Dalla fine degli anni 90 silenzioso autore e producer eclettico dietro a nomi come Timo Maas, Sugarbabes e Sounds Of Life, Martin Buttrich ha poi deciso di venire allo scoperto con il suo nome attraverso una serie di dodici pollici su etichette ultra-quotate della scena dance (Planet-E, Four:Twenty e Poker Flat). "Crash test" è il suo primo full lenght, e impressiona per coerenza e precisione stilistica, riuscendo nel suo minimalismo ad integrare elementi jazz con la naturalezza di chi ne sa.
7.5/10
Highlights: Back it up, I'm going there one day, Hoochie mama, Song six, You must be this high, You got that vibe.
Come si legge sul sito ufficiale: Senior è la controparte introversa, rimuginante e talvolta aggraziata di Junior, colmo di segreti oscuri e ricordi distorti. Pochi come Svein e Torbjorn hanno il dono di creare melodie così giocose e fiabesche. E il dono è qui, tangibile e vivo, in mezzo a linee di basso funk, dolci organetti che saltellano e una patina psichedelica che avvolge il tutto con estrema delicatezza.
8/10
Highlights: Tricky two, The alcoholic, Senior living, The fear, Coming home.
Ci sono band che si evolvono costantemente, album dopo album, tracciando una linea a 45 gradi nel grafico tempo/maturità. Altre band invece fanno le stesse cose per una vita, per poi venire improvvisamente fulminate da qualche evento e imboccare strade che non avresti mai immaginato. Bene, all’alba del nono disco si può ragionevolmente affermare che questi avvenimenti non faranno mai parte della storia dei Goo Goo Dolls. La band di Buffalo si è assestata dopo i primi tre dischi in quel contesto che sommariamente viene definito pop-rock, raggiungendo l’apice della celebrità mondiale con l’album "Dizzy up the girl", poco prima della virata del millennio. Sulla scia di un singolo rilevante come "Iris" ne è arrivato un altro ("Here is gone") con il successivo "Gutterflower"(2002). E poi? Un "Let love in" (2006) - tutt’altro che brutto, ma decisamente prevedibile – e un più che giustificato "Greatest hits". 4 anni dopo il discorso non cambia di una virgola; se è un bene o un male decidetelo voi.
6.5/10
Highlights: As I am, Notbroken, Nothing is real, Still your song, Soldier.
Quando Mike Shinoda annunciò che il quarto disco dei Linkin Park sarebbe stato un concept molti diedero poco peso alla notizia. Per tutta risposta "A thousand suns" inizia non con una intro, ma con due. E l’aria che tira non è affatto leggera: l’apertura ("The requiem") gira attorno ad una voce lontana che recita un mea culpa apocalittico, decretando la nostra fine nel fuoco di mille soli a causa dei peccati commessi da noi, dai nostri antenati e dalla nostra prole. La tensione sale ancora di più quando "The radiance" cita Robert Oppenheimer, il fisico statunitense ricordato per avere contribuito alla creazione della prima bomba atomica (fatto che lo indusse a rifiutare di collaborare alla creazione della bomba ad idrogeno). Il tema del fuoco ritorna subito nel primo vero pezzo dell’album ("Burning in the skies"), dove Chester Bennington canta di innocenza bruciata nei cieli. Si respira inquietudine anche nella percussiva "When they come for me", che fa leva su un rap arrabbiato alla Public Enemy (anche se una citazione molto più lampante arriverà più avanti con "Wreteches and kings"). Il barlume di speranza che affiora con "Robot boy" (“Il peso del mondo ti darà la forza per continuare”) è effimero, dato che il brano è seguito dai pensieri cupi di "Jornada del muerto", "Waiting for the end" e "Blackout". Da brividi il discorso di Martin Luther King su Wisdom Justice And Love che conduce all’emozionante "Iridescent": ecco un altro tentennio verso la speranza subito troncato (da "Fallout", una sorta di reprise del requiem in apertura). Arriva il momento del singolo "The catalyst", che però non c’entra nulla con le hit spaccachart dei Linkin Park che siamo abituati a sentire in radio. La conclusiva e sanguinante "The messenger" provoca un ultimo sussulto e ti lascia lì a meditare ancora un po’, come se ce ne fosse bisogno. E’ scritto anche nelle note di copertina: non volevamo scrivere un disco prevedibile, volevamo osare, a costo di perdere la coscienza “commerciale”. Magari in futuro faranno un passo indietro, ma intanto godiamoci lo splendido presente.
8/10
Highlights: Burning in the skies, Robot boy, Waiting for the end, Iridescent, The catalyst, The messenger.
Considerato il livello di revival raggiunto dai tempi che corrono, c'è davvero bisogno di un duo che vuole rendere omaggio all'epoca del synth-pop? Probabilmente la risposta più votata sarebbe no. Ma si sa che la musica tutta negli ultimi anni si è infilata in un tunnel privo della proverbiale luce in fondo, dove il discorso del bisogno non regge più. Si tratta di considerare lo spazio; c'è quindi spazio per un nuovo duo che vuole rinverdire i fasti dei prima disprezzati e in seguito esaltati anni 80? Ebbene, Theo Hutchcraft e Adam Anderson da Manchester lo spazio se lo creano. Ma non a suon di gomitate e spintoni: non è lo stile che preferiscono. Loro si mettono li in copertina, composti e pettinati, in un essenziale bianco e nero che li rende seri e decisi. Cantano di amore e dolore, riempiono gli arrangiamenti di riverberi senza vergogna, puntano su melodie intense ed evitano accuratamente la legge del "less is more" tanto cara ai producer del nuovo secolo. E come per magia da quei suoni sintetici viene fuori un disco caldo ed emozionante, che rapisce ascolto dopo ascolto senza stancare.
C'è una cosa che colpisce immediatamente ascoltando i tre brani che aprono il nuovo lavoro degli Arcade Fire: la vena espressiva di gran lunga più leggera rispetto a quanto ci avevano fatto ascoltare in precedenza. I toni ultra-cupi di "Funeral" e "Neon light" vengono smorzati da un suono classico e talvolta spensierato ("Ready to start"), ritmi che si riallacciano con facilità a folk e country, pianoforti che scandiscono il tempo in battere ("The suburbs") e perfino un ammiccamento spinto al rock radiofonico anni 80 ("Modern man") tutt’altro che fuori luogo. La tensione emotiva che conosciamo appare con "Rococo" - dove le pennate che trascinano un tempo moderatamente lento sono accompagnate da cori e archi - e soprattutto con "Empty room", dove la tensione iniziale viene improvvisamente squarciata da un turbine sonoro sostenuto e d’impatto. L’impasto di chitarre che caratterizza "City with no children" è seguito da una drammatica "Half light I", che sfocia in una seconda parte più ritmata ma comunque inquietante. "Suburban war", "Wasted hours" e "Deep blue" riportano tutto alla pura classicità che ha aperto l’album, ma in mezzo c’è il rock’n’roll aggressivo - quasi punk - di "Month of may" a spezzare l’incantesimo. Il singolo "We used to wait" è un’ode nostalgica, sospesa e speranzosa, mentre prima della reprise di "The suburbs" che chiude il disco ecco che l’eclettismo della band tocca l’apice con "Sprawl" I e II: l’intimità toccante della prima parte si rovescia in un lucido farneticamento post-disco che proprio non ti aspetti. Non è più tempo di stupirsi di fronte alle intuizioni geniali dei ragazzi di Montréal; adesso bisogna elogiare la padronanza dei mezzi che hanno messo in luce con "The suburbs", un album che molti gruppi – anche più affermati - possono solo sognare.