5.17.2019

20 anni di Play di Moby


“Trentaseienne pelato, torna a casa. È finita, nessuno ascolta la techno!”, tuona Eminem in Without Me nel 2002. Il bersaglio dei suoi insulti è Moby, produttore newyorkese classe 1965 catapultato dall'underground alla fama grazie a Play (1999). «Sorvolando sulla sua misoginia e omofobia, credo che sia un rapper talentuoso – risponde il musicista americano nel 2014 in un dibattito online con i fan – Oltretutto, mi ha fatto moltissima pubblicità gratis». Una pubblicità sommaria, dato che la musica di Play non è affatto techno. E ingannevole, visto che lo stesso giorno in cui viene pubblicato Without Me esce anche il sesto disco di Moby (18), che debuttando al numero 1 in varie classifiche europee dimostra quanto il trentaseienne pelato sia tutt'altro che finito.

Considerare Play lo spartiacque della carriera di Moby è riduttivo: il disco gli cambia la vita. Non è un caso che la sua prima biografia (Porcelain: A Memoir, 2016) si fermi proprio lì, mentre la seconda parte della storia (Then it Fell Apart, disponibile in Italia dall'11 Giugno) prosegua il discorso ripartendo dall'album della svolta. Un album registrato in uno studio casalingo che si ritrova a competere con musica pop iper-prodotta, diventando un successo senza precedenti in ambito elettronico. Ancora oggi Moby non ha ben chiaro cosa ci fosse di così speciale in Play, un lavoro che giudica discreto, non migliore o peggiore di altri suoi dischi. «Ma se proprio dovessi scommettere sulla qualità che ha reso possibile la connessione con la gente, punterei sulla sua vulnerabilità emotiva».


A questo punto è necessario riavvolgere il nastro di 3 anni per analizzare il punto più basso della carriera di Moby, che ha un nome e un cognome: Animal Rights. Dopo avere accarezzato la notorietà con inni dance capaci di inserirsi alla perfezione nel contesto rave (Go, Next Is The E, Hymn, Feeling So Real, Everytime You Touch Me), il produttore incide un disco pseudo-punk che viene massacrato dalla critica e rifiutato dai fan. Come se la scarsa affluenza ai concerti e il benservito della Elektra non fossero sufficienti, a rendere lo scenario ancora più deprimente ci si mette anche un tumore diagnosticato alla madre. La frustrazione professionale alimentata dalla triste notizia ha effetti devastanti: Moby, astemio da vent'anni, diventa un alcolizzato. È così confuso che pensa seriamente di commettere il suicidio definitivo, comunicando al suo manager Barry Taylor l'intenzione di dare un seguito ad Animal Rights con un album heavy metal cupo e lento. Di fronte alla farneticazione, Barry non si scompone e riporta il suo assistito sulla terra con delicatezza e sincerità: «Tu sei bravo a fare canzoni rock, ma quello che la gente adora è la tua musica elettronica. Li rende felici». Una risposta genuina che si trasforma nella proverbiale luce in fondo al tunnel, convincendo Moby a comporre musica in grado di “regalare felicità, o quanto meno una splendida e consolatoria tristezza”.


Mai definizione fu più azzeccata. Moby parte da una manciata di voci appartenenti a epoche lontane, e le ricontestualizza culturalmente e a livello di suono, fondendo Gospel e Blues con ritmiche elettroniche gentili, dolci note di pianoforte e orchestrazioni semplici ed efficaci. Ma l'ispirazione ritrovata non basta per frenare il suo pessimismo. Prima di andare in stampa Moby crede che nessuno si degnerà di ascoltare il disco, e la cosa non lo turba: male che va, può sempre tornare a studiare filosofia o architettura e appendere i synth al chiodo, rassegnandosi a una vita lontano dai riflettori. Quando si mette a cercare un'etichetta per distribuire il disco in America, la sua negatività sembra trasformarsi in nefasta profezia.


Il suo pezzo preferito è Natural Blues, un brano che si aggiudica l'indesiderabile attestato di ago della bilancia in grado di convincere le label a non pubblicare Play. Daniel Miller della Mute vorrebbe escludere dalla tracklist Bodyrock, considerandola un generico ammiccamento alla scena Big Beat capitanata da Fatboy Slim e Chemical Brothers. E cosa dire dei martellanti e meccanici ritornelli di Find My Baby, Honey e Why Does My Heart Feel So Bad? In assenza di ripetizioni ossessive, Moby esagera nell'altro senso: Porcelain è un pezzo senza ritornello, che suona male perfino alle orecchie del suo autore. Il rock di Southside e le pulsioni Industrial di Machete contribuiscono ad aumentare il rischio che il lavoro venga tacciato di incoerenza. A quanto pare, l'unica cosa semplice dell'album è il titolo. Per il resto, il caos regna sovrano.

