Fermi tutti: c’è il nuovo dei Muse. Quelli che sono in tre ma sembra che suonino in otto, quelli che dovevano diventare i nuovi Radiohead e poi no, quelli che hanno preso per i fondelli la Ventura a Quelli che il calcio perché rifiutavano il playback e allora hanno deciso di scambiarsi i ruoli. Quelli bravi ma un po’ spacconi, che danno titoli pomposi ai loro dischi (Origin Of Symmetry, Black Holes And Revelations, The Resistance). Quelli alternativi per indole, che a furia di sperimentare e azzardare dividono fan e critica, ma riescono comunque a rimanere un punto fermo della musica di oggi. Il sesto album in studio di Matthew Bellamy, Chris Wolstenholme e Dominic Howard è qui, e come al solito si tratta di un lavoro sotto molti aspetti non facile da analizzare.
Per esempio sarebbe interessante soffermarsi sulla copertina che raffigura la mappa di un cervello umano (presa in prestito dal progetto Human Connectome che punta ad analizzare le connessioni neurali attraverso colori al neon) o tentare di capire la relazione tra i testi delle canzoni e il titolo del disco (che si riferisce al secondo principio della termodinamica); ma personalmente di scienza e fisica non ci ho mai capito una mazza, e comunque c’è talmente tanto da dire sulla loro musica che avventurarsi in ulteriori analisi metaforiche richiederebbe un lavoro a parte.
Che musica sia, dunque; e pronti via - alla faccia dell’ambizione - i Muse ci sbattono in faccia una suite. E’ solo l’inizio, ma assume subito i contorni di una dichiarazione d’intenti ben precisa, che il trio nel tempo ha ribadito spesso con i fatti: loro fanno esattamente quello che vogliono. Si possono permettere di scrivere un pezzo eroico per le Olimpiadi di Londra con un testo spudorato tutto orgoglio e onore, e poi decidere che il ruolo di secondo singolo spetti a Madness, un brano che è una follia di nome e di fatto. Voce completamente pannata a destra che s’incanta su una sillaba mentre un basso elettronico strizza timidamente l’occhio al dubstep, batteria di plastica un po’ hip hop, arrangiamento minimale; solo al terzo minuto il pezzo prende una forma più consona a un passaggio radiofonico – cosa a cui evidentemente non danno tutta questa importanza, come invece accade per molte altre band pop-rock. Che caratterino, i Muse: la loro determinazione nel volere dettare le regole – e non seguirle – è sempre stata lodevole.
Capita quindi – come se niente fosse - che in due canzoni la voce di Matthew sia sostituita da quella di Chris (il bassista). Non vi preoccupate se ascoltando Save Me e Liquid State fate fatica a riconoscerli: è tutto pianificato, è proprio quello che vogliono loro. Se la cosa vi disorienta potete sempre trovare rifugio nella sobrietà delle innocue (innocue, non brutte) Explorers e Animals, e ritroverete le sonorità che avete imparato a conoscere e apprezzare. Se siete tra quelli che non hanno gradito l’olimpica Survival perché troppo “commerciale”, l’invito è quello di evitare accuratamente Panic Station, che con il suo istinto disco-funk non mancherà di provocare infinite conversazioni a colpi di commenti su youtube. Infine, se vi sono venuti i brividi quando Bellamy e soci hanno dichiarato pubblicamente che il nuovo album sarebbe stato influenzato anche da quel teppista sonoro che risponde al nome di Skrillex fareste meglio a stare alla larga da Follow Me e soprattutto da Unsustainable, perché lo shock potrebbe essere fatale.
Se invece adorate i Muse e non avete paura di niente, siete fortunati: vi godrete appieno un altro ottimo lavoro di una delle band da stadio più audaci dei nostri tempi.
8/10
Highlights: Tutto.
1 commento:
Bravo Marco! Bellissima recensione.. l'aspettavo! Domani sarò a Londra a godermi il loro live all'O2 Arena! ;)
Annalisa
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