Ripetitivo pop-rock che ammicca ovunque e conclude pochissimo; e quel falsetto ad un certo punto diventa fastidioso.
5.5/10
Highlights: Love lost, Sweet disposition, Down river, Soldier on.
Il bello di Christopher Stephen Clark è che sarebbe troppo sbrigativo catalogarlo come tipico artista Warp. Perchè è vero, la scelta dei suoni e l'incedere dei groove è assolutamente in linea con lo stile dell'etichetta inglese; ma la sua peculiarità è quella di non lasciare mai le note in secondo piano. Che si tratti delle distorsioni e compressioni pazzesche di "Growls garden", della techno saltellante che verso la fine si trasforma in un'improbabile e allucinata improvvisazione di "Luxman furs", di quell'opera 8-bit sintetizzata in qualche minuto che è "Totem crackerjack", di pezzi industrial ("Rainbow voodoo") o acid ("Look into the heart now") rimane sempre la consapevolezza di avere a che fare con un musicista prima di tutto; tanto meglio, poi, se sa anche fare suonare i suoi dischi in questo modo.
Il sesto disco di Elisa è un ottima miscela di tutte le pieghe che la sua vita artistica ha preso nel tempo, dall'alternative pop dei tempi di "Pipes & flowers" ("Vortexes", "The big dipper") a Sanremo ("Ti vorrei sollevare" insieme a Giuliano Sangiorgi) fino alla maturità ("Lisert"). Ai pochi brani meno incisivi ("Someone to love", "Dot in the universe" o la cover di "Mad world" dei Tears For Fears) si contrappongono dei lampi come la freschissima strofa di "This knot", il simil-crossover di "Your manifesto" o gli accenti interessanti di "Coincidences". Ma una cosa è certa: il picco si raggiunge attraverso il duetto con Anthony Hegarty in "Forgiveness".
Sesto album per i Placebo di Brian Molko, al ritorno nel mondo indipendente dopo la conclusione dei rapporti con Virgin. L'opener "Kitty litter" promette davvero tanto nella sua maestosa efficacia sonora e attraverso un'apertura melodica energica e arrabbiata; il tempo di prendere fiato ed esplode il potente singolo "Ashtray heart", poco in linea con il loro stile ma infinitamente meglio dell'altro (lo stanchissimo, scontato "For what it's worth"). In mezzo ai singoli c'è la title-track, che lascia qualche dubbio con quelle ripetizioni che sanno di datato, mentre "Devils in the details" è accattivante e stesa in maniera perfetta ma le manca qualcosa: si comincia a sentire puzza di bruciato. Infatti escludendo l'ottima "Bright lights" e la decente "Happy you're gone" da questo punto in avanti è una festa di brani poco ispirati ("Julien", "The never-ending why", "Come undone") o addirittura inutili ("Speak in tongues", "Breathe underwater"). Poi ecco, inaspettato, il capolavoro. "Kings of medicine" è di sicuro il pezzo più bello di "Battle for the sun", e ricopre il non trascurabile ruolo di evitare di lasciare l'ascoltatore con l'amaro in bocca a fine album; non basta per salvare il tutto, ma è meglio di niente.