Play esce il 17 Maggio del 1999, ma se ne accorgono solo gli addetti ai lavori. Poi, grazie a un'infinità di licenze televisive e all'incursione di Porcelain nella colonna sonora di The Beach (2000), a inizio millennio fa capolino nelle classifiche inglesi, scalandole lentamente e raggiungendo la vetta ad Aprile. Da lì in poi, la strada è in discesa: con i suoi 8 singoli, un fatto più unico che raro quando si parla di album di musica elettronica, Play esplode, accomodandosi nel salotto del pop.


Frutto di una gestazione complicata, il quinto tassello della discografia di Moby non trasforma solo un ex-produttore techno in una star. Cambia la percezione del mondo nei confronti dell'elettronica, che da genere riservato a pochi appassionati diventa una musica credibile per tutti, anche per chi non ha la più pallida idea di cosa siano loop, sample e sequencer. Il segreto? La vulnerabilità, che traspare sia dalle voci tratte da vecchi dischi ricoperti di polvere che da quella fragile e insicura di Moby. I sofferti lamenti del passato che si alternano a melodie disegnate in uno sgangherato studio di Manhattan alla fine del secolo scorso da un'anima tormentata. Le emozioni vere, che indipendentemente dagli strumenti utilizzati riescono sempre e comunque a trovare la strada per farsi sentire. Emozioni che risplendono ancora oggi, a vent'anni di distanza, nella loro inviolabile bellezza.



5.10.2019

25 anni di Weezer dei Weezer


“In box mi sento al sicuro, perché nessuno mi considera. Il box è casa mia, e nessuno mi sente cantare questa canzone”. In The Garage, ode al box convertito in sala prove al numero 2226 di Amherst Avenue a Los Angeles, è l'ultimo brano scritto da Rivers Cuomo prima di registrare quello che passerà alla storia come il Blue Album (1994). A giudicare dal testo della canzone, l'eccentrico frontman non sembra desiderare fama e grandi palchi; in fondo lui sta bene lì, in quel rifugio pieno di fumetti della Marvel, poster dei Kiss e guide di Dungeons & Dragons. È conscio di essere un nerd fuori moda: perché dunque non mettere in chiaro quello che prova?


Esprimere i propri sentimenti senza filtri è senz'altro una dote. Ma forse, Cuomo si lascia un po' prendere la mano dal connubio sincerità/insicurezza che descrive fin troppo bene il suo carattere. Ispirato da un incidente automobilistico del fratello, scrive un pezzo incentrato sulla riscossione di un premio assicurativo (My Name is Jonas). Quando invece una bottiglia di birra trovata in frigo gli fa tornare in mente la causa del divorzio dei suoi genitori (l'alcolismo del padre), interpreta l'episodio come indizio inconfutabile dell'imminente separazione tra il patrigno e la madre, riversando la sua ansia in Say it Ain't So. Le metafore che inventa sono troppo criptiche, e vengono puntualmente fraintese. Undone (The Sweater Song) e Only in Dreams sembrano canzoni d'amore, ma non lo sono affatto: il maglione sfilacciato della prima dovrebbe rappresentare il suo isolamento mentale, mentre il timido teenager e la sua bella irraggiungibile della seconda simboleggiano rispettivamente Rivers e la musica sofisticata che sogna un giorno di riuscire a comporre. I tentennamenti legati ai rapporti sono da ricercare semmai nell'imbarazzante gelosia di No One Else (“Voglio una ragazza che non rida per nessun altro / che quando sono via non si trucchi e non esca di casa”) o nelle mortificanti confessioni di The World Has Turned and Left Me Here (“Ho parlato per ore con la tua foto nel mio portafoglio / E tu hai ascoltato e riso di gusto della mia arguzia / O forse no”). 


