Evento. Più di dieci anni senza La Band di Bristol; una delle poche, forse l'unica, che è riuscita a dare una dimensione live al trip-hop. Si parte con "Silence", che è un paradosso perchè quei tamburi distorti sono tutto tranne che silenziosi (soprattutto se il punto di riferimento è il Portishead sound); la melodia in costante sospensione viene bruscamente interrotta quando meno te l'aspetti e il risultato è che si ha ancora più fame di loro. Il trip-folk dela successiva "Hunter" mette i brividi, "Nylon smile" gioca con intrecci di reverse, "The rip" parte splendidamente morriconiana e lo-fi per poi trasformarsi e lasciare spazio ad un arpeggio di synth. "Plastic" è il pezzo più contorto a livello di arrangiamento: bruschi stop & go, inserti quasi industrial, lavorazioni concettuali del suono della batteria e inquietanti effetti sparsi. Nell'incalzante "We carry on" ritornano invece le dissonanze del loro secondo disco, accompagnate da contrappunti di basso e da scansioni di rullante in levare militaresche; il tema non è introdotto a caso, visto che dopo lo sketch di reminiscenze sixties "Deep water" siamo attesi dalla prepotenza di "Machine gun", capolavoro onomatopeico e minimale che fa leva sul contrasto fra le distorsioni della base e la delicatezza della voce di Beth Gibbons. Il tempo dispari di "Small" rafforza la tetraggine e la tensione dell'intero lavoro, che viene in qualche modo compensata dalla melodia familiare di "Magic doors"; a chiudere il rock cupo di "Threads". Se lo scopo di aspettare dieci anni era dimostrare che la musica dei Portishead trascende tempi e definizioni la missione è stata portata a termine con successo.
La parentesi synth-pop (più pop che synth in "Supernature") sembra chiudersi a favore di un ritorno alle atmosfere downtempo dell'esordio; il bpm si alza infatti solo in un paio di occasioni ("Happiness" e "Caravan girl"), senza però mai raggiungere gli estremismi elettronici dei due dischi precedenti. Perchè "Seventh tree" è, ovviamente e inevitabilmente, un album che fa ampio uso di suoni digitali; ma la sua vera forza sta nel fatto che questi dieci brani starebbero in piedi anche soltanto con una chitarra e la voce (sempre incantevole) di Alison Goldfrapp. L'apertura "Clowns" in questo senso sembra una dichiarazione d'intenti, confermata dalla successiva ninna nanna "Little bird"; "Eat yourself" è una chicca quasi folk, "A&e" potrebbe essere una hit da classifica pop se arrangiata in modi più espliciti, mentre "Some people" e "Cologne Cerrone Houdini" ricalcano il disegno di "Felt mountain", che viene in chiusura estremizzato dalla infinita "Monster love". Una panacea per l'anima.
Quello che chiamano "dubstep", ovvero un evoluzione dub del garage sound con ritmi obbligatoriamente spezzati e dallo swing prepotente, sub all'ennesima potenza, divaghi dancehall, pad di derivazione ambient e una inspiegabile urgenza introspettiva nel mood; "Get up" e "Battered" sono due perle.
8/10
Highlights: Brighter day, Get up, One blood one source, Gangstaz, Battered, Lazarus.