considerando che ha smesso di piovere, e che quindi risparmierò le imprecazioni che provoca il traffico di Milano in una giornata uggiosa. Ma non c'è proprio nulla da fare: non ho molta voglia di assistere alla proiezione della storia di una delle mie ex-band preferite.
Non penso che i Coldplay abbiano tradito le attese, perché solo un pazzo potrebbe sostenere una tesi simile. Passare una camera da letto adibita a sala prove a un tour negli stadi con più di 5 milioni di biglietti venduti nel giro di vent'anni scarsi non è roba da niente. Il loro valore è francamente incontestabile. Semplicemente, quando le loro scelte stilistiche non combaciavano più con i miei gusti personali, ho dato una pacca sulla spalla a Chris Martin e soci con grande rispetto e ho smesso di aspettarmi qualcosa in grado di farmi provare le emozioni di Parachutes e A rush of blood to the head. Un po' come quando ti accorgi che non hai più moltissimo da condividere con il tuo amico d'infanzia, quello che ti ha accompagnato in un altro periodo della tua vita, e ti allontani in modo naturale senza serbare rancore. Questo è il motivo per cui non sono andato a San Siro l'estate scorsa, snobbando un concerto che molti miei amici avevano definito clamoroso.
La pellicola si apre proprio con i colori dell'ultimo tour, con quei quattro puntini che si dimenano sul palco dello stadio di Sao Paulo circondati da 100.000 anime urlanti munite di braccialetti fluorescenti. Uno spettacolo che avevo già intravisto in rete, ma che al cinema ha l'effetto immediato di fare vacillare qualcosa nelle mie convinzioni: che mi sia perso qualcosa? Ma no, i “miei” Coldplay sono quelli degli inizi. I ragazzi che al college ci vanno solo per trovare altri appassionati di musica con cui suonare e che si divertono a farsi riprendere da Mat Whitecross, un aspirante regista che incontrano prima di formare la band. Un amico vero, che un bel giorno si rende conto di avere in archivio più di 1000 ore di girato e si offre di fare una selezione e ricavare un film capace di raccontare l'intero percorso dei ragazzi di Londra. Inizialmente Chris non sembra entusiasta dell'idea. Ma dopo avere visionato alcuni clip, si rende conto che è il momento giusto per un'operazione simile. Perché se è sacrosanto pensare sempre al prossimo passo, certe volte è anche opportuno fermarsi a osservare tutto quello che è successo finora.
Memore dell'ottimo Oasis:Supersonic, confido molto nella bravura di Whitecross. E faccio bene, perché la scelta di seguire un ordine cronologico avendo cura di saltellare tra presente e passato è vincente. Fa un certo effetto passare da Chris che si rivolge alla telecamera promettendo agli inesistenti spettatori del 1998 che nel giro di quattro anni sarebbero diventati una grande band alle immagini di un live del 2002. Così come è inevitabile sorridere paragonando il primo concerto in assoluto dei Coldplay agli stadi che brulicano di fan festanti. Sono testimonianze preziose, perché sottolineano quanto l'ironia di Chris (“Buon per voi che siete venuti a sentirci oggi, che non siamo ancora famosi come i Bon Jovi”) in realtà nascondesse un desiderio reale, un obiettivo da raggiungere, una voglia non comune di arrivare in cima. La netta sensazione è che il leader dei Coldplay sapesse già che in futuro quei filmati sarebbero stati utilizzati per celebrare il successo del suo gruppo. E il fatto stesso che ogni singola tappa sia stata ripresa meticolosamente rende la pellicola unica: si tratta della prima volta in assoluto che una band di fama mondiale può essere raccontata in questo modo, e non attraverso reperti raffazzonati qua e là, come fotografie sbiadite o ricordi di amici, parenti e collaboratori.
Tra momenti di euforia e i rari periodi no (l'allontanamento temporaneo di Will Champion, l'ispirazione che non arriva in X&Y e il divorzio tra Chris e Gwyneth Parltrow), quello che emerge del film è piuttosto chiaro: i Coldplay sono una famiglia. Da quando si sono incontrati hanno fatto tutto insieme. Il valore dei singoli componenti della band è senza dubbio inferiore rispetto a quello della squadra. Mat non ha mai smesso di seguirli, e perfino il loro primo manager Phil Harvey (da loro spesso definito il quinto membro della band) è un amico del college. E anche se ora sono diventati enormi, sembra che le cose non siano cambiate: la passione genuina di Chris che viene immortalato quando fa sentire per la prima volta The scientist ai suoi amici è la stessa che manifesta quando si ritrova a dare istruzioni a Beyoncé suonando quattro accordi su una tastiera in una camera da letto. Sono scene come questa che mi fanno ritrovare i “miei” Coldplay, che mi fanno pensare di essermi effettivamente perso qualcosa. Proprio perché sono stato un fan della prima ora, avrei dovuto essere tra i 117.000 di San Siro. A raccogliere frammenti sparsi di un sogno divenuto realtà, celebrando l’apice di una splendida carriera.
