La consueta delicatezza di un cantautore che fatica ad evolversi ma non ad emozionare.
7/10
Highlights: Two grains of sand, The wind that blows, To see is to believe, Who loves the shade, My burden is light.
Rumorismi da dancefloor che dai tempi di "Klunk" (2006) non si evolvono di una virgola. Se stessimo parlando di un singolo non ci sarebbe alcun problema, e infatti in "Metal machine" ci sono delle tracce di un certo spessore. Ma questo è un album. E la techno non melodica può sopravvivere sotto forma di album solo se A) si tratta di qualcosa di davvero innovativo (e non è questo il caso) B) il disco è una raccolta di singoli spacca-pista (cosa che qui succede solo a metà).
Come contraddire i fan di vecchia data di Chris Cornell? E' del tutto normale che ci sia una sorta di shock nell'assistere alla trasformazione dell'arrabbiato frontman dei Soundgarden (e poi dei meno estremisti ma sempre duri Audioslave) in un cantante pop a tutti gli effetti. Di quelli che chiamano il produttore del momento per dare un certo suono all'ultimo disco. Di quelli che si inchinano alla moda del vocoder ("Sweet revenge"). Di quelli che cambiano anche la propria immagine, rendendola contestuale alla nuove direzione musicale che hanno deciso di prendere. Ma sarebbe sbagliato non considerare una serie di particolari tutt'altro che insignificanti. Per esempio che Timbaland non si può più definire "il produttore del momento", ma piuttosto un vero genio. O che un cambiamento può essere visto anche come evoluzione, a maggior ragione se il soggetto in questione è un vero artista (e fino a prova contraria Cornell lo è). E sarebbe da sciocchi rifiutare l'opportunità di ascoltare il risultato di un incrocio bastardo tra un artista e un genio appartenenti a mondi diversi unicamente per una questione di barriere musicali solo apparentemente insormontabili. A volte i pregiudizi possono essere davvero limitanti.
Gli Australiani che secondo alcuni qualche anno fa hanno rivitalizzato la scena drum'n'bass ritornano con "In silico". Produzione brillante (forse troppo), una valanga di melodie e armonie vocali (forse troppe) e il solito marcato spirito rave che si mostra in tutta la sua barbara sfacciataggine con linee di synth graffianti e una sensazione di pienezza del suono che a lungo andare più che arricchire può disturbare. A loro favore c'è la volontà di proporre qualcosa di costruito e particolareggiato in una scena che spesso fa dell'essenzialità la sua ragione di vita; di contro la lunghezza dei pezzi si rivela pesante e controproducente, i beat sono piuttosto ripetitivi e lo schema diventa presto prevedibile.
Questa volta non servono concetti ricercati tipo "Summerteeth" o "A ghost is born", perchè l'ultimo disco dei Wilco, band incline agli sperimentalismi per costituzione, è un'ode alla semplicità. L'inequivicabile messaggio che i ragazzi di Chicago vogliono comunicare è che la stabilità del gruppo (è fatto inusuale che la line-up non sia cambiata di una virgola dalle registrazioni del precedente "Sky blue sky") si stia riflettendo anche in una splendida naturalezza che cresce a braccetto con la loro maturità, portandoli ad incidere un album semplice e bello. Vero, in passato hanno osato di più musicalmente parlando; ma c'è un tempo per ogni cosa, ed ora è il momento di divertirsi. E viene spontaneo aggiungere che se questi sono i risultati, che continuino a farlo fino a quando ne avranno voglia.