Drum & bass morbosamente legata agli anni 90; "Golden ticket" non punta ad innovare, ma si limita a celebrare i rave della fine del secolo scorso. 7/10
Highlights: Bad boy (back again), Get on it, Battle, Love you like this, Touchline, Golden ticket.
La macchina di Chase & Status è tutt'altro che nuova: il terzo lavoro in studio suona come un mixtape dei Groove Armada circa 1999. Con tutti i pro e i contro del caso. 6.5/10
Eppure si muove. La presunta staticità stilistica di Vasco Brondi e delle sue Luci viene messa in discussione dal terzo album ufficiale, figlio di una gestazione lunga quattro anni. "Costellazioni" gioca con strutture ritmiche e timbri mai presi in considerazione in precedenza; inoltre Vasco interpreta i testi con una vena melodica mai così accentuata, anche se non c'è abbastanza convinzione per celebrare il passaggio definitivo da "parlato" a "cantato". Come spesso capita quando si tenta di varcare i propri limiti, i risultati non sono sempre convincenti: ciò che conforta è però il fatto che il livello di poesia e l'impatto emotivo generale sono così forti da ricordare le tanto decantate canzoni da spiaggia deturpata. Da qui si parte, o forse sarà opportuno fare un passo indietro; per ora quello che conta è che "Costellazioni" - pur essendo espressione di un periodo artistico di transizione - non è affatto un disco inutile. 7/10
Highlights: La terra l'Emilia la luna, Macbeth nella nebbia, I Sonic Youth, Firmamento, Padre nostro dei satelliti, 40 km.
Le accuse di essere il principale responsabile della svalutazione del genere dubstep non possono che rimbalzare sulla solida corazza di Sonny John Moore. I puristi del genere (gli inglesi, visto che il genere affonda le radici in quel di Londra) hanno puntato il dito contro di lui, incriminandolo per aver diffuso in malo modo un pensiero che fino al suo avvento era riservato a una nicchia elitaria. La risposta del produttore californiano è implicita nel nuovo album (che tra l’altro si può anche tradurre con la parola “nicchia”), e assume le sembianze di un “chissenefotte” scritto a caratteri cubitali. L’attitudine che ha consacrato Skrillex non cambia molto: i fan si troveranno completamente a proprio agio tra distorsioni, taglia e cuci, batterie schiacciate, onde sonore barcollanti e i famigerati “drop”. Per il produttore losangelino non esiste il concetto di vergogna: la riprova è nella title track, che ospita al microfono l’urlatore più zarro che la storia recente dell’hip-hop ricordi, ovvero Fatman Scoop. Il selvaggio rapper newyorkese raccoglie l’invito con entusiasmo, e nel suo intervento decide di andare sul sicuro prodigandosi nel suo marchio di fabbrica – che consiste in aizzamenti terra-terra tipo “Su le mani!”, “Cassa!” o “Saltellare!”. Brani come "Try it out" e "Ragga bomb" (che sfregio sfoggiare un featuring con gli inglesissimi Ragga Twins!) seguono piste già battute. Largo quindi a synth violenti e beat grossi, voci effettate e bassi ignoranti. Ma "Recess" non si limita a ripetere; qualcosa di nuovo arriva infatti dalla vibra semi-house che non ti aspetti di "Fuck that", da un non scontato ibrido rave/hip-hop tipo "Dirty vibe" e soprattutto dalla conclusiva "Fire away", che esibisce un Sonny sorprendentemente morbido.
Alla fine non deve stupire che si parli tanto di Skrillex: nel bene o nel male (questione soggettiva), da un punto di vista strettamente tecnico (e preso con il giusto piglio) rimane uno dei produttori più talentuosi della moderna scena elettronica. 7.5/10
Highlights: All is fair in love and brostep, Recess, Dirty vibe, Ragga bomb, Fuck that, Ease my mind, Fire away.
"Forward forever" è una splendida macchina del tempo, che riavvolge il nastro di vent'anni. E lo fa con intelligenza, trasportando il credo di Bristol in un'epoca che ne ha custodito e sviluppato i principi base, ma fa molta fatica a sfornare con continuità musica ispirata come ai tempi d'oro. Le contaminazioni moderne (di stampo prevalentemente dubstep) ci sono - com'è ovvio che sia; ma il cuore del disco degli Author è inequivocabilmente trip-hop. 7.5/10
Highlights: In the sky, Innovate, My only, Paint my numbers, Jah live, Roman.