La pellicola si apre proprio con i colori dell'ultimo tour, con quei quattro puntini che si dimenano sul palco dello stadio di Sao Paulo circondati da 100.000 anime urlanti munite di braccialetti fluorescenti. Uno spettacolo che avevo già intravisto in rete, ma che al cinema ha l'effetto immediato di fare vacillare qualcosa nelle mie convinzioni: che mi sia perso qualcosa? Ma no, i “miei” Coldplay sono quelli degli inizi. I ragazzi che al college ci vanno solo per trovare altri appassionati di musica con cui suonare e che si divertono a farsi riprendere da Mat Whitecross, un aspirante regista che incontrano prima di formare la band. Un amico vero, che un bel giorno si rende conto di avere in archivio più di 1000 ore di girato e si offre di fare una selezione e ricavare un film capace di raccontare l'intero percorso dei ragazzi di Londra. Inizialmente Chris non sembra entusiasta dell'idea. Ma dopo avere visionato alcuni clip, si rende conto che è il momento giusto per un'operazione simile. Perché se è sacrosanto pensare sempre al prossimo passo, certe volte è anche opportuno fermarsi a osservare tutto quello che è successo finora.
Memore dell'ottimo Oasis:Supersonic, confido molto nella bravura di Whitecross. E faccio bene, perché la scelta di seguire un ordine cronologico avendo cura di saltellare tra presente e passato è vincente. Fa un certo effetto passare da Chris che si rivolge alla telecamera promettendo agli inesistenti spettatori del 1998 che nel giro di quattro anni sarebbero diventati una grande band alle immagini di un live del 2002. Così come è inevitabile sorridere paragonando il primo concerto in assoluto dei Coldplay agli stadi che brulicano di fan festanti. Sono testimonianze preziose, perché sottolineano quanto l'ironia di Chris (“Buon per voi che siete venuti a sentirci oggi, che non siamo ancora famosi come i Bon Jovi”) in realtà nascondesse un desiderio reale, un obiettivo da raggiungere, una voglia non comune di arrivare in cima. La netta sensazione è che il leader dei Coldplay sapesse già che in futuro quei filmati sarebbero stati utilizzati per celebrare il successo del suo gruppo. E il fatto stesso che ogni singola tappa sia stata ripresa meticolosamente rende la pellicola unica: si tratta della prima volta in assoluto che una band di fama mondiale può essere raccontata in questo modo, e non attraverso reperti raffazzonati qua e là, come fotografie sbiadite o ricordi di amici, parenti e collaboratori.
Tra momenti di euforia e i rari periodi no (l'allontanamento temporaneo di Will Champion, l'ispirazione che non arriva in X&Y e il divorzio tra Chris e Gwyneth Parltrow), quello che emerge del film è piuttosto chiaro: i Coldplay sono una famiglia. Da quando si sono incontrati hanno fatto tutto insieme. Il valore dei singoli componenti della band è senza dubbio inferiore rispetto a quello della squadra. Mat non ha mai smesso di seguirli, e perfino il loro primo manager Phil Harvey (da loro spesso definito il quinto membro della band) è un amico del college. E anche se ora sono diventati enormi, sembra che le cose non siano cambiate: la passione genuina di Chris che viene immortalato quando fa sentire per la prima volta The scientist ai suoi amici è la stessa che manifesta quando si ritrova a dare istruzioni a Beyoncé suonando quattro accordi su una tastiera in una camera da letto. Sono scene come questa che mi fanno ritrovare i “miei” Coldplay, che mi fanno pensare di essermi effettivamente perso qualcosa. Proprio perché sono stato un fan della prima ora, avrei dovuto essere tra i 117.000 di San Siro. A raccogliere frammenti sparsi di un sogno divenuto realtà, celebrando l’apice di una splendida carriera.
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