Il debutto dei Weezer approda sugli scaffali il 10 Maggio 1994, e in quel momento la parola d'ordine è grunge. Rivers lo sa bene: «Le prime volte che abbiamo suonato dal vivo la gente ci insultava. Ci dicevano: “Andate via, vogliamo una band grunge”». Davanti a contestazioni di questo tipo, la vera rockstar avrebbe probabilmente risposto al fuoco con qualche “fuck you” ben assestato, cavalcando la provocazione e uscendone vincitore. Ma il nostro anti-eroe non porta camicie di flanella e non è esattamente spigliato, quindi la sua reazione si concretizza in un piccolo shock. E chissà, forse questi episodi contribuiscono ad alimentare il complesso inferiorità che lo porta a iscriversi a Harvard per studiare musica classica dopo il successo clamoroso del Blue Album. Un successo che assume proporzioni enormi in relazione al periodo storico di riferimento: in mezzo ad affascinanti poeti maledetti che raccontano storie di droga, morte e depressione, ecco quattro ragazzi goffi e impacciati che giocano a fare i Beach Boys distorti cantando di inadeguatezza e turbamenti da emarginati sociali. Forse il mondo, un mese dopo la tragica scomparsa di Kurt Cobain, aveva bisogno di voltare pagina e di intonare Buddy Holly con leggerezza gustandosi l'esilarante video che cita Happy Days.

Fraintesi o meno, i Weezer spopolano. I problemi arrivano dopo. Perché a distanza di 25 anni da quel 10 Maggio, ogni singolo lavoro della band Losangelina ha pagato dazio al mirabolante esordio. Un botto troppo grande da replicare? Un colpo di fortuna al quale hanno fatto seguito pallide copie (nei casi migliori) e fiaschi colossali (nei casi peggiori)? C'è chi sostiene che i Weezer siano nati e finiti con il Blue Album. Dopo la rivalutazione di Pinkerton, massacrato dalla critica e ignorato dal pubblico nel 1996, si è creato il partito di chi ritiene che i Weezer si siano persi dopo il secondo album (che oltretutto è anche l'ultimo insieme al bassista Matt Sharp, figura chiave in fase di arrangiamento dei brani). Gli hardcore fan, come da definizione, sono invece pronti a difendere l'intera discografia con i denti. Ma qual'è la verità? Difficile a dirsi.

Nonostante mi ritenga un sostenitore accanito, non ho potuto fare a meno di rimanere deluso in alcune occasioni. Il valore inestimabile del primo disco non sarà mai in discussione, e proprio per questo motivo l'insipida trilogia Red Album (2008) / Raditude (2009) / Hurley (2010) mi ha fatto pensare che forse sarebbe stato meglio accantonare le speranze di un ritorno della band ai fasti di un tempo. Ma l'ammirevole sincerità di Rivers è venuta in mio soccorso nel 2014. Il testo di Back to the Shack, singolo tratto dal nono Everything Will Be Alright in the End, è un vero e proprio mea culpa recitato da un Cuomo che ammette di avere perso il controllo della situazione. “Ho dovuto fare degli errori per scoprire chi fossi veramente”, confessa, arrivando a menzionare esplicitamente l'anno di grazia 1994 e a dichiarare la sua volontà di ritornare in quella baracca di Amherst Avenue da dove tutto è iniziato. Un'ammissione chiara: dopo avere compiuto il proverbiale giro, cinque anni fa i Weezer erano intenzionati a ripartire da zero. Un'operazione che ha dato i suoi frutti, mostrando un songwriting rinvigorito e convincente, anche se è inutile mentire: certe cose non ritornano.


Può forse uno sfigato divenuto improvvisamente superstar tornare nell'anonimato? Sebbene non si possa affermare che Rivers ci abbia in un certo senso provato, frequentando l'università dopo avere calcato i palchi di mezzo mondo e mettendosi in discussione a prescindere dal successo ottenuto, una volta portata a termine una missione pazzesca come quella di passare da una confortevole tana al riparo da qualsiasi contatto sociale agli MTV Music Awards nel giro di qualche mese le prospettive cambiano. Diventa necessario metabolizzare la metamorfosi e reagire di conseguenza, intraprendendo un nuovo percorso che solo i sognatori potrebbero immaginare privo di errori. Personalmente, la mia disponibilità ad accettare i passi falsi aumenta in corrispondenza del rifiuto dell'ipocrisia e del coraggio di fare della sana autocritica. Poi, una volta rispettato il principio della sincerità (in primis con sé stessi, meglio ancora se condivisa con i fan), vada come vada. Per citare nuovamente Back in the Shack: “C'è ancora molto da fare / E se moriremo nell'oscurità non importa / Almeno abbiamo alzato un polverone”.