Nella musica di Joan Wasser c’è classe, fantasia ed esperienza. Nel corso della sua carriera ha condiviso palchi e sale di registrazione con musicisti d’indiscusso carisma (tra i quali Lou Reed, Elton John e Antony Hegarty), e l’episodio del 1997 - quando fu ritrovato il corpo dell’allora fidanzato Jeff Buckley in un fiume del Tennessee – ha lasciato segni indelebili sulla sua vita e sul suo percorso artistico. Le tracce di quella tragedia si potevano infatti toccare con mano nei tre dischi precedenti; ma stando alle sue parole, ora qualcosa è cambiato. Adesso è il momento di lasciare filtrare la luce attraverso le tende dell’anima, e "The classic" vuole essere un glorioso inno alla vita in tutto il suo splendore.
La ben nota esuberanza di Joan colpisce fin dal primo pezzo ("Witness"), che mischia fiati, archi e piani elettrici distorti con carattere: l’intenzione è dichiaratamente soul, il basso sfodera note alla velocità della luce e quando parte lo special sono brividi di gioia. Sulla stessa falsa riga si collocano il singolo "Holy city" e "Shame", mentre la title track si butta in un mirabolante doo-woop dove la parola “Classic” viene pronunciata lettera per lettera, un po’ come faceva Aretha Franklin in "R.e.s.p.e.c.t.". L’intenso crescendo di "Good together" plana dopo sette lunghi minuti sui sussurri e i falsetti di "Get direct", un gentile pugno al cuore. C’è un po’ di blues in "What would you do" (che si risolve in un’intima coda composta da parole rivelatrici: “Ascolta te stesso / Ci sarà sempre qualcosa da imparare / Anche se doloroso / La paura è solo quello che senti quando fai qualcosa di nuovo / Ascolta te stesso / Ci sarà sempre un modo per uscirne”) e nella successiva "New years day", che esita lenta in una nebbia di echi e riverberi lasciando respiro alla toccante interpretazione vocale di Joan. A chiudere, il tepore di "Stay" e l’agrodolce ritmo in levare di "Ask me" completano il quadro di un’opera che trabocca di talento e sensibilità: da mettere in repeat ad libitum.
In fondo all’immenso album di debutto dei Disclosure – due ventenni che sono riusciti a catturare lo spirito della prima house music e a trasferirlo con stupefacente semplicità ai nostri tempi – risplende un brano di un’intensità emotiva spiazzante, intitolato "Help me lose my mind". Tra i tanti remix in circolazione, quello di Sohn colpisce per freschezza e ispirazione.
Dietro a questo pseudonimo si cela Christopher Taylor, londinese trasferitosi a Vienna alla ricerca della serenità. Nella testa di Christopher la “solitudine” di Londra è negativa (la sensazione di vuoto che si prova quando ci si sente soli pur essendo in mezzo a milioni di persone), mentre quella di Vienna è positiva (aria fresca e camminate, voglia di scoprire se stessi). In "Tremors" le due solitudini convivono: si alternano come notte e giorno, come buio e luce. Sul piano squisitamente armonico e melodico il disco richiama le intuizioni dei Radiohead (per ovvie ragioni di suono, il riferimento principale è "Kid a") e le traghetta fino all’oggi, fino a James Blake, Jamie Woon e Chet Faker. Lo fa con estrema delicatezza e perfetto equilibrio, diventando così uno splendido manifesto dell’avanguardia pop-elettronica che si sta lentamente (ma inesorabilmente) insinuando nel pensiero collettivo moderno.
Nonostante il timbro elettronico domini, sarebbe un delitto considerare Sohn un semplice producer: Taylor è un cantautore contemporaneo a tutti gli effetti. E chi volesse una conferma non deve fare altro che cercare su YouTube il suo unplugged a base di piano e campionatore al Casino Baumgarten di Vienna: i brividi sono assicurati 9/10