Il definitivo addio alle tentazioni mainstream di Crispian Mills e soci è un piacere dal gusto retrò che si fa gustare da cima a fondo, senza interruzioni.
8.5/10
Highlights: Tutto.
Gli Hot Chip sono sempre stati bravi a mescolare melodie cristalline ed elementi sintetici e giocosi appartenenti al regno del synth-pop con quella dose di funk necessaria a donare anima live alla loro musica. Nel loro quarto disco la formula non viene toccata eccessivamente, e la vittoria più che negli arrangiamenti sta nella scrittura; là dove non svetta in modo particolare la destrezza compositiva ("Brothers", "Alley cats", "We have love") si accusa una leggera stanchezza, mentre pezzi come "Thieves in the night" e "Hand me down your love" sono capaci di farti cominciare la giornata con un gran bel sorriso stampato in faccia.
L'esordio solista del leader dei Sigur Ros ne rappresenta il limite pop; le melodie appaiono infatti molto più identificabili rispetto a quelle cantate con la sua band, ma sono comunque sostenute da arrangiamenti bastardi che accostano senza problemi il mondo acustico a quello digitale, in un impasto sonoro vario e fiabesco. Che il signor Birgisson avesse il dono lo si sapeva già; "Go" è una soave conferma.
Nonostante la line-up della band sia cambiata radicalmente rispetto al disco di debutto, non cambiano di una virgola i riferimenti storici. E quindi vai di riff assassini, acuti iperbolici e citazioni hard/stoner-rock. Niente miracoli dunque, ma è innegabile che Andrew Stockdale faccia piuttosto bene quello che vuole (e gli piace) fare.
Il sesto album dei Faithless parte senza nessun preambolo, ma paradossalmente fa un po' fatica a decollare. Il singolo "Not going home" si fa ascoltare ma non stupisce certo per originalità; "Feel me" invece sa di X-Press 2 scaduti, e l'intermezzo reggae "Crazy bal'heads" è un pesce fuor d'acqua. La stanchezza viene parzialmente ridimensionata da "Coming around", ma non è un caso se "Tweak your nipple" inizia con Maxi Jazz che da un altro benvenuto all'ascoltatore; è proprio dalle svisate trance di questo pezzo che "The dance" comincia a convincere. La parentesi downbeat composta da "Flyin hi" (poesia) e "Love is my condition" è un toccasana per l'anima, e la voce della brava Mia Maestro funge da riscaldamento per l'entrata in scena della sorellina di Rollo, meglio nota come Dido: "Feeling good" fa il suo dovere, anche se è "North star" il pezzo che entra nel cuore. Adesso si che ci siamo; adesso è il momento di giocare l'asso. "Sun to me" è un anthem di proporzioni epiche, da conservare preferibilmente per l'attimo fuggente in cui il sole comincia a fare capolino dopo una notte brava. I dubbi iniziali svaniscono: si può tornare a casa con un sorriso.
Il genio di Daniel Victor Snaith che si destreggia tra pop raffinato e saltellante ("Odessa") e techno-jazz minimalista e ipnotica ("Sun"), dolce synth-pop sospeso nel nulla ("Kaili") ed eleganti progressioni electro ("Found out"), intelligent dance music in quattro quarti ("Bowls") e disco anni zero ("Leave house"), pseudo-house storta e narcotica ("Hannibal", "Lalibela") e sghembo soul futuristico ("Jamelia"). Un mondo magico dove si incontrano matematica e anima, dove la cura per i particolari va a braccetto con brani di un certo spessore melodico, dove intrecci apparentemente improbabili suonano naturali e freschi.