Mentre due o tre anni fa milioni di persone riempivano gli stadi di tutto il mondo per offrire il proprio supporto al coloratissimo tour di A Head Full Of Dreams, la frangia di contestatori dei Coldplay aumentava a dismisura. Chi non li aveva mai sopportati (e supportati) si è sfregato le mani assistendo al proliferare di aggettivi come “noiosi”, “bolliti”, “venduti”. Nel più classico dei meccanismi moderni, che prevede la fondazione fulminea di veri e propri partiti a favore o contro qualsivoglia oggetto di discussione, l’intolleranza nei confronti di Chris Martin e soci ha preso le sembianze di meme sarcastici e articoli derisori. L’ultimo nel quale mi sono imbattuto, recita più o meno così: “Oggi è un giorno triste per la musica: i Coldplay hanno deciso di non sciogliersi”.
L’accanimento nei confronti di alcune band, essenzialmente responsabili di avere raggiunto un enorme livello di notorietà, esiste da sempre; ma oggi risplende di una luce ben più abbagliante grazie all’amplificazione garantita dai social network. Il caso più eclatante è quello dei Nickelback: un gruppo capace di vendere più di 50 milioni di dischi e riempire stadi, ma allo stesso tempo di conseguire il poco invidiabile primato di band più odiata al mondo. Ma se una delle accuse principali mosse a Chad Kroeger e soci riguarda la loro immobilità artistica, i Coldplay si sono ritrovati in questa curiosa situazione in seguito a una scelta opposta: quella di evolversi, mettersi alla prova e – perché no – avvicinarsi consapevolmente al pop. Un iter familiare, che conduce alla classica affermazione che almeno una volta abbiamo pronunciato (o sentito pronunciare) nella vita: “Mi piacevano all’inizio, poi si sono commercializzati”. O “si sono persi”. Non tutti riescono a tollerare la trasformazione di qualcosa che sembrava esclusivo in un prodotto apprezzato universalmente.
In parte mi sento anche io vittima di questo meccanismo perverso, che talvolta mi impedisce di godere insieme ai “nuovi arrivati” di un fenomeno che ho avuto la fortuna di intercettare (e amare) prima del successo planetario. Forse non è un caso che la mia passione per i Coldplay abbia cominciato a scricchiolare dal cambio di direzione di Viva La Vida. Pur consapevole di trovarmi di fronte a un disco inappuntabile, non potevo fare a meno di rimpiangere il suono più scarno di Parachutes, l’album del cuore. L’intimità di Ghost Stories ha risvegliato il mio fervore, mentre ho fatto molta fatica a digerire A Head Full Of Dreams. Ho espresso il mio disappunto sostenendo che fosse un disco privo di anima: prodotto ad arte, ma di una superficialità a tratti sconcertante. Ciononostante, non sono mai passato dalla parte degli hater. Un po’ perché mi sembrava irrispettoso. Un po’ perché non ho memoria di un artista in grado di evitare di fare qualche passo falso.
Chissà se Chris Martin, Guy Berryman, Jonny Buckland e Will Champion sono turbati o condizionati dal crescente fastidio nei loro confronti. Personalmente, ho trovato geniale l’operazione di annunciare l’uscita del nuovo disco attraverso delle lettere spedite via posta ai fan. Non che i Coldplay non ci avessero abituati a campagne pubblicitarie stravaganti, ma questa – in un’epoca in cui è sufficiente premere invio per raggiungere istantaneamente il mondo intero – le batte tutte. Ho pensato che potrebbe essere interpretata come una sorta di sberleffo ai danni dei nostalgici dell’esclusività: la freddissima comunicazione digitale moderna, destinata a tutti e a nessuno, che viene sostituita da un messaggio ad personam, molto più caldo almeno nella forma e nelle intenzioni. O forse si può leggere come preciso intento di volere escludere dalla comunicazione tutti quelli che di fronte alla notizia avrebbero fatto spallucce, o colto l’occasione per ironizzare. Infine, ho sperato che si trattasse di un indizio sulla musica contenuta in Everyday Life: come dire che non dobbiamo aspettarci un album patinato, dove in qualche canzone appare una Rihanna o una Beyoncé. Probabilmente le mie sono solo congetture, e la manovra aveva il solo scopo di creare attesa e fare parlare dell’album; ma, se parliamo di musica, le cose stanno proprio così.
Perché in questa ora scarsa suddivisa concettualmente in due parti non c’è traccia di cori da stadio, arrangiamenti dance o hit radiofoniche. È un disco decisamente elegiaco, che in più di un episodio si avventura in esplorazioni per nulla scontate, traendo ispirazione da culture e tradizioni lontane dall’Occidente. È il caso di Church, che cita il cantante pakistano qawwal Amjad Farid Sabri, o di Bani Adam, che ospita un testo della poetessa iraniana Saadi Shirazi. O del singolo Arabesque, con i fiati impazziti orchestrati da Femi Kuti, la cui nazione d’origine (la Nigeria) viene apertamente citata nella soave Èkó. Gli archi di Sunrise, il gospel di BrokEn e i cori solenni di When I Need A Friend virano invece verso il sacro, mentre in Wonder Of The World / Power Of The People, Old Friends e Guns l’arrangiamento è ridotto a chitarra e voce (un minimalismo che ricorda gli esordi dei primi anni zero). Daddy e Cry Cry Cry sono due dolci ballad (la prima funerea, la seconda solare), mentre l’unico brano che si può lontanamente associare a una folla in delirio è l’altro singolo, Orphans.
Diciamolo: i Coldplay hanno tirato fuori un disco che non c’entra nulla con le impalcature smaccatamente pop di A Head Full Of Dreams. Hanno deciso che è tornato il momento di sperimentare. Di sfidare nuovamente i propri limiti. Ma se sperimentare significa tentare di mettere a fuoco qualcosa, è bene ricordare che molto spesso il frutto delle sperimentazioni musicali non centra l’obiettivo. Esistono una miriade di dischi notevoli che mostrano spunti interessanti, ma li presentano in maniera disarmonica, poco naturale e poco coesa. L’esatto contrario di Everyday Life, che raggiunge il risultato con classe e coerenza, fregandosene di tutto: della discografia, delle tendenze e forse perfino del pubblico (compresi i fedelissimi che negli anni hanno abbracciato con euforia tutte le divagazioni stilistiche della band). Probabilmente quest’opera toccante e ambiziosa non basterà a placare l’incomprensibile fastidio sbandierato in rete da chi ha deciso di schierasi a priori contro i Coldplay. Ma d’altra parte, come sosteneva Goethe, “parlare è un bisogno; ascoltare è un’arte”. Aggiungiamo a questa massima una postilla: ascoltare senza pregiudizi, nel mondo in cui viviamo, è un’utopia. Forse ogni tanto conviene rinunciare all’ironia imperante e provare a pensare con la propria testa. E lasciarsi guidare solo e unicamente dalla musica. Basta guardare con i propri occhi un gruppo globale (l’ultimo gruppo globale?) come i Coldplay che suonano sulle mura di Amman in Giordania, per recuperare quella magia impalpabile, e sentirla presente e vera. E a quel punto, nemmeno il sarcasmo può scalfire l’utopia.
8.5/10
Highlights: Tutto.
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