I territori su cui si muove il primo disco di Noel Gallagher senza il fratellino sono tutt'altro che inesplorati: sarebbe un peccato del tutto perdonabile confondere uno qualsiasi dei brani qui inclusi con una canzone degli Oasis di fine anni novanta. Ma dopotutto ci si aspettava qualcosa di diverso? Chi si lascerà intrappolare dalla ragnatela emotiva abilmente tessuta da Noel ci sguazzerà, gli altri rimarranno piuttosto freddini nei confronti di un disco non fondamentale - soltanto gradevole.
7/10
Highlights: Dream on, If I had a gun, The death of you and me, Aka...broken arrow, Stop the clocks.
Meno immediato del precedente "Vantage point", ma comunque ennesima dimostrazione di un scelta lucida che sacrifica le sperimentazioni del passato in favore di una perfezione stilistica matura e cosciente.
7/10
Highlights: Keep you close, Dark sets in, Twice (we survive), The end of romance.
Sotto consiglio (ed etichetta) di Damon Albarn, Martina Topley Bird riprende alcuni suoi brani e li esegue in maniera molto più spontanea e scheletrica, lasciando da parte quasi completamente il discorso di post-produzione e creando il giusto spazio per la sua voce intrigante, imperfetta e misteriosa.
Rock languido alla Radiohead vecchio stampo? Fatto. Cori da stadio modello U2? Fatto. Aperture a sperimentazioni elettroniche e concettuali? Fatto. In 15 anni di carriera i Coldplay hanno emozionato nei modi più semplici e stupito esplorando sentieri meno battuti. Si sono emulati da soli e quando è affiorata la stanchezza hanno avuto la lucidità di reinventarsi. Sono stati idolatrati e sminuiti, odiati e amati. Ma percorrendo una strada tutta loro (dal rock al pop) non si sono mai pentiti, ostentando una personalità forte, indistruttibile. Non è quindi più tempo di aspettarsi rivoluzioni, perché un fatto è certo: qualsiasi creazione nasca dalla mente di Chris Martin e soci è sigillata da una magica aura di credibilità. Le discutibili accuse di plagio e il dito dei fan puntato su alcune derive dance non possono lontanamente scalfire le ambizioni e le convinzioni di una band che non deve più chiedere niente a nessuno, ma che al contrario si può permettere di indicare la via alla musica moderna - sia scalando le chart che rimanendo tra le ben più intime pareti dei propri dischi. Ecco quindi che il quinto album del quartetto inglese riassume adeguatamente tutte le caratteristiche che li contraddistinguono in tre quarti d’ora intensi e - una volta messi da parte i pregiudizi - inattaccabili.
Partiamo dalle certezze: i Coldplay sono bravissimi a scrivere canzoni coinvolgenti che incontrano con facilità il gusto e l’approvazione di un pubblico molto vasto. La formula è ben esemplificata da una ballad epocale come Paradise, che fa leva su un impeccabile arrangiamento orchestrale ed è abilmente insaporita da maliziosi accorgimenti presi in prestito dalle classifiche pop dei giorni nostri. L’abilità compositiva della band non viene a galla solo con pezzi strappa-lacrime: le dimostrazioni si trovano nella freschezza dell’opener Hurts Like Heaven, nel rock incalzante di Don’t Let It Break Your Heart, nella magia del variopinto finale Up With The Birds o in un pezzo solido come Major Minus - il cui ritornello farà certamente fischiare le orecchie a Bono e compagnia bella. Gli schizzi più confidenziali (Us Against The World e U.f.o.) sono brevi ma intensi, mentre gli interludi ci ricordano che Chris Martin ha definito Mylo Xyloto un album concettuale e rendono evidente lo zampino del fidato Brian Eno.
Poi volendo si fa presto a criticare il singolo Every Teardrop Is A Waterfall per il suo riff che strizza un occhio alla dance oppure Princess Of China per il chiacchierato cameo di Rihanna: ma quello che non torna è la facilità con cui si bollano certi pezzi come spudorati o fuori luogo senza pensare che il loro cuore è di ottima fattura. L’apparenza è forse più essenziale del valore della musica? I Coldplay non sono più rock, ma soltanto un’altra band pop che contamina le nostre frequenze con featuring spiazzanti e tributi sfacciati? Il dibattito potrebbe anche andare avanti all’infinito, ma il succo non cambia: comunque la si voglia vedere (e lo ammetto anche io, che vorrei un altro Parachutes da ascoltare alla nausea), questa è un’ennesima prova di forza, bella e buona.
