3.23.2013

James Blake - Overgrown (2013, Polydor / Republic)

Il dono non si cerca e non si rincorre, perché è impossibile trovarlo o raggiungerlo. Puoi sognarlo, dedicarvi anima e corpo, studiare in maniera ossessiva e raggiungerai certamente dei buoni risultati, se non ottimi. Ma se non nasci con il dono, sappi che non l’avrai mai. Ci sono artisti che abusano del dono, altri che lo sprecano, altri ancora che non riescono a sfruttarlo a dovere. Poi c’è anche chi si accorge di tale fortuna, si applica con dedizione e trova la formula magica per trasformarlo in strumento a tutti gli effetti. James Blake appartiene a questa categoria. Dopo avere lasciato il segno con la sublime cover di "Limit to your love" di Feist (inclusa nel suo primo album del 2011), ha confermato di essere tanto bravo quanto audace arrangiando a modo suo "A case of you" di Joni Mitchell. Da una Canadese all’altra, da un’eroina moderna del folk a una delle più grandi cantautrici di tutti i tempi, il venticinquenne Londinese ha alzato l’asticella. Un po’ come se avesse voluto dimostrare di essere capace di interpretare anche un classico (per molti intoccabile) a modo suo. Il risultato? Un gioiello piano-voce – questa volta privo di decorazioni elettroniche - da ascoltare all’infinito. E proprio da un termine come “infinito” può partire l’analisi dei lavori di James Blake; perchè lo spazio gioca un ruolo di importanza cruciale nelle sue composizioni. Il musicista britannico dosa con parsimonia ogni nota di piano come ogni singolo colpo di batteria, creando una tensione che tiene deliberatamente al guinzaglio aspettando l’attimo giusto per poi liberarla attraverso colpi di genio che sfidano i manuali del perfetto arrangiatore. La title-track che apre il nuovo disco è un brillante esempio di come Blake concepisca la musica dal punto di vista della struttura compositiva: l’apparente architettura minimalista e una (presunta e ingannevole) staticità armonica vengono sconvolte all’improvviso, vuoi con il basso che si ferma e lascia via libera al piano, vuoi con una nota lunga di violino che si apre decisa in un generoso ventaglio di archi (finti o veri, poco importa). Parlando invece di congettura sonora, si ascolti "Life round here" prestando attenzione ai continui e talvolta repentini cambi di colore che si prendono gioco della ripetitività (per molti uno spauracchio, per Blake una giostra dilettevole) riuscendo allo stesso tempo a mantenere il filo del discorso. "Take a fall for me" (insieme a un’icona come RZA) è un omaggio al (tr)hip-hop, perché è bene ricordare che il movimento di Bristol ha aperto svariate strade e menti, e James è consapevole di essere in qualche modo in debito anche con i vari Tricky e Massive Attack. Subentrano vibrazioni dub in "Digital lion" (scritta insieme a un certo Brian Eno) e ritmiche house sghembe in "Voyeur", brani in cui la forma canzone viene in parte oscurata da un’esasperazione stilistica che giova all’equilibrio dell’album, mentre "I am sold" e "Our love comes back" sono le ennesime ballad dolorose sostenute da accompagnamenti tetri e semi-futuristici. Se in "DLM" bastano piano, cori e un basso appena percettibile a creare la giusta atmosfera, nel singolo "Retrograde" a un certo punto entra un arrogante synth a sirena che avrebbe un effetto deleterio su qualsiasi pezzo soul esistente su questo pianeta: guarda caso nel contesto di "Overgrown" non disturba affatto, anzi, arricchisce. Non si fa nemmeno in tempo a chiedersi il perché di questa scelta stilistica che la naturale risposta ci appare davanti a chiare lettere: perché no? James Blake è in grado di infrangere le regole e creare qualcosa di perfettamente coerente, e all’origine di tutto quello che fa non c’è improvvisazione casuale, ma delle solide basi culturali e artistiche. Se aggiungiamo che spesso quando canta ricorda Anthony Hegarty – un altro personaggio che di doni ne sa qualcosa – si capisce immediatamente quanto sia prezioso il suo contributo alla scena musicale dei nostri tempi.

9/10

Highlights: Tutto.

3.17.2013

Justin Timberlake - The 20/20 experience (2013, RCA)

A livello di immagine il film è di quelli già visti: icona pop di provenienza boy-band si libera di vestiti alla moda e punta sull’eleganza - un po’ quello che aveva fatto Robbie Williams con "Swing when you're winning". Ma se nel caso dell’ex Take That c’era anche una direzione musicale ben precisa a dettare il travestimento alla Frank Sinatra (lo swing, appunto), qui le regole del gioco di Timberlake rimangono sostanzialmente in linea con lo stile che da sempre caratterizza la sua musica: estetica hip-hop e vena soul trovano ancora una volta un equilibrio invidiabile, garantito dal lavoro del suo amico Timothy Mosley (aka Timbaland) in fase di produzione. Ma si diceva “sostanzialmente” non a caso; perché è vero che il Timb-sodalizio lo si riconosce a mille miglia di distanza, ma comunque dal secondo e ultimo tassello della discografia di Justin ("Futuresex/Lovesound", 2006) è passata un’eternità, e il tempo spesso cambia le persone. Justin oggi ha 32 anni e una moglie, e per quanto ci si voglia concentrare unicamente sulla produzione artistica si tratta di due dettagli che non possono passare inosservati. In effetti The 20/20 Experience fa di tutto per sembrare un disco maturo: l’abito scuro non lo indossa solo Justin, ma anche e soprattutto le sue canzoni. E’ bene dimenticarsi dell’andamento funky aggressivo di "Rock your body", dei synth trance di "My love" o della prepotenza di "Sexy back"; qui gli arrangiamenti si buttano volentieri sul vintage con fiati e archi ("Pusher love girl", "Let the groove get in"), optano per batterie elettroniche morbide di derivazione 80 ("Suit & tie", "Strawberry bubblegum") e ogni tanto fanno capolino sperimentalismi percussivi e linee ritmiche moderne ("Don’t hold the wall", "Tunnel vision"). Ma la goduria suprema è quando passato e futuro si mischiano, come nella visionaria "Spaceship coupe" o nella sublime "That girl". Inoltre la durata del disco supera l’ora, ma i pezzi sono solo 10; se chiedete a Justin cosa gli passasse per la testa quando ha pensato di registrare brani della durata di 7 o 8 minuti lui risponde candidamente: “Se l’hanno fatto i Pink Floyd, I Led Zeppelin e i Queen, perché non posso farlo io?”. Boria? Mica tanto. Ascoltare il lento dispiegarsi di una ballad come "Blue ocean floors" – tra effetti reverse, archi sullo sfondo e appoggi di piano a riempire – non stanca, così come nei 485 secondi di "Mirrors" (il numero più mainstream dell’album) non affiora la minima sensazione di noia. Justin Timberlake si è sempre ritagliato un suo spazio nel mondo del pop, raggiungendo il successo percorrendo strade non del tutto convenzionali; sarebbe un vero piacere ritrovare qualche brano di "The 20/20 experience" in mezzo alle casse dritte (tutte uguali) che dominano le classifiche di questi tempi.

8.5/10

Highlights: Pusher love girl, Suit & tie, Tunnel vision, Spaceship coupe, That girl, Mirrors, Blue ocean floors.