Dopo il beat preoptente di Born Slippy degli Underworld, scelto come sfondo per le promesse finali di un Mark Renton intenzionato a rigare dritto e scegliere la vita, sui titoli di coda di Trainspotting spunta un valzer bizzarro. Si intitola Closet Romantic, ed è a tutti gli effetti l'esordio discografico da solista di Damon Albarn. Un ragazzo ventisettenne che già all'epoca, mentre con i suoi Blur cercava di contendere agli Oasis lo scettro della miglior band britpop, mostrava chiari segnali di quanto il suo istinto esploratore non ne volesse sapere di rimanere rinchiuso nel recinto del rock.
Oggi, a quasi un quarto di secolo dall'uscita dello storico film di Danny Boyle, i progetti concepiti dalla mente di Albarn non si contano. In primis, i Gorillaz: sei album all'attivo e il recente annuncio della serie audiovisiva Song Machine, distribuita in episodi sparsi, come a riflettere la schizofrenica rapidità di un mondo in continua evoluzione. E i The Good, The Bad & The Queen, insieme a Paul Simonon dei Clash, Simon Tong dei Verve e al pioniere dell'afrobeat Tony Allen. Ma queste sono soltanto le due realtà più note, perché la discografia di Damon pullula di progetti estemporanei e creazioni occasionali. Basta pensare ai Rocket Juice & The Moon, ennesimo supergruppo costituito insieme al fedele Allen e a Flea dei Red Hot Chili Peppers, O ai continui flirt con collettivi africani che hanno prodotto almeno tre dischi (Mali Music nel 2002, Kinshasa One Two nel 2011 e Maison Des Jeunes nel 2013). Giusto per non farsi mancare nulla, Albarn ha lavorato su varie colonne sonore e ha perfino realizzato un paio di opere teatrali.
Cercare di mettere ordine in una simile quantità di produzioni è un'impresa quasi impossibile. Ma forse l'ordine non è un criterio da prendere in considerazione quando si parla di un artista vulcanico, che ha un'innata predisposizione a collaborare, a rischiare e a mischiare continuamente le carte. «La prerogativa della musica rock è di non avere radici. Il rock è sperimentale per natura, e quando vuole trovare a tutti i costi la sua identità smette di avere un significato», sentenzia Damon nel 2003. Una considerazione che nel caso specifico serve a giustificare lo spiazzante Think Thank, ma che in generale descrive il suo pensiero artistico; dopotutto, non si può certo dire che i primi sei album dei Blur avessero seguito una formula sonora e compositiva ben definita. Se un alieno ascoltasse singoli come Girls & Boys, Song 2 e Tender, provenienti da tre dischi consecutivi pubblicati nel giro di 5 anni, farebbe fatica a trovare un inequivocabile filo conduttore. «A volte è difficile spiegare alla gente che stai facendo un percorso, e forse non sei ancora arrivato; ma non mi sono mai fatto problemi a presentare anche quella parte del viaggio. Senza la piena consapevolezza dei propri errori non si va da nessuna parte».
Sebbene sperimentare e sfidare continuamente i propri limiti e quelli della musica sia un principio sano e necessario per evolversi, qualcuno potrebbe obiettare che a farne le spese, di fronte a svolte continue e ad un numero così elevato di progetti ed intuizioni, possa essere la qualità. Un'argomentazione che a Damon interessa poco. «Io scrivo con le emozioni, è l'unica via che conosco. Faccio il cantautore perché voglio esprimere gioie e paure attraverso la musica. Nelle note c'è la mia vita». Un'urgenza che nel 1998 trasforma un'innocua conversazione con il fumettista Jamie Hewlett in una visione concreta. «I Gorillaz sono nati in un contesto meravigliosamente spontaneo. Stavamo cazzeggiando sul divano, e all'improvviso ci siamo chiesti se non fosse il caso di creare una band immaginaria. A quel punto Jamie mi ha detto che sarebbe andato nel suo studio a disegnare dei personaggi. Io gli ho risposto che sarei andato nel mio a scrivere musica, e che poi avremmo messo insieme i nostri lavori».