7/10
Highlights: Hurts like heaven, Paradise, Charlie Brown, Us against the world, Princess of China, Up with the birds.
Entrate, mettetevi comodi. Benvenuti nel mondo di Nero. Prima di cominciare vi consiglio di mettere da parte qualsiasi velleità artistica e di attivare la cosiddetta 'modalità ignoranza' - intesa come condizione di stato d'animo necessaria (ma a volte non sufficiente) per apprezzare la musica di David Guetta. Scommetto che l'avevate già capito dalla copertina, ma non si sa mai. Quello che sentite intorno al minuto 2 è un Hover di rave memoria, in tempi recenti rispolverato da Bloody Beetroots e compagnia bella. La cassa di "Doomsday" è dritta, ma dopo una pausa meditativa il tempo della batteria viene prevedibilmente diviso per due, mentre i synth sudici raddoppiano, triplicano, si contorcono impazziti. Non è facile stare fermi, vero? "My eyes" si lancia in un pop elettronico che sembra trance al rallentatore, e poi entra anche un piccolo assolo di chitarra che dribbla in un flash il cool e pende pericolosamente verso il kitsch. Ma Daniel Stephens e Joseph Ray non si sentono in colpa per questa caduta di stile, anzi: rincarano la dose con una "Guilt" a metà tra il nostalgico e il poco significante. Sono invece energici i cut-up saltellanti di "Fugue state": niente di sbalorditivo, ma perlomeno ritorna quella spinta a volersi alzare dalla sedia a tutti i costi. Quello che sentite in "Me and you" è un impasto ben riuscito di istinto rock, tamarria dubstep e violenza sonora applicata ad un contesto melodico: lodevole e molto Pendulum. Non ve ne accorgerete neanche e sarà già "Innocence", singolo giustamente esaltato e vincente per costruzione e tono. Le voci e i sospiri fradici di riverbero che troverete nell'episodio più introspettivo dell'intero disco ("In the way") vi faranno quasi credere che alla fine potrebbe esserci della sostanza nascosta dietro a tutta la cafonaggine che vi siete sorbiti: perfino le terzine di "Scorpions" sembrano avvalorare questa ipotesi. Purtroppo la rielaborazione di "Crush on you" dei Jets è abbastanza pacchiana, la stesura di "Reaching out" appare scontata come la citazione delle prime note di "You came" di Kim Wilde che contiene e il pop-rock (futuristico o semplicemente sbagliato?) di "Promises" è qualcosa di decisamente ridondante. E' un vero peccato, perchè così farete fatica a scorgere quello che c'è di buono nell'interessante breakbeat in salsa-funk ("Must be the feeling") che c'è in mezzo a tutta quella sbobba cheesy. Il viaggio si chiude con un'insapore "Departure", a testimoniare la pulizia (forse esagerata) della forma a scapito di poca e poco ispirata sostanza.
6/10
Highlights: Doomsday,Fugue state, Innocence, In the way, Scorpions, Must be the feeling.
Un paio di mesi fa i francesi Gaspard Augè e Xavier de Rosnay parlarono del loro imminente album in un’intervista: in quello che sembrò un impeto di modestia lo definirono come un disco prog-rock suonato da musicisti assolutamente non all’altezza di tale impresa. Ma quale modestia: è esattamente l’impressione che si ha fin dalle prime note di Audio, Video, Disco. Tra citazioni eccellenti e richiami volutamente anni 70, i Justice conservano la loro attitudine dance fatta di ritmiche spezzate, synth distorti e compressioni spinte, deviando però il loro metodo compositivo verso territori più complessi rispetto all’acclamato esordio. Chi si aspettava altri singoli-bomba rimarrà deluso, ma non per questo bisogna gettare fango su un lavoro ben eseguito e degno ambasciatore dell’era bastarda nella quale viviamo.