Uno dei motivi per cui Damon si ritrova a condividere un appartamento con Hewlett è la fine della sua storia con Justine Frischmann degli Elastica. Una relazione lunga e significativa, che tra l'altro l'aveva anche introdotto all'eroina. «Di ritorno da un tour, me la sono trovata pronta in salotto. E ho pensato: “Perché no?”». Damon ha raccontato più volte il suo rapporto con la droga, e l'argomento è tornato di moda ai tempi di Everyday Robots, il suo primo (e finora unico) album solista del 2014. “La stagnola e un accendino / (…) / Cinque giorni attivi e due giorni di pausa”, canta esplicitamente in You And Me, quasi a dedicare un tributo al periodo dell'assuefazione. Sebbene la parola tributo possa sembrare fuori contesto, Damon si è espresso in maniera sincera a riguardo della sua dipendenza: pur mettendo tutti in guardia rispetto all'abitudine malsana, sostiene di avere beneficiato degli effetti dell'eroina. «Non posso negare che mi abbia in qualche modo illuminato creativamente. Io l'ho vissuto come un esperimento; ma purtroppo questo esperimento se diventa routine ti può rubare la vita. Sono stato fortunato, perché non ho subito effetti collaterali negativi e mi alzavo ogni mattina con l'entusiasmo di fare musica. Inoltre, non ho nemmeno avuto bisogno della riabilitazione, perché l'ho trovata in maniera naturale andando a visitare l'Africa. In quel momento sono riuscito a percepire la vera libertà a mente lucida».
Come il Renton di Danny Boyle, a un certo punto Damon ha messo la testa a posto.
L'importanza dei viaggi nella vita (artistica e non) di Damon Albarn è centrale. Tra le sue mete preferite c'è la Jamaica, oltre all'onnipresente Africa. Ma anche una terra diametralmente opposta per clima e posizione: l'Islanda. «Da piccolo sognavo spesso delle spiagge nere. Poi un pomeriggio, guardando una trasmissione sull'Islanda, ho notato che lì esistevano davvero. Così ho preso un aereo da solo e sono andato a vederle con i miei occhi». L'episodio risale al 1996, anno in cui i Blur incidono il quinto disco in parte a Londra, e in parte proprio nell'isola dell'Europa Settentrionale. Un'isola alla quale rimane legato, come dimostra la colonna sonora composta per 101 Reykjavik nel 2000 e il recente annuncio di un nuovo progetto orchestrale ispirato ai paesaggi islandesi (The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows).
Conviene rassegnarsi: stare dietro a tutto quello che combina quest'uomo è una vera sfida.
Qualcuno potrebbe rimanere stupito dal fatto che in queste poche righe non abbia menzionato nomi enormi, come quelli di Bobby Womack (che si è rivolto a lui per produrre il disco del congedo definitivo), Massive Attack (con i quali ha collaborato a diverse riprese) e la parata di artisti che hanno contribuito alla causa dei Gorillaz (da Lou Reed ai De La Soul, da Neneh Cherry a Ike Turner, da George Benson a Snoop Dogg, da Jean-Michel Jarre a Mick Jones). Ci sarebbe un elenco a parte di illustri collaborazioni sfumate, nel quale svetterebbe il nome di David Bowie. Ma come già detto, fare ordine non è possibile quando si ha a che fare con un artista poliedrico e dinamico, che vive la musica giorno per giorno. «Quando apro la baracca, sono tutti i benvenuti. Le uniche condizioni che pongo sono un buon orecchio e l'apertura mentale. Sono cambiato rispetto a quando ero più giovane, ed ora vivo questo viaggio con più stabilità e maturità. Forse oggi mi muovo in maniera meno frenetica, ma non perderò mai la voglia di avventurarmi in territori che non conosco». A questo punto, i casi sono due: o sono io che non conosco il significato della parola “frenetico”, oppure qualcuno dovrebbe spiegarlo a Damon Albarn. «Ho imparato una cosa dalla vita: quando credi di essere arrivato, la meta cambia. L'unica cosa che posso fare è accettare questa regola e andare avanti».
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